Niente pugnale sacro in pubblico. La giusta sentenza della Cassazione
Maria Mantello
Prima i valori democratici poi i precetti religiosi. Questo il senso della sentenza della Cassazione numero 24084 del 31 marzo 2017, depositata il 15 maggio scorso.
La Suprema Corte è intervenuta sulla rivendicazione di indossare il Kirpan, un pugnale di 18 centimetri, da parte di Singh Jathinder, indiano di religione sikh.
Condannato dal tribunale di Mantova il 5 febbraio 2015 al pagamento di 2000 euro per essersi rifiutato di consegnare alla polizia l’arma che portava alla cintola, sostenendo che si trattasse di un “sacro” precetto, Singh Jathinder aveva presentato ricorso, appellandosi al «diritto di professare liberamente la propria fede religiosa».
La Corte di Cassazione però ha rigettato il suo appello, stabilendo che «nessun credo religioso può legittimare il porto in luogo pubblico di armi o di oggetti atti a offendere».
La sentenza della Cassazione ha motivato l’assenza di «giustificato motivo» a quel pugnale con tutta una serie di argomentazioni sulla necessaria compatibilità tra usi religiosi e legislazione democratica, ai cui principi valoriali tutti si devono integrare: immigrati compresi.
Si legge infatti nella sentenza: «se l’integrazione non impone l’abbandono della cultura di origine, in consonanza con la previsione dell’art. 2 della Costituzione che valorizza il pluralismo sociale, il limite invalicabile è costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante». Pertanto «è essenziale l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di inserirsi e di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e quindi della liceità di essi in relazione all’ordinamento giuridico che la disciplina».
La libertà religiosa è certamente fondamentale, ma non al di sopra del patto democratico di cittadinanza, e quindi – affermano i giudici – va inserita nell’alveo delle garanzie di civile convivenza democratica.
E non tralascia la Cassazione di menzionare il diritto europeo, in particolare l’articolo 9 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo: «La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e costituiscono misure necessarie, in una società democratica, per la pubblica sicurezza, la protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o per la protezione dei diritti e della libertà altrui».
Insomma credenze e usi religiosi non costituiscono un lasciapassare in deroga a laicità e democrazia.
E in questa prospettiva, la sentenza può contribuire a far riflettere sugli equivoci di certo multiculturalismo, che sotto il paravento della “libertà religiosa”, fatta coincidere con l’appartenenza al gruppo religioso, arriva a giustificare anche patriarcato e discriminazioni sessiste.
La libertà religiosa, conquista laica dell’Occidente, non può essere usata quindi strumentalmente per ribaltare i principi di civile convivenza democratica su sui si fondano le democrazie. Vale per ogni religione: sia di casa nostra sia d’importazione.
La libertà è intransigente e non può esserci senza il prerequisito della laicità, quella che la nostra Costituzione Repubblicana pone a suo supremo principio per la tutela della dignità di ciascuno e quindi di tutti!
E su queste radici laiche di emancipazione, autonomia, autodeterminazione si afferma la separazione tra Stato e Chiese, che altrimenti è puro esercizio retorico e non baluardo di democrazia.
(18 maggio 2017)
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