Nel secondo millennio i papi non venivano proclamati santi (con due eccezioni, Gregorio VII e Pio V, ma a distanza di molto tempo, il primo dopo cinquecento anni, il secondo dopo cento). Solo nel novecento le cose sono cambiate. Ci chiediamo: un papa non può che essere Santo? La santità è un corollario del suo ruolo? Canonizzando quasi tutti i papi dell’ultimo secolo e mezzo, bilanciando personalità e linee pastorali diverse ed anche opposte tra di loro, non si favorisce una vera e propria papolatria? Tutto ciò ci sembra contrario allo spirito del Concilio Vaticano II ed al tipo di Chiesa che esso ha prefigurato. Si punta a una specie di glorificazione della natura superiore del papato, della sua infallibilità e ciò ha più efficacia quando interessa papi morti da poco, ben conosciuti e tali da suscitare emozioni e riconoscimenti. Non si dovrebbe lasciare la valutazione della santità alla storia con i tempi necessari, con la apertura degli archivi, con una riflessione sul lascito che nei decenni successivi ogni pontificato ha lasciato?
Si ripete che il giudizio sulla santità è sempre dato in relazione alle virtù personali e non alle decisioni di governo, sia di tipo teologico che pastorale o politico, che possono essere più o meno condivise. È una argomentazione fragile. La personalità di ogni pontefice si intreccia sempre con il ruolo che ricopre, per cui la distinzione proposta è davvero difficile. L’esperienza stessa conferma la forte valenza “politica” di ogni canonizzazione. Per esempio, quella di papa Pacelli si è arenata per motivi solo di opportunità (l’ostilità del mondo ebraico), quella di papa Sarto fu la conseguenza della volontà di Pio XII di usarne il modello intransigente (scontro col modernismo) per la gestione della chiesa, l’abbinamento delle due canonizzazioni di papa Roncalli e di papa Wojtyla nel 2014 sono state l’affermazione abbastanza esplicita della contemporanea validità dell’insegnamento del papa del Concilio e del papa che lo stesso Concilio aveva messo da parte. Un altro abbinamento, ancora più discutibile, avvenne nel 2000 con la contemporanea beatificazione di Pio IX e di Giovanni XXIII, due papi che più diversi è impossibile trovarne. Sempre da un’ottica di opportunità politica ci si può chiedere perché non si è mai parlato e non si parla della possibile canonizzazione del papa che condannò l’“inutile strage” della prima guerra mondiale, Benedetto XV. Ci chiediamo se essa non sarebbe opportuna proprio nel momento in cui si è riflettuto e si riflette sulla Grande Guerra, a cento anni dalla sua fine, scoprendo, soprattutto ora, quanto fossero veramente profetiche fino in fondo le sue parole?
È il sistema delle canonizzazioni che va cambiato
Queste canonizzazioni dei papi sono eventi non ecumenici e sono in contraddizione con gli stessi passi in avanti di papa Francesco nei rapporti con le altre Chiese. Il fastidio per questa linea del Vaticano è stato espresso più volte e in modo più che esplicito da esponenti molto autorevoli delle Chiese evangeliche. La canonizzazione dei papi, nel bene o nel male, interessa tutta la cristianità. Il ruolo di “primus inter pares” per il papa, tante volte ipotizzato soprattutto nel rapporto con le Chiese Ortodosse, viene vanificato se poi la prassi va nella direzione di una forte affermazione del ruolo del vescovo di Roma.
La canonizzazione dei papi non è separata da una riflessione generale che abbiamo fatto altre volte sul sistema della “fabbrica” dei beati e dei santi : la politica grandemente inflazionistica nel numero dei santi; le procedure segrete, costose e teologicamente ambigue che portano alla loro proclamazione; il numero del tutto esiguo di santi tra cristiani “normali”, che non siano fondatori di ordini religiosi o appartenenti all’ordine clericale e magari padri o madri di famiglia; le canonizzazioni che hanno creato grandi perplessità (per esempio Escrivà de Balaguer, le migliaia di martiri nella guerra civile in Spagna…).
Tutto il sistema dovrebbe essere rivisto. Per quanto riguarda i papi, noi pensiamo che essi non dovrebbero essere coinvolti nel processo di canonizzazione se non dopo cento anni o più dalla loro morte. In generale, la nostra proposta è quella di una immediata moratoria che sospenda procedure e proclamazioni per almeno vent’anni, in modo da riprendere a riflettere in tutta la Chiesa sul loro senso pastorale con un animo diverso, che magari abbia fatto nuove riflessioni su quella parte della religiosità popolare che è più coinvolta nella devozione ai santi. Questo stop servirebbe per capire se e quanta sia la sua contraddizione con il messaggio radicale del Vangelo che combatte ogni forma di idolatria o di superstizione.
Tutto ciò premesso a proposito di una proclamazione che non condividiamo, nel momento in cui vi è grande attenzione sul pontificato di Paolo VI, fino ad ora quasi dimenticato per il particolare ruolo sia del pontificato precedente che di quello successivo, ci permettiamo di esprimere i nostri punti di vista su un papa che è stato di grandissima importanza nella storia recente della nostra Chiesa.
Il pontificato di Paolo VI: prima fase
Per lunghi anni Mons. Montini rappresentò nella curia romana la corrente ostile al fascismo, aperta alla cultura cattolico-democratica di provenienza francese (Maritain, Mounier) e quindi differente dalla rigidità pacelliana. Per le ostilità che aveva suscitato, fu trasferito a Milano dove, come arcivescovo, fece una diretta esperienza di attività pastorale in una metropoli ed ebbe un ruolo importante nell’attenzione al movimento dei lavoratori. La sua personalità di pontefice deve essere collocata nel momento storico in cui egli si trovò a guidare la Chiesa, che ai tempi della guerra fredda era parte del mondo occidentale ed il Vaticano era piuttosto italiano ed eurocentrico. Fu eletto papa dai cardinali che volevano continuare il Concilio contro quelli che volevano chiuderlo. Egli tenne fede al mandato ricevuto e va ascritto a suo indubbio merito l’essere riuscito a portarlo a termine collaborando, con alcune prudenze ed evitando strappi, a questa svolta fondamentale nella storia della Chiesa. La prima parte del suo pontificato fu quella in cui fu più presente sulla scena internazionale, col pellegrinaggio in Palestina (gennaio del ’64), col discorso all’assemblea delle Nazioni Unite sulla pace e il disarmo (ottobre del ’65), con la proclamazione nel 1968 del primo gennaio “Giornata della pace”, anche con la Östpolitik che era in controtendenza nei confronti dei furori ideologici e politici della contrapposizione Est-Ovest. Ma soprattutto con la Populorum Progressio del 1967 recepì analisi e proposte delle posizioni terzomondiste. Contemporaneamente iniziò a viaggiare, inaugurando una fase nuova nel ruolo del pontefice romano nel mondo prima chiuso nel circuito romano, cercò di internazionalizzare la Curia e istituì i Pontifici Consigli per il dialogo interreligioso, per l’unità dei cristiani e per la giustizia e la pace. Sotto questo profilo egli fu protagonista di una positiva discontinuità, aprendo nuove vie.
Seconda fase
Per quanto riguarda la gestione interna della Chiesa Paolo VI attuò l’importante riforma della liturgia che era stata sollecitata dal concilio, escluse i cardinali ultraottantenni dal conclave, limitò la funzione episcopale ai 75 anni e aprì una nuova fase nei rapporti ecumenici, a partire dall’incontro col patriarca ecumenico Atenagora a Gerusalemme, con la conseguente reciproca remissione delle scomuniche del 1054.
Queste scelte, coerenti col messaggio conciliare, si intrecciarono con decisioni contraddittorie o fortemente criticabili. Abbiamo in mente la destituzione del Card. Lercaro nel 1968. Ci riferiamo da una parte all’istituzione del Sinodo dei vescovi con poteri solo consultivi, disattendendo così la vera collegialità che era stata preconizzata dal Concilio, dall’altra alla enciclica Humanae Vitae (1968). Questo intervento unilaterale di Paolo VI fu anche la conseguenza dei limiti che egli stesso pose alla competenza del Concilio avocando a sé ogni decisione in materia di celibato dei presbiteri e di morale sessuale. Questa enciclica fu un errore, a lui solo addebitabile, che ha avuto conseguenze pesanti nella vita della Chiesa. Infatti, la Humanae Vitae, immediatamente contestata e non recepita dalla grande maggioranza del popolo cristiano, minerà nei decenni la credibilità del magistero papale, anche perché i suoi successori, con uno zelo degno di miglior causa, faranno della fedeltà all’insegnamento di questa enciclica la prova di ogni vera ortodossia teologica e pastorale e, di conseguenza, la condizione per essere ammessi ai ruoli ministeriali e magisteriali nelle diocesi, nei seminari e negli ordini religiosi.
Ultima fase
Nell’ultima fase, quella declinante del suo pontificato, di fronte ai movimenti del ’68 e degli anni successivi e alle trasformazioni della cultura e del costume, Paolo VI fu preoccupato di frenare l’attuazione del Concilio, temendo per la “tenuta” della Chiesa. Nel nostro paese avvallò la campagna contro la legge sul divorzio e continuò a sostenere l’unità politica dei cattolici. Nelle ultime settimane della sua vita soffrì il dramma di Aldo Moro. Trattando il tema del dialogo all’interno della Chiesa, lo svilì poi nella gestione concreta del sistema ecclesiastico sottoponendolo a una rigida interpretazione in termini di obbedienza all’autorità.
In questo contesto va collocata la distanza che egli sempre mantenne nei confronti dei fermenti che percorsero la base della Chiesa nella vasta galassia di quello che si usava chiamare “cattolicesimo del dissenso” o di quanti, comunque, in varie forme e modi, esprimevano disagio nei confronti delle lentezze o dello stop alle riforme indicate dal Concilio. Questa linea, troppo prudente ed identitaria, provocò emarginazioni (in Italia la più significativa e dolorosa è stata quella di Giovanni Franzoni) ed allontanamenti dalla Chiesa e pose alcune delle premesse per l’involuzione che, dagli anni ottanta in poi, condizionò il possibile rilancio del messaggio evangelico dopo il Concilio. In reazione a questo arretramento nascerà negli anni novanta anche il movimento “Noi Siamo Chiesa-We Are Church”.
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