Noi siamo Mila

Raffaele Carcano

, da Uaar.it
Mila ha sedici anni. Ama il canto, è apertamente omosessuale e ha una pagina Instagram che riscuote un po’ di successo. Un giorno, proprio su quella pagina, un giovane musulmano cerca pesantemente di rimorchiarla. Lei lo rifiuta. Lui la prende male: la definisce una razzista, un’islamofoba e “una sporca lesbica”. Lei reagisce duramente. E posta un video in cui dichiara di detestare tutte le religioni, che “l’islam è una merda”, e che al suo dio metterebbe un dito da dove esce.

Tanto basta.

Tanto basta perché la pagina Instagram di Mila sia immediatamente sommersa da duecento insulti al minuto e da migliaia di richieste di stuprarla e ucciderla. Ha schiacciato il pulsante sbagliato, Mila, e la sua vita non è più la stessa. Non può più andare a scuola. Finisce sotto protezione, nascosta chissà come e chissà dove. Parte l’inchiesta contro chi l’ha minacciata di morte, ma ne parte una anche contro di lei, accusata di “incitamento all’odio razziale e religioso”.

È un’accusa che ovviamente è già caduta, perché Mila ha espresso soltanto la sua opinione, senza spingere qualcuno a compiere violenza. A differenza di quanto hanno fatto migliaia di altri francesi, coalizzatisi per bullizzarla. A difesa del buon nome dell’islam.

Personalmente non mi verrebbe mai in mente di paragonare una religione agli escrementi, ma nemmeno mi verrebbe mai in mente di offendermi perché qualcuno scrive da qualche parte “ateismo di merda”. Molto banalmente, se la legge è uguale per tutti, allora tutti dovrebbero avere gli stessi limiti e gli stessi diritti di insultare un’ideologia, che sia religiosa o no. Con la sola eccezione delle istituzioni, che sono tenute a restare rigorosamente neutrali – e possibilmente non volgari.

Ma i fedeli pretendono rispetto. Lo esigono, e non esitano a ricorrere alle maniere forti per farlo capire. La ministra della giustizia Nicole Belloubet, che non sembra curarsi degli oltre diecimila “Macron de merde” censiti da Google, è stata chiamata a commentare l’episodio in tv. E dopo aver preso formalmente le distanze dalle minacce di morte a Mila, ha però sentito il bisogno di aggiungere che si è “evidentemente trattato di un attacco alla libertà di coscienza”. E non si riferiva certo a quella di Mila.

La ministra ha poi fatto retromarcia. L’ha fatta anche il Consiglio francese del culto musulmano, il cui delegato generale Abdallah Zekri aveva affermato che “chi semina vento raccoglie tempesta” e che Mila “se l’è andata a cercare”. Sono andati un po’ troppo oltre per una nazione che le leggi che criminalizzano la blasfemia le ha abolite da parecchio tempo , e che solo qualche settimana fa ha commemorato i disegnatori del Charlie Hebdo, trucidati cinque anni fa. Sul web si è prontamente diffuso l’hashtag #JeSuisMila – ma in misura non piccola anche il suo opposto, #JeNeSuisPasMila. Anche la politica si è divisa: una volta di più, la destra ha strumentalizzato l’episodio (facendo sotto sotto capire che sarebbe meglio disfarsi dell’islam) e la sinistra è rimasta quasi completamente silente (facendo sotto sotto capire che l’islam non va mai criticato, a prescindere).

Sarebbe più semplice, onesto e realista ammettere che l’islam rappresenta oggi un problema, e che come tutti i problemi si devono cercare soluzioni per conviverci. Vien da pensare che sia ormai impossibile anche solo tentare di trovarle, in questo mondo sempre più polarizzato, in politica come su internet. È invece l’unica strada perseguibile. E forse lo pensa anche la maggioranza della popolazione, che non trova però il coraggio di esprimerlo. Spingerla a farlo è un obbiettivo decisivo per far progredire ancora questo mondo e chi ci abita.

(4 febbraio 2020)





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