Non credenti, cultura e discriminazione
Gherardo Colombo
Nonostante il nostro Paese assuma sempre più i contorni da un lato di una società secolarizzata e, dall’altro, di una società multiculturale e multireligiosa, sembra che la questione della libertà di religione e dalla religione sia completamente rimossa dall’agenda della politica.
Per questo l’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (Uaar) ha organizzato, il 10 gennaio scorso a Roma, il Convegno “Credenti e non credenti, differenti con identici diritti”, al quale hanno partecipato, in qualità di relatori, Laura Balbo, sociologa e presidente onoraria dell’Uaar, l’ex magistrato Gherardo Colombo, Paolo Ferrero, il sociologo, esperto di islamismo Khaled Fouad Allam, il docente Stefano Levi della Torre, esperto di ebraismo, Aurelio Mancuso, presidente di Equality Italia, Stefano Moriggi, filosofo della scienza e il senatore Lucio Malan.
Di seguito il testo dell’intervento di Gherardo Colombo (trascritto da registrazione e non rivisto dall’autore). Gli interventi integrali dei relatori sono disponibili in formato audio-video sul sito di Radio Radicale.
La discriminazione è sempre stata la regola, più che l’eccezione, nell’organizzazione della società. Ed è per questo che, ferma restando la necessità di una legge sulla libertà religiosa e contro la discriminazione dei non credenti, è necessario innanzitutto lavorare, seguendo la stella polare dell’articolo 3 della nostra Costituzione, ad una cultura del riconoscimento e del rispetto reciproco.
Sento l’importanza di proporre una prospettiva diversa. Mi sembra che siamo un po’ troppo fiduciosi rispetto al consolidamento di qualcosa che ancora in effetti sfugge moltissimo. Voglio dire che il 1685, anno in cui è stata pubblicata la Lettera sulla tolleranza, è dietro l’angolo. Così come è dietro l’angolo il 1865, anno in cui, con il XIII emendamento, è stata abolita la schiavitù negli Stati Uniti d’America.
Questo per significare come sostanzialmente sempre, al di là di quello che noi ci illudiamo che possa essere stato, la società ha ritenuto la discriminazione un valore fondante. Le società si sono sempre organizzate attraverso la discriminazione. Anche la repubblica ateniese, la polis, privilegiava i cittadini maschi, adulti, liberi, con patrimonio. Tutto il resto era fuori.
Ecco, penso che noi di questo ci dimentichiamo. Ci dimentichiamo che il punto di partenza che diamo come storicamente assodato e scontato è dell’altro ieri: sta effettivamente nella nostra Costituzione e poco dopo nella dichiarazione universale dei diritti umani. E ci sta per delle motivazioni molto precise e specifiche, che risultano chiaramente dal preambolo della dichiarazione universale. Nel quale si dice: “Considerato che il disconoscimento e il disprezzo dei diritti dell’uomo hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità, e che l’avvento di un mondo in cui gli esseri umani godono della libertà di parola e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno è stato proclamato come la più alta aspirazione dell’uomo”, e poi: “considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”, allora succede che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”.
Un’affermazione di una novità eccezionale, persino rispetto alla Costituzione della Repubblica romana (1849); persino rispetto alla Dichiarazione dei diritti del 1789, dove io credo che si desse assolutamente per scontato il mantenimento della discriminazione di genere, per esempio.
E da cosa dipende questa novità? Perché è stato scritto questo Preambolo? Per tutto ciò che è successo prima: perché si è arrivati veramente al limite.
Certo per la seconda guerra mondiale, che seguiva un’altra guerra a distanza di poco tempo, sicuramente per la Shoah; credo ancora di più per la bomba atomica. Perché ha trasformato il futuro di chi viveva allora. Un’arma così potente, capace in un solo istante di distruggere città, di uccidere senza limiti: perché se a Berlino qualcuno si è salvato dai bombardamenti, a Hiroshima e Nagasaki non si è salvato nessuno.
Questo dramma epocale ha indotto chi viveva allora a una riflessione che ha portato a una trasformazione di valori. La discriminazione, che prima era un valore – in Italia, per dire, le donne ancora non votavano, le leggi le facevano i maschi; solo nel 1963 è stato concesso alle donne di svolgere la professione di magistrato – non lo è più. (…)
Troppa fiducia, dunque, e troppa fiducia anche nell’efficacia delle leggi. Sono d’accordo con chi afferma che, salvo casi assolutamente eccezionali, la legge viene necessariamente dopo la cultura. Abbiamo leggi contro la corruzione abbastanza forti, eppure la corruzione è un fenomeno sostanzialmente endemico nel nostro paese, a qualsiasi livello. In alcuni paesi esiste la pena di morte e ciononostante quando la cultura porta le persone a comportarsi in distonia, a trasgredire le leggi, quasi sempre è la cultura a vincere sulla legge.
Non possiamo farci troppe illusioni rispetto a quel che possono darci le leggi, mentre forse potremmo cercare di lavorare di più per quel che riguarda l’altro aspetto: quello culturale. A proposito del quale mi viene da pensare a Dostoevskij e al Grande Inquisitore: leggerlo ci sarebbe servito stamane per uscire da una specie di equivoco di fondo a proposito delle possibilità e delle capacità delle persone. Le quali sono contemporaneamente considerate – distinzione che c’è anche nelle Scritture, per esempio nel Nuovo Testamento, dove si distingue tra popolo e massa – capaci e incapaci: per cui si affida a loro per esempio l’amministrazione della società – democrazia – e contemporaneamente si pensa che un qualsivoglia simulacro di divinità possa condizionarle al punto da far perdere loro qualsiasi capacità di decisione autonoma. Credo che questo sia un equivoco dal quale forse anche il marxismo dovrebbe cercare di uscire.
Altra questione secondo me di rilievo fondamentale: l’atteggiamento che generalmente si assume nei confronti di chi si trova in una situazione diversa. Prendo ad esempio le modificazioni genitali femminili. Sono convinto che sia una cosa da superare ma dobbiamo considerare che dietro c’è una cultura. Abdulcadir Omar Hussen, ad esempio, è un medico che opera in Toscana il quale ha cercato di trovare una strada attraverso la quale rendere sostanzialmente simbolico il gesto. Più che perseguire, che vuol dire perseguitare, coloro che le praticano, il tentativo dovrebbe essere quello di recuperare a un modo diverso di pensare. Che è poi quello del riconoscimento.
Quando la Costituzione italiana, all’articolo 3, afferma con forza quelle parole che generalmente dimentichiamo e cioè che “Tutti i cittadini – cioè tutte le persone, perché è in quel senso che lo dice la Costituzione – hanno pari dignità”, parla proprio del riconoscimento. Le persone hanno dignità perché sono, non perché fanno. Paradossalmente q
uesto articolo potrebbe essere chiamato, anziché l’articolo dell’eguaglianza, l’articolo della diseguaglianza. Perché afferma con forza che tutti noi siamo diversi. Siccome tutti siamo degni allora le nostre diversità – che riguardano genere, etnia, religione, opinioni politiche, lingua e via dicendo – non possono essere causa di discriminazione.
E anche qui mi viene in mente Dostoevskij, con questa tendenza, questa aspirazione all’unità generale: no, noi siamo diversi e la nostra diversità è ciò che può accrescerci, purché ci riconosciamo e non ci respingiamo.
Io credo che tutti noi abbiamo dei problemi che riguardano la ricerca di un aspetto spirituale. (…) Questa esigenza di spiritualità, che non è necessariamente un’esigenza di Dio, consegue, io credo, da un’esigenza di fondo: quella di salvezza.
Luc Ferry dice che la filosofia si distingue dalla religione perché mentre la religione cerca la salvezza attraverso altri, la filosofia cerca di individuare la salvezza attraverso se stessi. Salvezza che riguarda soprattutto la morte: non ci piace proprio morire, diciamocelo. Sappiamo che moriremo tutti, perché vediamo morire le altre persone, sappiamo che dobbiamo morire perché ci identifichiamo con gli altri, ma ci dà proprio fastidio morire.
Questa ricerca di salvezza, e quindi questa esigenza forte di sicurezza, ha relazione con questa ricerca di potere che è quella che secondo me impedisce il riconoscimento. Perché il potere è la scappatoia che individuiamo per rompere questa equazione: fare quello che gli altri non possono, soprattutto fare arbitrariamente quello che gli altri non possono, ci illude di poter esorcizzare la morte. E secondo me è questo il maggior ostacolo nei confronti del riconoscimento reciproco. (…)
E allora cosa possiamo fare? Credo che il nostro compito sia quello di lavorare soprattutto a livello culturale: stimolando la riflessione perché attraverso il porsi dei dubbi si possa arrivare a pensare legittima, giusta anche una posizione che non condividiamo. Credo sia importante anche per arrivare a poter sperare che una legge che riconosca una libertà di religione e di non religione possa essere effettivamente elaborata, approvata e poi applicata.
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