Non me ne vanto e non me ne pento. In ricordo di Rossana Rossanda.

Franco Moretti



Gli esseri umani odiano la chiarezza e la temono, scrisse una volta Lukàcs, e forse è per questo che Rossanda metteva a disagio così tanta gente. Adesso no, figuriamoci: madre, maestra, gran signora, tutte le benemerenze dell’Italia che fu le piovono addosso. Ma in vita fu più complicato. Era uno sguardo troppo limpido il suo; troppo tagliente per lasciare tranquilli.

La prima cosa che mi squarciò il modo di vedere furono i coniugi Arnolfini, scrive nella Ragazza del secolo scorso, ed è vero, Van Eyck è un suo modello: quella nettezza del distinguere, trovando le parole giuste – come quei grandi storici dell’arte che descrivono il quadro riprodotto alla pagina accanto – per quel che parole non è. E come l’arte, così, spesso, i conflitti: è in mezzo al fumo e al frastuono che bisogna trovare le parole che diano contorni netti alle forze in lotta; le parole chiare per i tempi torbidi del Cile e del terrorismo. Chi, in quegli anni, leggeva Rossanda sul manifesto, non può dimenticarlo.

Tempo fa, mi trovai a lavorare a Parigi per alcune settimane, e andai spesso a trovare Rossana. Parlavamo di cinema, letteratura, arte; gentile ma ferma, lasciava capire che non mi riteneva capace di parlare seriamente di politica. Le sembrava una cosa un po’ d’altri tempi, credo, che una persona tutto sommato ragionevole si occupasse ancora di quel che lei si era lasciate alle spalle, senza rimpianti, a poco più di vent’anni. Ma le piaceva ancora parlarne, e lo faceva con grande libertà. Ibsen o Bergman, Manet o Dostoevsky, voleva capire ogni opera come un modo specifico di essere nel mondo. Van Eyck, di nuovo. Criticare e smascherare – il pane quotidiano della critica di sinistra – l’appassionavano assai meno dell’imparare. Si vede solo una cosa alla volta: cerchiamo di metterla a fuoco per bene. C’era una strana umiltà, in questo suo modo di avvicinarsi alla cultura.

Umiltà, diciamolo, non è la prima parola che viene in mente pensando a Rossanda. Eppure, quando ha scritto si sé, ha incardinato il racconto della propria vita alla storia di un’istituzione molto più grande di lei. La ragazza del secolo scorso è la vita di Rossana Rossanda – dentro il Partito Comunista Italiano. È la storia di una scelta; di una persona che si è voluta comunista. Era questo aver voluto che dava al suo tono un che di inflessibile: non ci era nata, non ci era stata costretta dalle circostanze, non ci era capitata per caso. Come Antigone, aveva fatto quel che riteneva giusto, e ora lo diceva. “Si’, ho compiuto questo atto e non lo nego”. Non me ne vanto e non me ne pento, scrive Rossanda a proposito di due condanne a morte per spionaggio decretate da un tribunale partigiano che non la convinsero per niente, ma non la indussero neanche ad andarsene. È un modo dolente e pulito di guardare alla propria vita.

In quel mese di chiacchiere parigine, un giorno, salutandomi, mi disse: Senti, perché non trovi qualcosa di bello da vedere, una mostra, una chiesa, quello che sia, e un pomeriggio ci andiamo insieme? Allarmatissimo, telefonai a una mia amica storica dell’arte: E ora dove la porto Rossanda? E lei, portala alla permanente del Beaubourg; vedrai, è interessante. Andammo. Fu un supplizio. Sala dopo sala, Rossana si guardava intorno con spietata cortesia, finché, prendendomi sottobraccio: Senti, quando parli con la tua amica, innanzitutto ringraziala da parte mia, naturalmente, però poi dille: sai, Rossanda ti vorrebbe chiedere, ma perché questa la dobbiamo chiamare arte? Andavamo verso l’uscita, io piuttosto malconcio, quando una signora ci fermò: Scusi, lei è Rossana Rossanda? Sì. Senta, volevo ringraziarla per tutto quello che ha fatto e scritto, che per me è stato importantissimo da quando ero una ragazzina. Lo dico davvero. La ringrazio, rispose Rossanda, gentile. Purtroppo, non è servito a niente. Buona sera. E se ne andò.

Proprio a niente? Rossana rimase stupita del successo della Ragazza del secolo scorso: dopo aver abbandonato la storia dell’arte per la politica, dopo aver visto la sconfitta di ciò in cui credeva, vedere elogiata la sua militanza come un bel romanzo dell’Ottocento dovette sembrarle una beffa. Ma non lo era. Come la signora del Beaubourg, i lettori che si appassionavano alla sua vita la ringraziavano per aver fatto quello che, per mille ragioni, tanti di loro – tanti di noi – non siamo riusciti a fare. Scegliere quel che le sembrava giusto, e farlo. Senza vantarsi, e senza pentirsi.
(22 settembre 2020)

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