Non può essere Veronica a riscattare il Paese
di Pierfranco Pellizzetti, da Il Secolo XIX
Ma che razza di Paese siamo (o siamo diventati)? Che senso ha trasformare in questione politica impropria lo scontro finale in casa Berlusconi?
“Veronica leader dell’opposizione”… “PVL, Partito Veronica Lario”… È tutto un fiorire di appelli che vorrebbero caricare il peso di affondare l’inaffondabile premier sulle spalle oberate di una signora che dovrà affrontare l’inferno già di suo: a partire dalla potenza di fuoco e le inimmaginabili canagliate degli scherani di un coniuge intenzionato a fargliela pagare ben cara e scorticarla senza pietà. Come le prime avvisaglie lasciano chiaramente intendere.
No, le questioni politiche prescindono dalle mosse di una singola persona e sono davvero ben altre. A partire dalla riflessione su che cosa succede in presenza di un potere che ormai non trova più limiti. In particolare, gli effetti devastanti sulla psiche di chi tale potere detiene; con relativo senso di onnipotenza indotto, che piega tutto e tutti, le menti e i corpi di chi gli sta attorno, al proprio arbitrio capriccioso.
Ossia la situazione odierna, che appare ogni giorno di più l’esemplificazione dell’antico detto “a che serve il potere se poi non se ne abusa?”.
Ma questo potere senza limiti chiama a ben precise responsabilità tanto chi lo ha assecondato come chi doveva contrastarlo. Chi doveva vigilare: alleati rapidamente riconvertiti in cortigiani e famigli plaudenti; avversari disposti a giocare la partita proprio secondo quelle logiche che avrebbero dovuto rifiutare, accreditandole di fatto.
In Francia c’è un premier che manifestava tendenze berlusconiane, Nicolas Sarkozy: aspirazioni ducesche e irrefrenabile tendenza al narcisismo esibizionistico, un’insana voglia di lusso sfrontato. Come l’uso, sospetto prima ancora che inopportuno, dei panfili messi a disposizione dagli amici ricconi.
Ebbene, il presidente d’oltr’Alpe l’ha piantata lì quando amici e nemici, soprattutto una pubblica opinione indignata, gli hanno fatto capire che tutto questo non gli era consentito. Il potere ha trovato immediati contrappesi che tracciavano chiari limiti.
Difatti nessuno oserebbe parlare di “Repubblica francese delle banane”, a differenza del caso italiano. Dove da tempo fiorisce il gossip attorno al Capo, alle sue velleità da sultano dell’harem (e il solito Francesco Cossiga lo definisce “nanetto libidinoso”), come in tutti i regimi politici regressivi, dove la critica esplicita è stata sostituita dalla barzelletta allusiva.
Con questo arriviamo alla questione politica primaria: un Paese, una società dove l’ammiccamento tutto sommato complice sostituisce l’etica pubblica.
Ma non è soltanto questione di una classe politica asservita ai voleri del Capo, qui si tratta di un Paese che considera più che accettabile quello che il Capo dice e fa; si identifica in modelli di comportamento e accredita stili di vita che qualche decennio fa sarebbero stati unanimemente giudicati riprovevoli.
Insomma, è avvenuto qualcosa di profondo nella psicologia collettiva, tanto da farci passare dal pauperismo (vagamente ipocrita) democristiano e comunista del dopoguerra all’esibizionismo gaudente. Con effetti in apparenza incomprensibili, per cui i fondamentalisti cattolici di Comunione e Liberazione o i cultori mussoliniani della Fiamma antiborghese si ritrovano tranquillamente intruppati nel codazzo neopagano che ruota attorno al Signore delle Veline e del Popolo dei SUV.
Ormai tutto è possesso. Sei quello che hai. Se paghi fai quello che ti pare. Una predicazione fondata sull’avere che trasforma l’essere in una pura questione di immagine. Un popolo di possessori, terrorizzato che qualcuno gli porti via la roba (dal fisco all’extracomunitario), si riconosce solo in chi lo rassicurerà.
L’unica domanda che ormai circola nel circuito della politica. Pretendere da una signora in attesa di divorzio la rifondazione dei valori pubblici è francamente un po’ troppo.
(12 maggio 2009)
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