Non solo Popolare di Bari: intervento dello Stato e moneta pubblica per rilanciare l’economia
Enrico Grazzini
La brutta storia della Banca Popolare di Bari dice chiaramente che le banche sono “troppo importanti per essere lasciate in mano ai banchieri”. Le indagini giudiziarie sono in corso, ma lo stato è ancora una volta dovuto intervenire per salvare i risparmiatori. Lo stato però non dovrebbe essere costretto a salvare d’urgenza le banche in pericolo con improvvisi decreti notturni spendendo i soldi dei contribuenti: dovrebbe innanzitutto avere una sua autonoma potestà monetaria, un potere monetario almeno pari a quello degli istituti privati di credito. Il caso della banca di Bari è tutto meno che isolato: la crisi riguarda e ha riguardato anche il Monte dei Paschi di Siena, la Banca Carige, o nel recente passato, la Banca del Veneto, o quella di Vicenza, ecc, ecc, ecc. Il problema non è solo che la Banca d’Italia di Ignazio Visco forse ha commesso qualche errore e qualche distrazione di troppo! O che le regole dell’Unione Bancaria e dell’Unione Europea – a favore del bail in e contro l’intervento pubblico, considerato aiuto di stato che distorce la competizione – hanno aggravato pesantemente la crisi bancaria italiana invece di risolverla. Il problema strutturale è che, se lo stato non ha nessun potere monetario, allora il bilancio statale, l’economia italiana e gli investimenti pubblici sono bloccati, e che tutta l’economia nazionale – non solo le banche, ma anche le industrie, vedi i casi Ilva, Alitalia, Whirpool, AST, ecc. – è ferma ed è sempre sull’orlo del collasso. La questione è strutturale: lo stato dovrebbe potere intervenire sia in campo bancario che più in generale nell’economia con le sue banche pubbliche e con una sua (quasi)moneta per sviluppare l’economia italiana, svoltare e finalmente portarla fuori dalla crisi. E questo è già attualmente possibile, anche emettendo titoli fiscali convertibili in euro nel pieno rispetto delle regole e dei vincoli dell’eurozona e dell’Unione Europea. Il governo dovrebbe prendere urgentemente tutti i provvedimenti per risolvere la questione dell’autonomia monetaria e del credito alle imprese.
Il problema delle banche italiane deriva dalla profonda crisi economica nazionale; ma la crisi è anche e soprattutto sistemica. La crisi dei subprime ha mostrato che il sistema bancario e finanziario privato ha fatto fallimento negli USA, in Gran Bretagna, in Germania e in tutto il mondo occidentale. La crisi globale ha ampiamente dimostrato che il sistema del credito e della finanza lasciato a sé stesso genera speculazione, e che il libero mercato del credito è destinato strutturalmente a provocare crisi e debito. Le banche prima della crisi hanno fatto profitti a palate ma poi lo stato è dovuto intervenire per salvarle quando sono andate in perdita. La moneta pubblica dello stato è stata costretta a salvare la moneta privata delle banche.
Le banche creano moneta dal nulla: ma il libero mercato del credito genera crisi
Lo stato alla fine deve sempre necessariamente sborsare i soldi dei contribuenti per proteggere le banche, i risparmiatori e i clienti, a rischio di fallimento. È inutile che i politici liberali e gli economisti liberisti si lamentino e si straccino le vesti come verginelle violate: anche nei paesi più liberisti, come negli Stati Uniti d’America e in Gran Bretagna, gli stati intervengono direttamente per non far fallire le banche che potrebbero trascinare in rovina intere aree produttive, se non un’intera Nazione. Nonostante quello che pensa Francesco Giavazzi – che esultava quando la Lehman Brothers fallì senza che il Tesoro americano intervenisse per salvarla, gettando l’economia globale sull’orlo del precipizio –, l’intervento diretto dello stato in campo bancario è quasi sempre non solo opportuno ma doveroso (a patto ovviamente di non salvare anche i manager responsabili dei fallimenti delle banche).[1]
Il vero problema non è l’intervento dello stato: il problema strutturale è che le banche commerciali hanno il potere legittimo di stampare moneta a fini di profitto privato mentre lo Stato non è sovrano della sua moneta, anzi: deve ricorrere ai mercati finanziari, alla moneta delle banche quando è costretto a fare deficit, magari anche per salvare le banche stesse!
Come ha spiegato su MicroMega Luciano Gallino, il compianto profondo studioso del finanzcapitalismo, troppo spesso non compreso e non ascoltato “scegliendo di entrare nella zona euro, lo stato italiano sì è privato di uno dei fondamentali poteri dello stato, quello di creare denaro. Per gli stati dell’eurozona, in forza del Trattato di Maastricht soltanto la BCE può creare denaro in veste di euro… a fronte, però, del divieto assoluto, contenuto nell’art. 123 di prestare un solo euro a qualsiasi amministrazione pubblica – a cominciare dagli stati membri. Al tempo stesso accade che le banche private abbiano conservato intatto il potere di creare denaro dal nulla erogando crediti o emettendo titoli finanziari negoziabili. Tutto ciò ha messo gli stati dell’eurozona in una posizione che si sta ormai rivelando insostenibile”.
Il problema è semplicemente che le banche private operano principalmente per il loro interesse privato, per l’interesse dei manager e degli azionisti, che raramente coincide con quello pubblico, con l’interesse nazionale, con l’interesse degli imprenditori piccoli e medi, delle famiglie e dei cittadini. L’interesse privato è una cosa, l’interesse pubblico è un’altra cosa. Questa affermazione è molto semplice da capire: ma dopo quaranta anni di ubriacatura ideologica neoliberista sembra rivoluzionaria. Invece è una semplice affermazione di buon senso.
Unicredit per esempio ha annunciato recentemente il suo piano al 2023 che taglierà 5.500 dipendenti e 450 filiali in Italia, generando però contemporaneamente «consistente valore» per gli azionisti, pari a 16 miliardi di euro complessivi così suddivisi: 6 miliardi di dividendi cash, 2 miliardi con riacquisti di azioni e 8 miliardi di incremento del patrimonio netto tangibile. Il valore andrà agli azionisti – che tra l’altro sarebbero in gran parte esteri, come gli emirati di Abu Dhabi, i fondi americani BlackRock e Vanguard, la società di gestione statunitense Dodge & Cox, il fondo sovrano norvegese Norges Bank; la Teachers Insurance and Annuity Association of America, ecc –. Ma i disoccupati saranno i lavoratori, italiani e non. Quale è il vantaggio per l’economia italiana?
Quando le grandi banche in Italia erano pubbliche, come la Banca Commerciale Italia, il Credito Commerciale, la Banca di Roma, l’economia italiana viaggiava con tassi di sviluppo cinesi. Anche se infiltrate e talvolta corrotte dai partiti, le banche pubbliche hanno prodotto il miracolo economico italiano, mentre le banche private di oggi costituiscono troppo spesso un rischio per i risparmiatori e i contribuenti.
I governi passati hanno completamente smantellato tutte le banche pubbliche perché “ce lo ha detto l’Europa”. Il danno è stato rovinoso. È forse il danno peggiore che i governi italiani ciecamente europeisti potevano fare, e hanno fatto, all’Italia. La gestione della moneta, del credito e dei risparmi ha aspetti pubblici sostanziali e non può essere delegata solo ed esclusivamente a banche private che operano per massimizzare il valore per gli azionisti o per aumentare gli
stipendi dei manager.
L’interesse privato non dovrebbe prevalere sempre su quello pubblico. L’economia nazionale ha bisogno di istituti di credito pubblici, che però – e questo è tutt’altro che scontato e facile – non siano sottoposti a clientele partitiche e possano offrire credito per promuovere gli investimenti necessari a svoltare e rilanciare un’economia socialmente, economicamente e ecologicamente sostenibile. Senza una svolta l’Italia rischia di soffocare prima e di precipitare poi, magari in mano alla peggiore demagogia populista e fascistoide. Bisognerebbe cominciare a introdurre la democrazia economica anche nel settore bancario.
Lo stato non può emettere moneta ma le banche private sì
Ma le banche pubbliche non bastano: il problema è strutturale. Le banche non gestiscono solo i risparmi delle famiglie e delle imprese, ma hanno soprattutto il privilegio esclusivo di creare moneta dal nulla. Il vero problema è che le banche hanno piena potestà monetaria, creano moneta, mentre lo stato invece non può emettere moneta ma deve farsela prestare dai mercati finanziari. Le banche possono creare moneta dal nulla per il loro esclusivo profitto: questa asserzione non deriva però da una visione ideologica estremista o di parte, non c’è infatti nessun complotto delle banche “cattive”. Il fatto che le banche commerciali creano denaro dal nulla è empiricamente e scientificamente assodato, ed è stato dichiarato ufficialmente addirittura dalla Banca d’Inghilterra e dalla Bundesbank in documenti ufficiali[2].
Come fanno le banche commerciali a creare denaro dal nulla? Il meccanismo – che ovviamente è perfettamente legale -, è spiegato perfettamente da Luciano Gallino: Le banche private creano denaro in due modi. Il modo più noto e discusso, in specie a causa del ruolo che esso ha avuto nello scatenare la crisi del 2007, consiste nel concedere un credito, senza togliere un solo euro ad altri correntisti o al proprio patrimonio. L’operazione consiste semplicemente nell’inscrivere sul conto corrente di qualcuno, con pochi tocchi al computer, una certa somma a titolo di prestito. La stessa somma figurerà nel bilancio della banca da un lato come passivo (la somma che la banca si è impegnata a mettere a disposizione del cliente), dall’altro come un attivo (la somma che il cliente ha promesso di restituire con gli interessi, ndr). Si stima che il denaro così creato rappresenti nella UE (in questo caso l’eurozona più i paesi non euro) circa il 95 per cento di tutto il denaro in circolazione. Al confronto, le banconote stampate dalla BCE, di cui la TV ci ripropone l’immagine dieci volte al giorno, sono bruscolini.
Un altro modo di creare denaro da parte delle banche private, assai meno compreso e discusso del precedente, anche tra gli economisti, consiste nell’emettere prodotti finanziari che possono venire convertiti facilmente in denaro liquido. Si tratti di obbligazioni aventi per collaterale un debito ipotecario (CDO), di titoli garantiti da un attivo (ABS), di certificati di assicurazione del credito (CDS) o di un qualsiasi altro titolo “derivato” (nel senso che il suo valore deriva dall’andamento sul mercato di un’entità sottostante) inventato dagli alchimisti finanziari, esso può venire venduto in qualsiasi momento al suo valore di mercato”.[3]
La stessa Bank of England spiega che – nonostante quello che scrivono i manuali degli economisti accademici, e nonostante quello che la gente comune crede – le banche non intermediano il risparmio delle famiglie per concedere i risparmi alle società che vogliono investire per produrre nuovi beni. Le banche commerciali nel loro complesso non hanno minimamente bisogno del risparmio dei correntisti per erogare prestiti perché creano moneta dal nulla; prese singolarmente hanno invece bisogno dei depositi dei risparmiatori come riserva di liquidità a basso prezzo per i pagamenti interbancari.
Ma, ripeto, i depositi bancari dei risparmiatori non servono per prestare soldi a terzi. Le banche quando fanno dei prestiti non prelevano i soldi dai risparmiatori: creano loro stesse il denaro da prestare con un’operazione contabile, ovvero digitando nel computer al passivo e all’attivo il denaro che prestano a quei richiedenti che la banca ritiene solvibili – cioè in grado di ripagare la stessa somma più gli interessi, come da contratto -.
Ma com’è possibile che le banche commerciali, come la Popolare di Bari, come il Monte dei Paschi di Siena e come tutte le altre banche commerciali del mondo, abbiano il permesso di stampare moneta? La risposta è una sola e molto chiara: lo stato consente alle banche commerciali di creare denaro dal nulla nel momento in cui i depositi creati ex novo dalle banche quando fanno prestiti vengono considerati per legge precisamente come moneta legale, sono cioè immediatamente convertibili in banconote. Caio riceve un prestito dalla banca X e allora può ritirare dal bancomat le banconote legali firmate dalla Banca Centrale. Tutto qui. La moneta bancaria diventa per magia – o meglio, secondo la legge – moneta legale. Ovvero: la moneta privata diventa moneta pubblica, moneta emessa dalla banca centrale per conto dello stato – o nell’eurozona, per conto degli stati che aderiscono all’euro -.
Lo stato ha completamente delegato alle banche private la gestione della moneta. Le banche commerciali hanno il privilegio unico di potere creare moneta dal nulla. Ma paradossalmente quando lo stato ha bisogno di moneta, deve chiederla ai mercati finanziari, alle banche, agli operatori finanziari, che ovviamente lucrano sui debiti di stato. La situazione è davvero paradossale, anche perché lo stato è il garante ultimo della moneta grazie alle entrate fiscali. Le monete nazionali sono infatti garantite dai ricavi dello stato, che sono le tasse dei cittadini. Ma lo stato, garante della moneta, non può – o non potrebbe, secondo le teorie liberiste – gestire una sua moneta a favore dei cittadini. Secondo le teorie liberiste e della Public Choice, secondo la scuola della Bocconi, i politici sono troppo poco responsabili per potere concedere loro forme anche parziali di sovranità monetaria[4]. Spenderebbero troppo e farebbero crescere l’inflazione. Come se invece tutti i banchieri gestissero bene la moneta e il credito, e fossero delle mammolette dedite al bene comune!
Quindi lo stato è sottomesso alla moneta bancaria e ai mercati finanziari, e non ha risorse sufficienti per risolvere le gravissime e crescenti crisi bancarie e industriali che attanagliano il Paese. La situazione appare senza sbocchi e senza alternative. Certamente è impossibile rivoluzionare completamente dall’oggi al domani il sistema e togliere alle banche commerciali il potere di creare moneta. Del resto questa non è certamente la proposta che qui si avanza.
Le possibili riforme del sistema monetario e bancario
Tuttavia le alternative di riforma esistono: innanzitutto bisognerebbe creare banche pubbliche che si affianchino a quelle private, come del resto accade anche in Germania e Francia, che non sono certo regimi sovietici. In Germania per esempio il 45% circa del sistema bancario è in mano al settore pubblico. Il caso più famoso è la banca pubblica KWF: questa è al 80% di proprietà del governo federale e al 20% dei divers
i lander. KFW raccoglie circa 500 miliardi e li reinveste concedendo prestiti a tassi irrisori alle piccole e medie imprese, e inoltre controlla forti quote di capitale di società come Deutsche Post e Deutsche Telekom. lo Stato tedesco partecipa con una quota del 17% in Commerzbank, una delle principali banche tedesche, e poi partecipa nelle Landersbanken, le banche regionali tedesche. Sono sei, sono tutte pubbliche, e non sono minori: LbBerlin, la più piccola, ha attività per 130 miliardi di euro; la più grande, la Lbbw, 337 miliardi (una volta e mezzo MPS). Come è noto, il sistema bancario tedesco non è privo di difetti, anzi … ma funziona forse meglio che in Italia per sostenere produzione e occupazione, nonostante che la maggiore banca privata tedesca, la Deutsche Bank, sia in gravissima difficoltà per le sue passate speculazioni finanziarie.
Ma non basta: lo stato italiano potrebbe anche emettere dei titoli facilmente convertibili in euro, e quindi dei titoli molto liquidi (in gergo quasi-moneta) validi per pagare le tasse. Lo Stato potrebbe emettere Titoli di Sconto Fiscale che consentirebbero di alimentare gli investimenti e di uscire finalmente dall’austerità che sta impoverendo il Paese, abbruttendo la società civile e rovinando la democrazia. Lo stato dovrebbe distribuire questi titoli a enti pubblici, famiglie e imprese in modo da rivitalizzare la domanda aggregata, cioè gli investimenti pubblici e privati, i consumi e la spesa pubblica. Tutto questo si può fare senza sborsare un solo euro, senza abbandonare l’eurozona e senza fare deficit – cioè in maniera perfettamente legale in base alle regole dell’eurozona e della Unione Europea -. Basterebbe che un governo coraggioso e competente lanciasse l’iniziativa: e il governo giallorosa di Conte, Di Maio, Zingaretti, Renzi e Speranza dovrebbe dimostrarsi all’altezza della grave situazione in cui versano l’economia e la politica italiana.
Come scrisse Gallino: “la questione centrale è che questa proposta (quella della quasi-moneta fiscale, ndr) rappresenta nella UE il primo tentativo concreto di togliere alle banche il potere esclusivo di creare denaro in varie forme, per restituirlo almeno in parte allo stato. È una delle maggiori questioni politiche della nostra epoca. Di essa si discute sin dall’esplosione della Grande Crisi Globale del 2007, e il nucleo della discussione è la necessità di procedere a drastiche riforme del sistema finanziario, inclusa la sua parte in ombra”.[5]
Emettere titoli fiscali per rilanciare l’economia (e quindi salvare anche le banche in crisi)
I Titoli di Sconto Fiscale sarebbero utilizzati dai possessori – famiglie, imprese, enti pubblici – per ottenere riduzioni fiscali pari all’importo del loro valore nominale dopo tre anni dalla loro emissione; tuttavia, essendo subito convertibili in euro, metterebbero subito in circolazione moneta pubblica in grado di rilanciare la produzione. Alla loro maturità, al quarto anno, quando verrebbero finalmente utilizzati per la riduzione delle tasse, non provocherebbero nessun buco fiscale: infatti la forte crescita del PIL nominale – legata al moltiplicatore del reddito e all’aumento dell’inflazione che si verificherebbero nei tre anni dall’emissione – coprirebbe totalmente l’importo dei titoli emesso tre anni prima. Essendo titoli e non moneta, e non provocando deficit pubblico, i titoli di sconto fiscale sono perfettamente compatibili con le regole dell’eurozona.[6]
Spieghiamo meglio il funzionamento dei Titoli di Sconto Fiscale. I TSF sono dei titoli che danno diritto ai loro possessori di ridurre i pagamenti dovuti allo stato (fisco, tariffe, contributi, ecc.) dopo tre anni dall’emissione. I TSF verranno distribuiti gratuitamente, e quindi senza debito, a famiglie, enti pubblici e imprese. Lo stato non chiederà nulla al mercato finanziario e ai primary dealer – le grandi banche d’affari che comprano all’ingrosso il nostro debito pubblico – e si affrancherà così dalla loro dominanza; e gli operatori finanziari da parte loro non correranno alcun rischio perché non sborseranno soldi per finanziare il bilancio pubblico italiano.
I TSF andrebbero assegnati a famiglie, imprese ed enti pubblici in maniera aggiuntiva – e non sostitutiva – ai redditi in euro per alimentare la domanda aggregata. Lo stato potrebbe così finanziare finalmente i consumi, gli investimenti e la spesa pubblica. Anche le banche, grazie alla ripresa dell’economia reale, uscirebbero dal tunnel dei crediti deteriorati. I TSF potrebbero inoltre conquistare un ruolo strategico non solo per l’Italia, ma per tutti i paesi periferici dell’eurozona e potenziare la moneta unica garantendo maggiore flessibilità ai singoli Paesi e governi.
I TSF non saranno MAI rimborsabili in euro da parte dello Stato e quindi non costituiscono debito pubblico. Come tutti i titoli di Stato, come i BOT e i BTP, sono negoziabili sul mercato finanziario e quindi subito convertibili in euro. Aumentano perciò immediatamente la domanda aggregata. I TSF faranno crescere rapidamente il PIL (che è l’unica vera maniera di ridurre il debito pubblico) nei tre anni prima della loro scadenza, e così alla maturità, al quarto anno, si “autoripagheranno”.
Non solo i TSF rispettano le regole dell’euro, ma lo rafforzano. L’emissione di questi “buoni fiscali” potrebbe finalmente ridare ossigeno all’economia e fare uscire i Paesi dell’eurozona dalla trappola della liquidità che li soffoca.
Più in dettaglio: la proposta è che il governo italiano emetta TSF per qualche decina di miliardi di euro in tre anni (2-3% del PIL) e li assegni gratuitamente in base a criteri prestabiliti ai soggetti pubblici e privati dell’economia reale. I TSF potranno essere ceduti immediatamente dai loro possessori sul mercato finanziario in cambio di euro. Vende TSF chi ha bisogno di euro; compra TSF chi vuole sconti fiscali. Il loro valore di mercato sarà analogo a quello di un titolo di stato zero-coupon a tre anni. In pratica 100 euro di TSF saranno pari (quasi) a 100 euro di moneta sonante e subito spendibile. Dopo la loro conversione in euro, nell’economia reale circoleranno solo (più) euro e non strane monete parallele che nessuno accetterebbe volentieri.
In via preliminare e ipotetica, si può suggerire che una quota importante dei TSF (per es. 60%) venga utilizzata all’amministrazione pubblica e agli locali per un Piano del Lavoro finalizzato a creare piena occupazione per realizzare infrastrutture immateriali (ricerca, università, insegnamento, ecc) e materiali (riassetto idrogeologico, trasporti, reti in fibra ottica, energia verde, risparmio energetico, ecc) e rafforzare il welfare (pensioni, reddito di inclusione, ecc).
Alle famiglie i TSF saranno attribuiti (per es. il 25% delle assegnazioni totali) in proporzione fortemente inversa al reddito, privilegiando ceti sociali disagiati e lavoratori a basso reddito per incentivare i consumi e per ragioni di equità sociale.
Alle aziende le assegnazioni (15% circa del totale) saranno attribuite principalmente in funzione dei costi di lavoro, per tagliare il cuneo fiscale, migliorare la loro competitività ed evitare che l’effetto espansivo dei TSF sulla domanda crei un peggioramento dei saldi commerciali esteri (in pratica l’assegnazione dei TSF alle aziende equivarrà a una svalutazione). Ovviamente tutti i soggetti saranno entusiasti di ricevere tito
li di stato che possono essere subito convertiti in euro. Il consenso del pubblico sarà quindi elevato ed entusiastico.
La manovra è in linea con i trattati europei poiché in campo fiscale ogni stato è sovrano, almeno fin tanto che non aumenta il suo debito pubblico. Ma i TSF non generano deficit, anzi. All’emissione lo stato non sborsa soldi e, come indicato sopra, non chiede neppure soldi ai primary dealers. Al quarto anno, alla maturità dei TSF, grazie all’effetto combinato del moltiplicatore dei redditi e dell’aumento dell’inflazione (dovuto certamente all’aumento della domanda) la forte crescita del PIL nominale darà luogo a un gettito fiscale tale da compensare pienamente il deficit legato agli sconti fiscali, e da produrre anche surplus. Basta infatti che l’inflazione aumenti annualmente in più tra il mezzo punto percentuale e l’un per cento del PIL, perché i ricavi fiscali dopo tre anni crescano in misura tale da coprire il valore iniziale di emissione dei TSF.
Lo shock monetario-fiscale renderà nuovamente vitale l’economia nazionale. Le emissioni di TSF potrebbero partire da un livello pari al 2% circa del PIL annuo – circa 30 miliardi di euro – e essere modulate e calibrate nel tempo in modo da assicurare alti livelli di occupazione senza però produrre una inflazione superiore al 3-4%, né scompensi nei saldi commerciali esteri.
La versione che propongo insieme ad altri studiosi ha il vantaggio fondamentale che i TSF sarebbero certamente accettati dalla BCE e dalle banche perché verranno classificati dalle agenzie di rating come investment grade. Infatti è chiaro che i TSF potrebbero essere utilizzati per ridurre le tasse dovuto allo stato anche se lo stato italiano fallisse sul suo debito in euro. I TSF sono quindi più sicuri dei BTP per gli investitori e, come tali, sono certamente investment grade. Ed è noto che la BCE accetta come collaterale, cioè come garanzia per i suoi prestiti alle banche, tutti i titoli di stato investment grade.
Quindi, dopo l’avvio del sistema TSF, la BCE e le banche acquisteranno i TSF senza problemi, e l’adesione del sistema bancario alla manovra costituirebbe la migliore garanzia del suo successo anche presso i mercati finanziari. Se l’economia italiana ritorna a crescere senza aumento del debito pubblico, allora anche gli spread possono diminuire. Società come Blackrock avrebbero assai poco da temere.
In conclusione: questo progetto di helicopter money nazionale è innovativo e radicale ma è forse l’unico fattibile in tempi brevi per risolvere urgentemente la crisi sociale ed economica. Emettere moneta fiscale è una decisione che il governo giallo-rosa potrebbe prendere autonomamente senza rompere con l’euro e con la UE, e con grande consenso sociale. Finalmente lo stato potrebbe aumentare il reddito delle famiglie e nel contempo rivitalizzare l’economia.
Il progetto di Moneta Fiscale offre inoltre l’enorme vantaggio di potere essere attuato mantenendo la moneta unica europea di fronte alle altre valute internazionali, come il dollaro, yen, yuan, pound. In effetti l’emissione di Titoli di Sconto Fiscale nei singoli paesi dell’eurozona potrebbe diventare il rimedio principale per affrontare la possibile (e probabile) nuova crisi finanziaria e valutaria che ormai tutti gli economisti e gli operatori economici considerano imminente.
[2] Bank of England “Money creation in the modern economy”, Quarterly Bulletin 2014 Q1, By Michael McLeay, Amar Radia and Ryland Thomas of the Bank’s Monetary Analysis Directorate; Deutsche Bundesbank “The role of banks, non-banks and the central bank in the money creation process”.Monthly Report April 2017 Vol 69 No 4
[3] Prefazione di Luciano Gallino all’e-book di Micromega “Per una moneta fiscale gratuita. Come uscire dall’austerità senza spaccare l’euro” a cura di Biagio Bossone, Marco Cattaneo, Enrico Grazzini e Stefano Sylos Labini.
[4] Vedi per esempio Francesco Daveri “Far piovere denaro dal cielo non basta a risolvere la crisi”, Corriere della Sera, 21 aprile 2016
[5] Prefazione di Luciano Gallino all’e-book di Micromega “Per una moneta fiscale gratuita”, già citata
[6] Enrico Grazzini, Micromega on line “Come l’helicopter money potrebbe rilanciare l’economia italiana”, 11 settembre 2019
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