Non un giorno senza recitare. Conversazione con Roberto Herlitzka

Mariagloria Fontana

In occasione dell’anteprima al Festival del Teatro Medioevale e Rinascimentale di Anagni dello spettacolo “Don Chisciotte” scritto da Ruggero Cappuccio, ispirato all’omonimo romanzo di Miguel De Cervantes e diretto da Nadia Baldi, abbiamo incontrato il più grande attore di prosa vivente d’Italia: Roberto Herlitzka.

Il suo Don Chisciotte è un personaggio visionario e persino alienato che vive in una dimensione tutta sua. Anche l’attore è un visionario e, talvolta, trova persino difficoltà ad integrarsi nella società?
Sì, credo che l’attore lo si possa definire un visionario. Pensa di essere qualcun altro, come Don Chisciotte, o almeno come questo personaggio che interpreto e che non è il vero Don Chisciotte, ma un uomo, un letterato probabilmente, che è convinto di essere il protagonista del romanzo di Miguel De Cervantes.
In fondo anche gli attori fanno la stessa cosa. L’attore può essere un po’ distaccato dalla sua vita normale, ma non dovrebbe essere del tutto ignaro di quello che succede, perché anche il teatro ha una sua funzione di sincerità nei confronti di quello che si vive, molto dipende dall’autore che si interpreta. Io sono un attore che non pensa di dover dare dei messaggi di tipo politico, sociale o civile se non attraverso i testi che porto sulla scena e che sono tutti molto diversi tra di loro.

Nella nostra memoria collettiva ci sono tanti grandi attori dimenticati come Salvo Randone, Renzo Ricci, ‘Memo’ Benassi e altri, seppur meno, mai troppo celebrati e menzionati come, ad esempio, Carmelo Bene. Forse tra i grandi del teatro scomparsi, solo Vittorio Gassman ha avuto più fortuna, perché fu reso popolare dal cinema. L’Italia è un Paese che dimentica?

L’Italia è sicuramente un paese che dimentica. Tant’è vero che di questi nomi che lei ha detto, i giovani non conoscono nulla. Non mi riferisco certo a Gassman. Però ci sono moltissimi ragazzi, anche allievi attori, che non sanno chi fossero Salvo Randone, Renzo Ricci e Memo Benassi. La colpa non è di chi dimentica, ma di quelli che dovrebbero far in modo che si ricordasse, che dovrebbero onorare e insegnare, soprattutto a chi vuole fare teatro, chi erano questi signori. Poi è abbastanza fatale che si dimentichi, perché il teatro è un’arte che finisce ogni volta. L’attore non lascia tracce se non nella memoria di chi l’ha visto. Oggi ci sono innumerevoli mezzi tecnici, ma il teatro non lo si può fissare. Uno spettacolo ripreso cinematograficamente perde completamente il suo valore, perché il teatro è qualcosa che sparisce. Perciò non dobbiamo stupirci se si perdono i nomi. Quello che è grave è l’atteggiamento del nostro paese non solo nei confronti del teatro, ma di tutta la cultura in generale.

Vuol dire che la cultura non ha il posto che le compete in Italia?
Sì, la cultura viene considerata qualcosa di addirittura nocivo se non inutile. È uno dei più gravi malanni che possano capitare ad un paese, perché se si perde la cultura, si perde tutto. È il modo di affrontare le cose che deve essere culturalmente consapevole. È la cultura che ci indirizza in questo. Non mi sto lamentando della mancanza di soldi, che pure esiste e spesso blocca le produzioni, ma del modo di non darli. Il modo di non onorare, non dico le persone, ma la cultura in genere.

A proposito di cultura, un altro elemento che la contraddistingue e la lega agli artisti precedentemente citati è proprio la sua formazione e ricerca culturale. Non tutti sanno, ad esempio, che lei ha tradotto il “De Rerum Natura” di Lucrezio, tanto per dirne una. Lei ha un rapporto privilegiato con la parola. Che legame esiste tra il teatro di parola, che lei interpreta, la parola in sé, la voce e la phonè nel senso greco originario?
Come fa lei a sapere del "De Rerum Natura"? (sorride)… Tornando alla sua domanda. Io credo che il teatro sia di parola. È vero che si può fare teatro molto bene anche senza dire delle parole. Però le parole non dette sono delle parole anch’esse. I nostri silenzi sono pieni di parole interiori. Quello che non mi interessa, è il teatro semplicemente narrativo. Quel teatro in cui si racconta una storia giusto per il piacere di raccontarla. Certo, lo si può mettere in scena, ma come attore non mi riguarda. Perché per me la la materia prima del teatro è, per l’appunto, la parola. Infatti, non esiste un autore classico, anche odierno, che non scriva usando le parole in modo necessario. Un autore che in teatro racconta semplicemente una storia lo può fare anche al cinema o con un altro mezzo espressivo, ma il teatro può soltanto esprimersi attraverso le parole che sono cercate, trovate, che devono essere delle vere e proprie invenzioni. Questo non vuol dire che debba essere un linguaggio aulico, barocco o altro, può essere anche un linguaggio da coatto, purché il linguaggio sia lo specifico teatrale. Un po’ come un pittore usa i colori. Non può fare un quadro senza colori o, almeno, può farlo, ha deciso di non usarli, ma i colori continuano ad essere fondamentali anche se non ci sono. Io sono nato così e faccio questo tipo di teatro perché mi diverto.

Nel suo percorso di vita, sembra quasi che l’arte sia stata più forte di tutto il resto, come se l’abbia attratta a sé senza possibilità di opporsi. Parafrasando Sartre che scriveva: non un giorno senza una riga, potremmo dire: non un giorno senza una battuta da recitare. Il teatro è stata una sorta di predestinazione?
Se devo essere sincero, e si può essere sinceri in questi casi, da bambino volevo fare l’attore per piacere agli altri. Desideravo diventare un divo del cinema. Questa specie di narcisismo, di esibizionismo ce l’ho ancora. Credo che ce l’abbiano tutti quelli che fanno questo mestiere, anche se non lo dicono. Altrimenti sarebbe difficile farlo solo ed esclusivamente per amore della parola. Poi è chiaro che uno si esibisce attraverso questo mezzo.

Con il cinema che rapporto ha?
Sono felicissimo se mi fanno fare del cinema. Non è che io voglia recitare solo in teatro. Certo, non rinuncerei mai a quest’ultimo, perché ci sono nato. Però tutto quello che significa ‘farsi vedere’ è importante per un attore, perché è un modo di comunicare con gli altri. Non è solo vanità, è il mio modo di avere dei rapporti con gli altri che magari nella vita sono più difficili. Per me stare di fronte ad un pubblico è un modo per parlarci.

È un po’ come respirare per lei…
Beh, tutto sommato, sì. Non potrei vivere senza. Dovrei trovare un altro modo di comunicare.

E perché dovrebbe trovarne un altro? Lo fa bene, mi pare…
Beh, speriamo che siano tutti d’accordo con lei, perché non è che per lavorare con me si facciano grandi sforzi. Ad esempio, con me non si fa una tournée, con me non si fa uno spettacolo. Avendo me come ‘richiamo’ non si può mettere in scena uno spettacolo, non ti danno i soldi per farlo. Io non ho nessun peso da un punto di vista commerciale. Un film, se ci sono io nel cast, non è per questo che viene distribuito. Perciò o mi mettono accanto qualcuno che ha un nome più popolare del mio oppure nulla.

Nomi come il suo non vengono considerati?
No, non dico questo. Vengono ignorati. Perché non è che
non mi si riconosca la qualità di attore. Ma un punto nodale è che alla massa non gliene frega nulla. Forse perché faccio delle cose che a loro non interessano. Sicuramente ciò è dovuto anche al fatto che sono male educati dalla televisione, che ha degradato i gusti della gente. Se io faccio uno spettacolo, mi vengono a vedere in pochi e questo numero esiguo di persone non basta affinché i produttori finanzino spettacoli e film. I produttori vogliono sicurezze e io non ne do da questo punto di vista. Perciò faccio film a basso costo che poi non vengono distribuiti.

Pensando a quanto dice, non sono riuscita a vedere "Aria" per la regia di Valerio D’Annunzio.
Sì, è stato tre giorni nelle sale cinematografiche, poi l’hanno tolto. Non credo che lo vedrà mai.

C’è una donna con cui vorrebbe lavorare?
Lavoro spesso con donne. La regista di questo spettacolo è una donna. Come attrice adoro Piera degli Esposti, con cui ho già recitato, la sento estremamente congeniale. Ce ne sono moltissime di brave. Anzi, ci sono più donne che mi piacciono che uomini. Le donne hanno una loro predisposizione naturale a quel certo tipo di sensibilità che in teatro e al cinema serve molto. Poi non c’è rivalità con una donna.

Se potesse invece scegliere un autore che non ha ancora interpretato?
Goldoni. Ah, no, l’ho interpretato. Ho fatto “La Locandiera”. Forse non c’è nessuno, tra quelli che mi interessano, che non abbia interpretato.

Quello che ha amato maggiormente?
Shakespeare, in qualità di attore l’ho amato moltissimo assieme a Thomas Bernard, che sento molto affine e infatti appena posso cerco di metterlo in scena. Però come lettore credo che Anton Cechov sia il massimo. Gli autori che ho fatto mi piacciono tutti, ognuno ha la sua personalità e ciascuno richiede una recitazione ogni volta diversa. Il bello della recitazione è cambiare stile a seconda dell’autore, recitare sempre allo stesso modo può essere utile perché la gente ti riconosce. Ma cambiare è essenziale per un attore. Per questo amo fare sia il teatro che il cinema, perché sono due modi di recitare diversi.

Tornando al cinema. Come non menzionare il suo Aldo Moro in ‘Buongiorno Notte’ di Marco Bellocchio. Che rapporto ha instaurato con il grande regista?
Un rapporto magnifico. Bellocchio è un grande artista, di grande sensibilità. La sua presenza è ispiratrice.

Anche in quel film lei si cala in una dimensione visionaria e poetica.
Esatto. Infatti, Bellocchio, a chi gli rimproverava di esser stato incongruente, giustamente rispondeva che non aveva voluto fare né storia né politica, ma aveva voluto dare una sua visione di un fatto. Ed è questo che fanno gli artisti. Mi sono trovato benissimo e presumo anche lui.

(20 settembre 2010)

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