“Notturno” di Gianfranco Rosi: l’erba del confine

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di Flavio De Bernardinis

Appena presentato a Venezia, e già uscito nelle sale, il nuovo film di Gianfranco Rosi, l’autore di Sacro GRA e Fuocoammare, dal titolo Notturno, induce ad alcune riflessioni, riguardanti sia il linguaggio cinematografico sia gli spinosi temi che affronta.

Sulla forma filmica, c’è da dire che Notturno mette in campo la questione tipica del genere chiamato film etnografico, su cui si interrogava per esempio Jean Rouch già una cinquantina di anni fa, ovvero la consapevolezza della presenza della macchina da presa.

Coloro che vengono inquadrati, colti in momenti specifici della propria esistenza, sono consapevoli della macchina da presa, e questo influisce sul comportamento. In termini para scientifici, l’osservatore modifica i gesti e le azioni di chi viene osservato. Nel film di Rosi, è evidentissimo che le persone abbiano accettato di essere filmate. Non esiste alcuna immagine “rubata”: l’inquadratura è studiatissima, i movimenti delle figure in campo previste. Ciò riguarda anche il montaggio. In casi come questo, ci si chiede se gli stacchi di montaggio siano dettati da un ritmo predisposto “in moviola”, oppure dalle cose che accadono nell’immagine. È il consueto dilemma, Rossellini oppure Ejsenstein: ossia la ripresa o l’attacco? Si intende dire, a dettare la durata dell’inquadratura è la fenomenologia della ripresa filmata, ciò che avviene dentro l’immagine, oppure il cambio di inquadratura, l’accostamento e/o contrasto tra due distinti punti di osservazione?

In Notturno, un cartello iniziale avverte lo spettatore che si troverà di fronte a una scrematura di tre anni di riprese effettuate in Medio Oriente, e questo conduce verso la seconda ipotesi, ovvero un lavoro estremamente accurato in sede di montaggio. Il film etnografico, così, tende alla verità ma facendo perno sulla finzione. Le persone accettano la presenza della camera che filma, il ritmo delle immagini è l’esito di un lavoro accuratissimo sul materiale audiovisivo a disposizione.

Non per questo gli esseri umani che vediamo sono attori, e gli ambienti un set. Eppure, riflettendoci, è invece anche così. Le persone recitano, lo spazio filmico è certamente un set. L’osservatore influisce su ciò che viene osservato. Si tratta di confini. Tutti gli spazi filmati sono confini: Libano/Siria, Kurdistan/Turchia, Iraq/Iran. Il Medio Oriente non è un Paese, è un confine. E il confine è luogo di tensione e violenza. La macchina da presa registra innanzitutto questa violenza, che non distingue tra realtà e finzione. Si tratta di una ferocia programmata e studiata, e quindi realizzata. È un set, è un codice, è un rito. I bambini a scuola lo ripetono nei disegni e i racconti per la maestra. I pazienti in un ospedale psichiatrico lo mettono in scena a scopo terapeutico. Il film etnografico è innanzitutto un meta-film, ossia un film che riflette sulle modalità di composizione dell’immagine e del suono.

Questo è importante, in tempi di pan-visibilità come i nostri. Ciò che si vede è innanzitutto ciò che si mostra. Non ci sta l’immagine rubata col telefonino, lo abbiamo detto. Sono le persone /personaggi, se mai, in piena consapevolezza, che si derubano. I bambini, gli uomini, le donne filmati accettano che la macchina da presa sottragga loro alcuni istanti della propria vita. Lo spettatore è il testimone del furto. Come diceva un dimenticato grande regista giapponese, Nagisa Oshima (L’impero dei sensi), il cinema è un atto criminale.

Ma c’è crimine e crimine. Il realismo di Notturno è quello di raddoppiare la violenza delle cose. Il teatro e il suo doppio: Artaud? La sequenza della recita teatrale all’ospedale psichiatrico di Bagdad, filo conduttore dell’intero film, fa pensare effettivamente al Marat/Sade di Peter Weiss/Peter Brook, ispirato ai testi di Antonin Artaud.

Ma è la verità, quella a cui tende il film etnografico, oppure è l’allucinazione del punto di vista occidentale, ossia la disperata e tragica ricerca del punto di vista medesimo?


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Perché è questo ciò che infine si percepisce e si avverte. Un sentimento acre e pungente di nostalgia. La nostalgia per i codici, i riti, i comportamenti che l’Occidente ha svenduto al culto delle icone, che poi sono i brand del linguaggio mercantile.

La cultura islamica iconoclasta, vera protagonista del film, abolisce ogni tentativo di infondere veste iconica alla vita. La macchina da presa è presente. Alcune inquadrature sono consapevolmente belle (c’è persino un’immagine ispirata alla Tempesta del Giorgione). Tali bellissime inquadrature influiscono sul montaggio, nel senso che sono destinate ad essere accolte nella successione di immagini di cui il film si compone. Ma la sostanza di ciò che si mostra pertiene ai territori dell’iconoclastia. Niente, in effetti, si riesce effettivamente a vedere.

Per questo, le parti esplicitamente meta-filmiche, il teatro terapeutico all’ospedale psichiatrico oppure i disegni dei bambini alla scuola elementare, risultano le più dense ed intense. Non solo per ciò che dicono, ma per quello che davvero mostrano. L’immaginazione priva di ogni possibile icona. Non si può vedere ciò che è terribile solo accennare.

Per questo, infine, Notturno è un film contro. Contro ogni culto delle immagini. E lo è in modo così radicale che gli tocca pagare il prezzo più alto: essere prima di tutto contro se stesso.

(11 settembre 2020)





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