Obama sulla tomba di Romero
Maurizio Chierici
, il Fatto Quotidiano, 22 marzo 2011
La foto che domani arriverà ai giornali entra nella storia delle Americhe: presidente degli Stati Uniti in preghiera sulla tomba del vescovo Romero assassinato (24 marzo, 31 anni fa) nel nome della "guerra al comunismo" ordinata da un altro presidente di Washington infastidito dalla Chiesa che difendeva i contadini abbandonati alle squadre della morte. Anni di Reagan, anni di Obama.
Romero è sepolto nei sotterranei della cattedrale di San Salvador, ultimo passaggio di Obama nel lungo viaggio in America Latina. 31 anni fa era la chiesa divorata da un incendio e la domenica angosciata dalle omelie del vescovo. Leggeva i nomi di ragazzi, intellettuali, sindacalisti portati via dagli stivali militari come nell’Argentina dei generali P2. Silenzio dei giornali, silenzio Tv. Romero non si rassegnava. Denunciava (nomi e cognomi) le alte uniformi responsabili dei delitti. Insomma, sovversivo rosso come i gesuiti e tanti religiosi finiti sottoterra nel nome della libertà del libero mercato. Ogni altra comunità di fedeli non aveva mai sofferto questo tipo di persecuzioni dopo il nazismo. Solo il dolore per un sacerdote assassinato attorno a Varsavia, Chiesa ufficiale del silenzio, mentre la morte di quattordici religiosi e di migliaia di fedeli del Salvador svanivano nelle ombre del Vaticano di Giovanni Paolo II.
Se i popoli latini considerano Romero "martire e santo", i monsignori romani ne studiano con diffidenza la beatificazione subito concessa al povero prete polacco bastonato a morte dalle squadre che obbedivano a Mosca, la stessa obbedienza delle squadre che in Salvador si inchinavano ai 6 milioni di dollari spediti ogni giorno da Washington per "difendere il mondo cristiano". Era il 1980, medioevo della ragione. La Chiesa luterana e la Chiesa anglicana ricordano il martirio di Romero ogni 24 marzo. E nel suo nome il 24 marzo è consacrato dalle Nazioni Unite "giorno della difesa della verità".
Adesso l’incontro tra Obama e il vescovo, separati dalla morte ma uniti da una morale che apre la speranza alle generazioni Duemila. Uomini di pace dalla parte della dignità degli ultimi, con una differenza che i nostri giorni allargano. Romero ha giocato la vita per difendere il diritto alla normalità di sconosciuti s senza censo. Con gli stessi ideali Obama schiaccia il bottone della guerra per salvare cittadini che pretendono la democrazia. Bombe buone di Obama; bombe cattive di Gheddafi. E il popolo condannato a sopportarne gli effetti collaterali non si accorge della diversità. Da come l’ho conosciuto immagino che Romero non sarebbe d’accordo. Il primo incontro domenica 29 giugno 1978. Sembrava un prete di campagna. Scendeva dalla piccola automobile guidata da un seminarista e la tonaca si alzava scoprendo una caviglia pallida, calza ripiegata sulle scarpe dall’elastico strappato.
Tenerezza e delusione: come può, così fragile, sfidare l’egoismo delle oligarchie proprietarie di giornali e Tv che ogni giorno lo massacrano di insulti? Poi le chiacchiere a San José della montagna, seminario trasformato in accampamento per i profughi in fuga dalle campagne dove le truppe speciali (bombe al fosforo, berretti verdi ammaestrati da consiglieri Usa) bruciavano la gente per fare il vuoto attorno alla guerriglia: "Uccidere per spaventare è un peccato insopportabile, insulto all’umanità, insulto a Dio". E poi, e poi, fino all’ultimo saluto: "Perché i giornalisti tornano a casa? Senza testimoni le luci si spengono, chissà cosa succederà". Tre mesi dopo gli sparano sull’altare. L’assassino promosso capitano ormai vive negli Stati Uniti. “Irrintracciabile” dalle polizie di Bush padre, Bush figlio e Clinton presidente. Chissà se Obama lo troverà.
(22 marzo 2011)
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