Occidente vs Isis: un combattimento allo specchio

Elettra Santori

«We’re in this together»

Circa un anno e mezzo fa, era il primo luglio del 2016, alcuni terroristi islamisti aprirono il fuoco all’interno di un ristorante nel quartiere diplomatico di Dacca, in Bangladesh, uccidendo 22 civili, molti dei quali occidentali, e due poliziotti.

Ricordo il momento esatto in cui appresi la notizia: ero in macchina con mio figlio, imbottigliati nel traffico del Lungotevere, e lo speaker del giornale radio annunciava la strage soffermandosi sulle sevizie inferte agli ostaggi con lame affilate. Cambiai rapidamente canale, non volevo che il bambino ascoltasse i dettagli raccapriccianti di una carneficina; ma osservandolo dallo specchietto retrovisore capii che aveva sentito tutto e operato le dovute connessioni, e cioè che Roma poteva diventare Dacca in un momento.

La stazione radio più vicina trasmetteva “This one’s for you”, l’inno ufficiale degli Europei 2016. “We’re in this together, Hear our hearts beat together…”, il sound sciocco e vitale della musica dance ci venne incontro come una mano tesa che dall’Europa si allungava fino a Dacca per riportarci a casa, strappandoci dal pensiero di un bagno di sangue che poteva essere il nostro. Quella sera altra dance sarebbe risuonata nei locali del pianeta, altri esorcismi sarebbero stati celebrati nel ricordo dell’ennesima strage, e i politici si sarebbero profusi nelle solite esortazioni post-attentato: “Non rinunciamo alle nostre abitudini”, “Non rinchiudiamoci in casa come vorrebbero i terroristi, innamorati della morte e non della vita”.

Tuttavia quella canzone, che con un’oscura, puntuale casualità era venuta a porgermi una boccata d’aria dopo la notizia dell’ennesimo orrore, non mi aveva dato fino in fondo la sensazione di aver realmente “cambiato canale”. We’re in this together, recitava il testo: siamo tutti coinvolti, ci siamo dentro tutti insieme, ed era vero. Non nel senso superficiale in cui le anime belle ed equidistanti accomunano i terroristi ai bombardieri della coalizione anti-Isis (gli occidentali non sono diversi dai kamikaze, anche loro massacrano con le loro bombe i civili innocenti in Siria”), ma in quello, più psicologico, di una specularità tra noi e loro.

Nessuna conversione

Nelle foto pubblicate dall’Isis poco dopo la strage di Dacca, i terroristi del commando, kefiah sulla testa e kalashnikov in mano, sorridevano a pieni denti sullo sfondo del drappo nero del Califfato. Eppure solo un anno prima, uno degli attentatori, Nibras Islam, aveva postato sulla sua pagina Facebook una foto in cui stringeva la mano a Shraddha Kapoor, giovane attrice indiana: “Nibras Islamfeeling perfect”, scriveva; e commentava estasiato: “Shraddha Kapoor, you beauty!”.

Nelle impronte mediatiche che la nidiata di terroristi ricollegabili all’Isis lascia dietro di sé, si rinviene spesso un dettaglio o una circostanza che rimandano all’immaginario delle celebrity e della moda, al divismo, al culto dell’apparenza e dei consumi vistosi: la Shradda Kapoor per cui impazziva lo stragista di Dacca è una star di Bollywood e fa incetta di copertine sui magazine asiatici; nel luglio 2014, sull’edizione indiana di GQ, appariva inguainata in un body di pelle e scarpe fetish ai piedi. In fondo alla copertina, lo strillo “Shradda Kapoor, sexier than ever”.

Salman Abedi, il giovane terrorista di origine libica, ma cittadino inglese, che lo scorso 22 maggio si fece esplodere al termine di un concerto pop nel foyer della Manchester Arena, era un tifoso del Manchester United, un “fun guy”, stando alle testimonianze di chi lo conosceva. Uno che in passato non aveva schivato né l’alcool né le droghe leggere. Suo fratello Hashim, anche lui arrestato in Libia per terrorismo, è ritratto in una foto mentre imbraccia una mitraglietta e una maglietta della Nike.

Una passione per Burberry e il suo iconico motivo a tartan si evince invece da una foto che ritrae Adel Khermiche, uno dei due assassini che il 26 luglio 2016 sgozzarono il parroco della chiesa di Saint-Etienne-de-Rouvay: sguardo da posatore, braccia conserte in un gesto di sfida velleitaria, la stampa Burberry sul colletto della sua polo, e una camicia, anch’essa Burberry (che sia un’imitazione o meno non cambia il penchant modaiolo di Khermiche), che pende da un attaccapanni all’ingresso della sua stanza.

Ben vestito, curato, fisico imponente: così veniva descritto Mohammed Bouhlel, lo stragista di Nizza, nei racconti dei vicini; e altrettanto muscoloso era Mohammed Daleel, il siriano che il 24 luglio 2016 si fece esplodere ad Ansbach, in Germania, soprannominato Rambo per il suo modo di vestire, per i capelli lunghi e il fisico da veterano di guerra.

Se gli estremi si toccano, forse non sono davvero così estremi. Tra il fan in estasi per la star di Bollywood e il fanatico religioso sorridente col kalashnikov in mano, tra il fashionista in Burberry e il tagliagole che, mentre sgozza un prete, grida “Allah è grande!” come uno slogan pubblicitario; tra il narcisista di Nizza e il kamikaze che sceglie per sé e per le sue vittime una morte altrettanto narcisistica e roboante, scagliandosi con un Tir sulla fury road della Promenade des anglais, c’è più continuità che rottura, c’è casomai accelerazione, intensificazione di uno stato mentale, un’espansione dell’ego oltre la norma sociale consentita. Il termine conversione può servire a focalizzare il passaggio dal lifestyle occidentale all’islamismo, ma per altri versi è un concetto fuorviante che spezza la vita del terrorista in un prima e un dopo, come se il dopo fosse agli antipodi del prima, una transustanziazione, il tasto backspace che cancella il carattere precedente. Proprio ciò che danno a credere i comunicatori e i reclutatori dell’Isis, rappresentando il percorso verso il “martirio” come un cammino di purificazione, di riscatto morale e sociale, un fulgido reset della vita passata.

E invece quello che Nibras, Adel, Mohammed e gli altri conservano di sé nel passaggio al jihad è più di quello a cui rinunciano. Resta intatta la loro voglia di protagonismo e il bisogno di uscire dall’anonimato, così tipici delle società di massa contemporanee, che incentivano il narcisismo individuale fintanto che funziona come potente acceleratore dei consumi, per poi frustrarlo quando bussa alle porte dell’autoaffermazione e del successus, l’evento raro, il buon esito che per definizione arride a pochi.

La storia di Abdullahi Yusuf, giovane somalo arrestato a Minneapolis nel 2014 in quanto aspirante terrorista dell’Isis, poi rilasciato e assegnato ad un programma di de-radicalizzazione, ricalca fedelmente questo bisogno di evadere da un anonimato frustrante e apparentemente senza via d’uscita che caratterizza gli aspiranti foreign fighters dell’Isis. Yusuf viveva in un piccolo appartamento a Minneapolis con i genitori. Suo padre, che pure non gli aveva mai fatto mancare ciò di cui aveva bisogno, era un semplice autista di scuolabus. «Il sogno americano sembrava impossibile per uno come me», ha raccontato Yusuf in un’intervista al New York Magazine del 26 novembre 2017. Più che l’ideologia, ciò che lo ha spinto a seguire un reclutatore dello Stato islamico e a cercare di raggiungere la Siria come foreign fighter è stato il «desiderio di avventura». E le foto su Insta
gram che esaltavano la vita confortevole dei sudditi del Califfato, «con le loro belle ville, le loro belle macchine, cose del genere».

Nell’adesione all’Isis, ecco che il narcisismo frustrato e inconcludente riceve un’investitura religiosa, acquista una nuova magnitudo, viene canalizzato, finalizzato a uno scopo più elevato – Dio, il jihad – che altro non è se non una proiezione maggiorata dell’io. Nessuna metànoia, nessun profondo mutamento del sentire che di norma si accompagna a una vera conversione: piuttosto una muta, un rinnovamento epidermico che lascia l’endoscheletro intatto. Nel passaggio al jihad, il narcisismo frustrato e la rabbia del singolo non si risolvono né dissolvono, al contrario ricevono una mission transpersonale, transnazionale. L’individuo delocalizzato, che abita fuori di sé, presso gli oggetti (i consumi vistosi, gli status symbol …), che non ha un’identità propria, ma la ricava dal gruppo di appartenenza (o da quella specie di se stesso in versione aumentata che sono la celebrity e il leader carismatico, oggetti della sua devozione), trova il modo di cambiare tutto senza che nulla cambi, mettendo a disposizione del fondamentalismo violento la sua rabbia e la sua vita passata, semplicemente in cambio dell’adesione ad un ben definito set di regole e restrizioni alimentari, comportamentali e sessuali. Nuovi status symbol prenderanno il posto di quelli vecchi, la mimetica sostituirà la camicia Burberry, la griffe del Califfato – il drappo nero e bianco che tanto ricorda il Jolly Roger dei pirati – campeggerà nelle foto dell’aspirante “martire” postate su Facebook prima dell’attentato. E altre celebrity – Allah, Al-Baghdadi – soppianteranno quelle mondane, di cui si nutriva l’immaginario pregresso del neoterrorista.

Guerra di idolatrie

Che non ci sia vera conversione, però, non significa che la religione non abbia nulla a che fare col terrorismo e che il passaggio all’Islam sia solo di facciata. L’individuo su cui attecchisce la propaganda islamista si è già votato al sacro prima ancora di essere radicalizzato: è un estroflesso che trova verità e sostanza fuori di sé, nei prodotti-culto, “beni posizionali” dotati di un “mana” che infonde sicurezza e protezione. È un narciso che si ama quando la potenza del mana si riverbera su di lui e si odia se non ha presso di sé un oggetto di riconosciuto valore che gli confermi il suo essere. È un individuo senza individualità, teso tra il conformismo e il narcisismo, in cui l’ego cogito illuminista («Abbi il coraggio di servirti del tuo intelletto») non ha mai attecchito, lasciando campo all’ego e basta. Proietta se stesso in 3D nelle personalità di successo e si ama onanisticamente riflettendosi nei loro ologrammi. E quando una voce carismatica riesce a blandirne l’ego con una prospettiva eroica attraverso cui stagliarsi dall’anonimato, si lascia portare di buon grado, sacrificando gli status symbol in nome del Corano, che in verità non ha mai letto, e che dunque non è per lui un vero libro di fede, ma solo l’ennesimo oggetto cult, intriso più di altri di “mana”, di forza vitale.

Questa predisposizione al culto (di se stesso, degli oggetti, della personalità carismatica) può spiegare il raptus del jihadismo molto più della banlieue che molti degli ultimi terroristi in effetti non hanno mai conosciuto, o perlomeno non nelle sue forme più degradanti. Non si tratta di un tratto psicologico circoscritto a un ristretto gruppo di giovani musulmani borderline potenzialmente radicalizzabili, ma di un dato culturale e sociale di massa che interessa tutto l’Occidente (solo apparentemente laico e superficialmente disincantato), dove la religiosità ha disertato le chiese ma ha trovato modi non convenzionali e non confessionali per esprimersi: basta guardare le campagne pubblicitarie di borse o scarpe di lusso per ritrovare nell’espressione estatica delle modelle – labbra socchiuse, la testa rovesciata all’indietro, il corpo in abbandono – la stessa mimica e postura della transverberazione di Santa Teresa del Bernini. Basta osservare i processi di cultificazione delle star, il loro assurgere ad exempla, l’imitatio del loro stile e dei loro comportamenti a cui si sottopone il fan. Basta analizzare il lessico dello show-business e dell’industria dell’entertainment per coglierne tutte le infiltrazioni religiose: divi, icone, iconico, idoli, cult movie, cult book… Che gli occidentali siano politeisti e idolatri, come affermano gli islamisti, è un’accusa difficile da respingere, in un mondo facile agli incantamenti del divismo, della popolarità, dei consumi vistosi. L’autos nomos che, come scrive Paolo Flores d’Arcais in La guerra del Sacro, ha sancito in linea di principio la sovranità di homo sapiens su se stesso, non ha debellato l’eteronomia, né quella stricto sensu religiosa, sempre ritornante, né l’eteronomia in senso lato, che si rifà breccia continuamente nell’uomo e lo attira in forme sempre nuove, dai totalitarismi alle ideologie fino alle attuali pressioni conformistiche dei social network sugli individui.

Suicidi “pop”

Abbiamo, noi occidentali e lo Stato islamico, un immaginario comune, intrecciato, sincronizzato.

L’attentato suicida di Manchester dello scorso maggio, che ha causato 22 morti, molti dei quali minori, si è verificato proprio mentre sui media occidentali si intensificava l’allarme riguardo il “Blue whale suicide game”, che inciterebbe gli adolescenti al suicidio come estrema prova di coraggio dopo il superamento di altre cinquanta azioni pericolose.

A prima vista, i suicidi presumibilmente legati al Blue Whale e quelli dei giovani kamikaze dell’Isis non potrebbero sembrare più diversi: quelli della Balena blu sono forse solo leggenda, una probabile “fake news sensazionalizzata” (ma non per questo innocua), in ogni caso gioco estremo, nichilista, che mette a rischio la vita solo di chi accetta di parteciparvi; i suicidi dei terroristi dell’Isis invece sono tragica realtà, atto politico e autodafé al tempo stesso, che si trascina con sé un’orgia di vittime innocenti.

Eppure, come azioni estreme, le due pratiche suicidarie hanno molto in comune: la pianificazione metodica, il percorso ascensionale di prove/rituali di purificazione prima dell’atto finale, la presenza di tutor/reclutatori che accompagnano e incitano l’aspirante suicida al passo definitivo; e infine il gesto estremo come apoteosi del sé, per cui il suicida non ha la sensazione di compiere un atto rinunciatario e disperato, come un depresso che si toglie la vita in punta di piedi tra le quattro mura di casa, ma un’impresa ardua per individui eccezionali.

Entrambi sono suicidi “pop” a favore di pubblico, coronati dal successo e dal clamore mediatico. Indizi di un’affinità estetica tra l’Occidente e il suo nemico più subdolo, che ha saputo occupare gli spazi vuoti del disagio occidentale con un’utopia feroce, ma eclettica e flessibile.

In effetti, nella nostra società non abbastanza disincantata, il verbo califfale ha potuto attecchire sulle menti dei musulmani intra-occidentali perché presenta un indubbio vantaggio competitivo: riesce, come nessun altro métarécit contemporaneo, nella difficile impresa di incorporare e metter
e a sistema desideri, pulsioni e ossessioni dominanti nel mondo globalizzato, sia pure cambiandone il verso. Molti dei cascami del lifestyle occidentale vengono integrati dall’Isis e resi “halal”, leciti: il narcisismo digitale del selfie compulsivo (pensiamo al materiale foto-video in cui il jihadista si autocelebra sui social), la cultificazione degli oggetti (il cult book coranico, la divisa nera jihadi cool indossata dai vanitosi mujaheddin, il pickup Toyota che li porta in giro trionfanti come una papamobile …), la bulimia sessuale del macho (che l’Isis proibisce in terra ma differisce in un aldilà popolato di vergini-premio per i kamikaze).

Nel grande contenitore dell’ideologia califfale occupa un posto d’onore anche ciò che l’Occidente rimuove o formalmente rinnega: la rabbia dei frustrati, la spinta antipolitica al rifiuto delle regole democratiche, le pulsioni omicide o addirittura sadiche. Il miliziano dell’Isis è un hater alla luce del sole, che non deve più nascondersi e provare vergogna di se stesso.

Il revenant

L’Isis è parte di noi, è la nostra nemesi e la nostra mimesi. Ecco perché è così difficile sconfiggerlo definitivamente, per quanto oggi sia indebolito e in ritirata. We’re in this together, ci siamo dentro insieme, i nostri paradigmi sono simili a quelli dell’avversario più di quanto sospettiamo; e questa comunanza ci spunta le armi, ci impedisce di mettere in campo risposte al terrore che non siano solo securitarie o, all’opposto, ingenuamente islam-friendly. Combatterlo fino in fondo sarebbe un po’ come ripudiare una parte di noi stessi. Come quegli uccelli che vedono la loro immagine alla finestra e la beccano con forza scambiandola per un rivale, abbiamo fronteggiato il Califfato senza accorgerci che il nostro era un combattimento allo specchio, idolatria contro idolatria, sotto il cielo comune dell’eteros nomos. Sconfitto militarmente in Siria e Iraq, l’Isis è un morto insepolto che continuerà a vagare per l’Occidente come un revenant in cerca della sua nuova incarnazione: che probabilmente ancora una volta ci somiglierà.

(11 gennaio 2018)



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