Oikocrazia o Plutocrazia?
un altro laboratorio segreto. Qui incontra il possessore del
potere politico. E qui sveleremo l’arcano della produzione
di quei profitti enormi e costanti che hanno permesso al
capitalismo di prosperare e di espandersi»[1].
Giovanni Arrighi
«Nel dibattito politico ed economico il mercato è spesso accostato
all’individuo e lo Stato alla dimensione pubblica della collettività.
Ma a una riflessione più attenta ci si rende conto che entrambi
hanno a che fare con la dimensione (pubblica) del potere e possono
essere oggetto di appropriazione (privata)»[2].
Colin Crouch
Fabio Armao, L’età dell’oikocrazia, Meltemi, Sesto San Giovanni 2020
Manuel Castells, Volgere di Millennio, Università Bocconi Editore, Milano 2003
Esattamente vent’anni fa Manuel Castells dava alle stampe il terzo volume della sua trilogia sull’informazionalismo, orientando lo sguardo sociologico sui segnali percepibili nelle trasformazioni in atto. Ossia l’inarrestabile usura dello Stato-nazione, manufatto che aveva accompagnato dal 1648 (patti di Westfalia) il pluri-secolare cammino di instaurazione della Modernità, intesa weberianamente come “monopolista della violenza legittima”. E lo faceva con toni profetici/millenaristici, piuttosto insoliti in un cultore del distacco analitico proprio del grande esploratore nel mutamento: «il problema fondamentale sollevato dai processi di cambiamento sociale che sono essenzialmente esterni alle istituzioni e ai valori della società esistente sta nel fatto che essi possono finire per frammentare la società invece che ricostruirla. Al posto di istituzioni trasformate, avremmo in tal caso comuni e comunità di ogni natura. Al posto di classi sociali, vedremmo nascere tribù. E invece dell’interazione conflittuale tra funzioni dello spazio dei flussi e significati dello spazio dei luoghi, potremmo osservare il ripiegamento delle élite globali dominanti nei palazzi immateriali ricavati da reti di comunicazione e flussi di informazione. Nel frattempo, l’esperienza della gente rimarrebbe confinata a una serie di località segregate, sottomesse nella loro esistenza e frammentate nella loro coscienza. Senza un Palazzo d’Inverno da assaltare, le rivolte potrebbero implodere, trasformandosi in insensata violenza quotidiana» (M.C. pag. 421).
Frammentazione, tribù comunitarie, segregazione, quotidiana violenza senza bersagli.
Implosione. Quel vuoto di potere, nel ripiegamento dell’istituzione statuale dal suo ruolo regolativo e di presidio della legalità, che offre immense praterie all’imporsi di una finanza malavitosa, ascesa a livello globale grazie alla sua capacità di intercettare immense masse monetarie con cui alimentare la speculazione (stando a cifre attendibili, un sesto dell’intera ricchezza mondiale). Proprio in questa sede abbiamo parlato di “avvento della cleptocrazia”, che coincide con la sua legittimazione: l’entrata nei salotti buoni del capitale ascesa a vera e propria egemonia-rete. Al riguardo il procuratore di Palermo Roberto Scarpinato parla di “massomafie”.
Già allora Castells ne indicava per sommi capi la composizione: «Cosa Nostra (e i suoi soci: Camorra, ‘Ndrangheta e Sacra Corona Unita), la mafia americana, i cartelli colombiani, le reti criminali nigeriane, la yakuza giapponese, le triadi cinesi, la costellazione delle mafie russe, i trafficanti di eroina turchi, le posse giamaicane e una miriade di piccoli gruppi criminale e locali, presenti in tutti i paesi, si sono uniti a formare una rete globale diversificata che permea i confini e mette in relazioni malaffari di ogni genere» (M.C. pag. 188).
Rispetto ai vent’anni trascorsi, le analisi che sono venute sviluppandosi seguendo quegli iniziali tracciati vanno caratterizzandosi vieppiù in una sorta di sindrome depressiva da decadenza; un revival anni Trenta, tra il finis Austriae alla Joseph Roth e la Crisi della Civiltà di Johan Huizinga. Anche perché – in chiave di analisi prospettica con pretese predittive – ormai appaiono improponibili i paradigmi di un’alternanza tra territorialismo e mercatismo, lo spazio dei luoghi e quello dei flussi; la speranza-illusione che il revival del rinnovato protagonismo delle città (più o meno globali) possa oltrepassare il compito-missione di laboratorio dove si sperimentano rinascite democratiche a scartamento civico. Come inservibili risultano le teorie delle “transizioni di egemonie sistemiche nel sistema mondo” elaborate dai curatori del lascito di Fernand Braudel, in materia di storia longue durée, raccolti nel Centro Braudel di New York; da Immanuel Wallerstein a Giovanni Arrighi. L’idea – francamente schematica – che l’esaurimento di un ciclo capitalistico di accumulazione, coincidente con la sua finanziarizzazione, farebbe da premessa allo spostamento di centralità spaziale legata a nuove fasi accumulative.
Per dirla gramscianamente, siamo nel bel mezzo di un “interregno”, la cui fine non si riesce a intravvedere. Un vuoto di pensiero tendente all’ineffabile, testimoniato dall’ultimo Arrighi prospettando l’avvento – dopo una sequenza di centri del mondo durata mezzo millennio, da Genova a New York (passando per Amsterdam e Londra) – di quanto definiva “caos planetario”: «prima che l’umanità soffochi (o si delizi) nella prigione (o nel paradiso) di un impero globale di marca occidentale o di una società del mercato globale gravitante attorno all’Oriente asiatico, potrebbe anche bruciare tra gli orrori (o le glorie) della crescente violenza che ha accompagnato il disfacimento dell’ordine della Guerra Fredda»[3].
Ora, sintonizzandosi su Arrighi, anche il nuovo saggio di Armao prospetta l’avvento di «questo nuovo caos universale» (F.A. pag. 36). Con una particolare focalizzazione sugli aspetti di sdoganamento del fenomeno criminale, in cui quanto si è definito cleptocrazia diventa la proposta di un nuovo paradigma interpretativo denominato “oikocrazia”: «il restringersi del ruolo delle istituzioni statali non determina un vuoto di potere. Semmai dà origine a nuove forme di aggregazione sociale, e a un vero e proprio nuovo tipo di regime politico che abbiamo chiamato oikocrazia, basato sul ritorno del clan al centro del contesto sociale» (F.A. pag. 59).
Insomma, il vuoto di potere che Armao aveva già descritto nel decennio scorso in un saggio di apprezzabile compattezza, come declassamento dello Stato al ruolo di mero “appaltatore” («allo stato appaltatore viene sempre più di frequente richiesto di non elaborare grandi progetti sociali e di liberarsi di qualunque residuo ideologico; di ritirarsi gradualmente anche da settori cruciali quali la sanità, la previdenza, la difesa a vantaggio dei privati»[4]), assume tratti sempre più regressivi. Anomici. Da qui il presumibile ritorno a forme pre-moderne, in cui l’emergere di presidi malavitosi a livello mondiale ripropone – ad esempio – figure analoghe a quelle dei “signori della guerra” emersi nella dissoluzione dell’impero cinese. Un ritorno al vincolo agnatizio, in cui il familismo fonda la solidarietà comunitaria nella scomparsa dell’appartenenza razionale/elettiva del rapporto sociale. Armao dichiara che il saggio di cui discutiamo sarà il primo di una trilogia in progress. Di cui attendiamo la pubblicazione per meglio capire in che cosa questo clan oikocratico si differenzierebbe da una tradizionale e ben nota comunità perimetrata; una gemeinschaft alla Ferdinand Tönnies.
Nel frattempo possiamo spingere la deduzione al punto di attribuire all’oikocrazia clanica una funzione costituente, come nuovo totalitarismo globale? O il vero DNA del (dis)ordine mondiale può essere individuato nel tratto egemonico dell’occupazione dello spazio creato dall’arretramento della forma-Stato? Ossia la privatizzazione del mondo, della dimensione pubblica. Operazione che segna il ritorno in campo di antropologie pre-capitalistiche, con tanto di ideologia ad hoc: la plutocrazia, che cresce grazie all’accaparramento per spoliazione (“accumulazione per espropriazione”, secondo David Harvey)[5], nel ridisegno della mentalità collettiva inoculandovi il virus dell’assiomatica Neo-Lib. L’interesse avido come metro di misura dell’apprezzabilità.
Tutto ciò, oltrepassando abituali metaforismi che antropomorfizzano entità astratte: lo Stato, le istituzioni, i partiti, ecc. Nel ricordo dell’insegnamento di un antico giurista cultore di Carl Schmitt e Machiavelli – Gianfranco Miglio, intellettuale un po’ pazzo ma di certo non sciocco – secondo il quale tali entità sarebbero “stanze” abitate da persone; che le fanno muovere con le proprie idee e le proprie gambe. Oggi i signori del denaro e i loro delegati.
Per cui possiamo ben dire che ancora una volta i capiclan sono solo i caporali o i mazzieri dei veri soggetti dominanti: i possessori della ricchezza. Il gruppo sociale – appunto, plutocratico – che ha sostituito la figura del capitalista (ossia il riproduttore della ricchezza attraverso l’investimento) e relegato in soffitta il capitalismo industrialista. Se è vero che il big business odierno nasce dal presidio dei varchi attraverso i quali scorrono i flussi: materiali delle merci (logistica) e virtuali dei simboli (finanza). Nell’egemonia di un ceto che si è liberato di ogni contrappeso, già prima del 1989: la sconfitta del lavoro organizzato a partire dalle rivoluzioni organizzative di fine anni Cinquanta (i cui effetti sono emersi nel corso degli anni Settanta), l’attacco vittorioso al welfare e conseguente rottura del patto keynesiano-fordista con l’avvento delle politiche reazionarie legate al binomio Thatcher-Reagan, la completa sottomissione del ceto politico indotta dagli opportunismi entristi della Terza Via propugnata dal tandem Blair-Clinton.
La ricetta di Armao
Si scorge un happy end all’orizzonte di questo dramma epocale?
Condividiamo la convinzione che una democrazia alla John Dewey («qualcosa di più di una forma di governo» e non un semplice meccanismo di conta dei voti per l’alternanza tra membri della classe dirigente alla Giovanni Sartori. Ma anche alla Norberto Bobbio?) possa fornire preziosi contributi alla costruzione di un’identità fondata sulla partecipazione civica. Senza stupirsi troppo riscontrando «crescenti discrepanze tra l’universo simbolico [democratico] e la realtà quotidiana» (F.A. pag. 134). Basterebbe ricordare le messe in guardia di una (pur minoritaria) letteratura demistificante, che – ad esempio – adottava con Maurice Duverger il termine “plutodemocrazie”, conseguente al fatto che le rivoluzioni democratiche settecentesche, sopprimendo i privilegi dell’aristocrazia di nascita, ne ricreavano «una nuova, fondata sulla proprietà»[7].
In altre parole, la presa d’atto che si è formato un lato oscuro o – se vogliamo – un cuore di tenebra nell’esperimento democratico, conseguente già al fatto che nelle sue carte i Padri Fondatori scrivevano “Libertà” quanto si doveva leggere “Proprietà”.
Resta il problema di individuare il soggetto in grado di produrre una sorta di auspicata emancipazione della democrazia rettamente intesa dai vincoli oligarchici.
A tale proposito ha perfettamente ragione Armao mettendoci in guardia contro la propaganda, intesa come «codice linguistico condiviso per manipolare l’opinione pubblica in modo da generare stimoli pavloviani»; diventata nel totalitarismo neoliberale nientemeno che «una tecnica di dominio» (F.A. pag.130). Sicché lascia lo scrivente a dir poco perplesso nel constatare la condiscendenza del nostro autore nei confronti di una operazione propagandistica di stampo prettamente difensivo da parte dell’élite dominante. Quale la demonizzazione del Populismo: l’ennesima trappola linguistica. Operazione che vede all’opera la grancassa mediatica da regime e un certo numero di “liberaldemocratici/liberaldemocratiche della cattedra”; non si sa bene quanto panglossiana servitù volontaria.
Ossia, l’equiparazione indebita dell’istanza populistica a forme reazionarie – quali il Sovranismo e il Suprematismo – disegnerebbe un campo dello scontro in atto in cui – da un lato – troviamo orde di barbari distruttori della civiltà occidentale, contrapposte – dall’altro – ai saggi e responsabili paladini dei valori inclusivi di giustizia e libertà.
Descrizione altamente mistificatoria, prendendo atto che buona parte dei distruttori dell’equilibrio welfariano, gli strateghi dell’impoverimento abbattutosi sull’area mediana della società, i destabilizzatori di un intero sistema di legalità e diritti diventato cittadinanza sociale grazie a un secolo abbondante di lotte del lavoro, i propugnatori e i beneficiari delle politiche antipopolari sono proprio i plutocrati intruppati nella schiera dei presunti “saggi e responsabili”.
Gli abili e spregiudicati demagoghi che – come di prammatica – utilizzano il richiamo (top-down) al popolo per le loro operazioni di potere; sia di scalate al vertice dell’establishment, sia di riparto dei rapporti di forza all’interno dell’élite. Quando l’appello del Populismo, nelle sue variegate formulazioni storiche, ha sempre avuto un andamento opposto (ancora, managerialmente, bottom-up): la contestazione dei processi involutivi e di corruttela ricorrenti nell’élite/establishment.
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Dunque il passaggio da uno schema di gioco bidimensionale a uno tridimensionale: dall’illusionismo alla comprensione della realtà effettiva. Oltre le astuzie argomentative dei guardiani di un ordine ingiusto; che ormai sta producendo catastrofi e massacri nella sua abietta ricerca di sopravvivenza ad ogni costo.
Da qui la necessità di trasformare l’invito a una maggiore vigilanza in materia di propaganda in quell’azione contro-egemonica propugnata dall’attuale critica populista; da Ernesto Laclau a Chantal Mouffe, a Nancy Fraser.
A partire dall’invito del populista di complemento Manuel Castells (che definiva le insorgenze indignate del 2011 “reti di speranza”, nel suo saggio in presa diretta sugli accampamenti nella madrilena Puerta del Sol; dove prendeva corpo un vero e proprio movimento sociale contro la finanziarizzazione del mondo: il ritiro della delega alle leadership globali da parte del cosiddetto ceto medio riflessivo[8]).
«Nel XX secolo i filosofi hanno cercato di cambiare il mondo. Nel XXI secolo, è ora che si mettano a interpretarlo in modo diverso» (M.C. pag. 428)
NOTE
[2] Colin Crouch, Il potere dei giganti, Laterza, Roma/Bari 2011 pag. 171
[3] G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli 2008 pag. 19
[4] F. Armao, “Chi governa?”, in (Aa. Vv.) L’orizzonte del mondo, Guerini, Milano 2010 pag. 17
[5] D. Harvey, L’enigma del capitale, Feltrinelli, Milano 2011 pag. 250
[6] E. Luttwak, La dittatura del capitalismo, Mondadori, Milano 1999 pag. 42
[7] M. Duverger, Giano, le due facce dell’Occidente, Edizioni di Comunità, Milano 1973 pag. 92
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