Omofobia: le responsabilità delle Chiese
Alessandro Esposito
Quando la cronaca riporta sulle prime pagine dei giornali la questione dell’omofobia, si fa un gran parlare della responsabilità delle famiglie e della scuola. Ma in pochi sottolineano quelle, molto pesanti, del mondo ecclesiale.
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A seguito della dolorosa vicenda che ha visto coinvolti alcuni adolescenti e che ha costituito una delle probabili concause che hanno poi determinato il suicidio del giovane Andrea, studente presso il liceo scientifico Cavour di Roma, mi è capitato di leggere diversi commenti, alcuni anche profondi e penetranti, nei quali si tracciava il profilo di una discriminazione sociale strisciante e preoccupante, anche in seno al mondo giovanile.
Ciò in cui assai meno mi è capitato di imbattermi è la critica ad un universo, quello ecclesiastico, che più di ogni altro ha contribuito a fomentare il pregiudizio omofobo e a radicarlo nella società italiana. A tale proposito vorrei riferirmi a titolo esemplificativo a due esternazioni in cui mi è capitato d’imbattermi due anni fa, all’indomani della decisione che la sessione europea del Sinodo delle chiese valdesi e metodiste ha preso in merito alla piena legittimità delle benedizioni di coppie dello stesso sesso laddove la comunità locale interpellata abbia svolto un percorso di educazione e di sensibilizzazione in ordine a questa tematica.
La prima dichiarazione che vorrei riportare è quella effettuata dalla conferenza episcopale piemontese che, a poche ore dalla decisione sinodale in oggetto, si è affrettata a chiarire che, a suo (insindacabile?) giudizio, «non si può stabilire un’analogia neppure remota tra le unioni omosessuali ed il progetto di Dio sul matrimonio e la famiglia». Segue, a confortare gli animi eventualmente delusi di fronte a tale palese pronunciamento, l’immancabile precisazione: «Ribadire questo non significa non accogliere fratelli e sorelle che manifestano tendenze omosessuali». Per carità: nessuna esclusione, si capisce. A patto che sia la chiesa a stabilire quali debbano essere i parametri che regolano l’accoglienza nel suo seno di quante e quanti possono sì «manifestare», entro certi limiti, ciò che sono, ma non viverlo.
Ancor più avvilenti, però, risultano le dichiarazioni effettuate da Remo Cristallo, presidente della Federazione delle Chiese Pentecostali, secondo cui «la nostra comprensione della bibbia e l’esperienza delle nostre chiese ci inducono a credere che l’omosessualità è una condizione suscettibile di cambiamento» (rivista Notiziario Evangelico/Nev n. 25/2011): mirabile eufemismo attraverso cui si intende reintrodurre surrettiziamente una concezione dell’omosessualità come devianza correggibile.
Ora, il dialogo è un’istanza irrinunciabile, specie nei rapporti ecumenici: ma perché esso abbia luogo è necessario che vi siano dei presupposti che, nei due casi citati, mi paiono del tutto assenti. Trovo estremamente significativo il fatto che realtà come il cattolicesimo istituzionale ed il pentecostalismo tradizionale, che non di rado si lanciano mutui strali, finiscano poi per convergere per ciò che attiene ad una visione etica improntata al perbenismo benpensante. Il protestantesimo storico, con sommo rammarico di alcuni, ha scelto un’altra via: quella di accogliere criticamente le istanze di un contesto sociale e culturale in costante trasformazione anziché optare per respingerle in blocco, spesso pregiudizialmente. La realtà storica, infatti, ci interpella e, a dispetto dei reiterati tentativi ecclesiastici di arroccamento in materia etica, ci provoca ad un cambiamento che, non di rado, finisce col risultare opportuno assai più che nocivo.
C’è chi intravede, in considerazioni come quest’ultima, il rischio di una spaccatura in seno all’ecumene cristiana: non vi è dubbio che si tratti di un rischio reale. Ma, mi domando: è possibile ed auspicabile evitare tale rischio di fronte ad affermazioni secondo cui le persone omosessuali dovrebbero essere considerate alla stregua di malati ai quali, «grazie a Dio», le chiese possono offrire guarigione? Quali sono i margini di confronto, in tal caso? Ecco perché, assai più che le spaccature, temo gli irrigidimenti e l’ipocrisia che li sostanzia rendendo impossibile un raffronto autentico, improntato al rispetto dell’interlocutore e alla pari legittimità delle sensibilità umane, prima che teologiche, in dialogo. Ed ecco perché, a quanti in seno alle distinte realtà ecclesiastiche insistono nel celarsi dietro il paravento di un’accoglienza puramente nominale, chiedo l’onestà di giocare a carte scoperte.
* pastore valdese
(27 novembre 2012)
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