IoRestoaCasa e leggo un classico: ‘Operette morali’ di Giacomo Leopardi presentato da Edoardo Boncinelli

Edoardo Boncinelli

Fulgido esempio di prosa civile, i testi che vanno sotto questo titolo “non sono né operette, né morali. Non sono operette perché sono profondamente pensate e a loro modo anche sofferte. Non sono morali perché non hanno niente della pedante precettistica morale del Sette-Ottocento. A meno di non riferire l’aggettivo alla forza morale che si richiede per affrontare a viso aperto la cruda realtà del mondo. In linea con il distaccato realismo del nostro autore, costituiscono una sorta di controcanto ai Canti. In questi geme l’io individuale del poeta, in quelle ragiona il suo io collettivo e sociale”.

«Nessun maggior segno d’essere poco filosofo e poco savio, che volere savia e filosofica tutta la vita», dice nei suoi Pensieri Giacomo Leopardi, pensatore razionalista, scettico e militante contro ogni apriorismo, ma fantasioso e spesso giocoso. Sempre poeta, comunque, e invariabilmente attento ai suoi tempi e a quelli che furono (o magari saranno). Il suo pensiero, spesso inopinatamente rivolto a temi sociali, deborda dalle liriche vere e proprie e si riversa nelle opere discorsive, nei Pensieri appunto, in molte parti dello Zibaldone e nelle Operette morali.

Queste ultime rappresentano un’opera unica nella nostra letteratura e non solo. In qualche modo paragonabili al De rerum natura di Lucrezio, agli Essais di Montaigne e alla Scienza nuova di Vico, non sono né operette, né morali. Non sono operette perché sono profondamente pensate e a loro modo anche sofferte. Non sono morali perché non hanno niente della pedante precettistica morale del Sette-Ottocento. A meno di non riferire l’aggettivo alla forza morale che si richiede per affrontare a viso aperto la cruda realtà del mondo. In linea con il distaccato realismo del nostro autore, costituiscono una sorta di controcanto ai Canti. In questi geme l’io individuale del poeta, in quelle ragiona il suo io collettivo e sociale. Il Leopardi non è un pensatore sociale, né pretende di esserlo, preferendo di gran lunga rimanere intellettualmente libero. Ma ha una profonda inclinazione a riflettere e a parlare di faccende solitamente considerate banali e scontate, sempre rivisitandole da par suo. Se i Canti sono lacrime e sangue, le Operette sono intelligenza e sangue. Espressione di una filosofia vissuta e a sua modo razionalmente sofferta.

«Ho letto il vostro libro. Malinconico, al vostro solito», dice un amico a Tristano, il protagonista dell’omonima operetta morale di Leopardi, e paradigmatica controfigura del poeta stesso. E continua: «Malinconico, sconsolato, disperato; si vede che questa vita vi pare una gran brutta cosa». «Malinconico» è per me una bella definizione dell’argomentare di Leopardi e del suo stato d’animo di fondo, molto migliore dell’abusato e categorico termine «pessimista».

Quali sono i punti essenziali, il nucleo concettuale, di questa visione malinconica della realtà, se una visione può mai essere malinconica?

Tre, direi, i più brucianti.

In primo luogo, il mondo non è stato fatto appositamente per noi umani, che non siamo affatto i figli prediletti di madre natura. D’altra parte, come dice il Folletto nel Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo: «Io tengo per fermo che anche le lucertole e i moscherini si credano che tutto il mondo sia fatto a posta per uso della loro specie».

In secondo luogo, la natura si guarda bene dal mantenere le sue promesse. Famosa, a questo proposito, è l’esclamazione dolente del canto A Silvia: «O natura, o natura,/ Perché non rendi poi/ Quel che prometti allor? Perché di tanto/ Inganni i figli tuoi?».

Infine, l’essere umano gode di un discutibile privilegio, riassunto nella celebre domanda del pastore nel Canto notturno: «Perché giacendo/ A bell’agio, ozioso,/ S’appaga ogni animale;/ Me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?».

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Riguardo al primo tema il poeta ha scritto pagine memorabili che uniscono lucidità e sottile ironia. Grandiosa a questo proposito è la conclusione del Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo, dopo la constatazione da parte delle due creature che gli esseri umani sono tutti morti:

Folletto. Ma ora che ei sono tutti spariti, la terra non sente che le manchi nulla, e i fiumi non sono stanchi di correre, e il mare, ancorché non abbia più da servire alla navigazione e al traffico, non si vede che si rasciughi.

Gnomo. E le stelle e i pianeti non mancano di nascere e di tramontare, e non hanno preso le gramaglie.

Folletto. E il sole non s’ha intonacato il viso di ruggine; come fece, secondo Virgilio, per la morte di Cesare: della quale io credo ch’ei si pigliasse tanto affanno quanto ne pigliò la statua di Pompeo.

Del rapporto dell’uomo con la natura si discorre anche in un’altra famosa operetta morale, il Dialogo della Natura e di un Islandese, che si conclude in maniera inattesa, ma perfettamente in linea con l’arguzia leopardiana: «Mentre stavano in questi e simili ragionamenti è fama che sopraggiungessero due leoni, così rifiniti e maceri dall’inedia, che appena ebbero forza di mangiarsi quell’Islandese; come fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per quel giorno».

Tutto quello che ci accade è per Leopardi una conseguenza della disposizione d’animo della stessa natura nei nostri riguardi. Leopardi dialoga sostanzialmente solo con alcune, poche vicende della Storia e con l’operato della natura, spesso personalizzata, non solo per ragioni poetiche. Nelle sue pagine compare molto poco Dio, nemmeno sotto le sembianze di un Deus sive Natura di spinoziana memoria, di cui il nostro poeta non sembra sentire il bisogno.

Noi non siamo il fine della creazione o dell’evoluzione biologica, siamo solo una delle tante specie viventi. Non è che la natura ci voglia male, ma sembra averci a cuore come ha a cuore i serpenti, le mosche o gli acari. E soprattutto i microrganismi, veri vincitori della lotta per il controllo del pianeta. Si racconta a questo proposito che, interrogato da un teologo su quale fosse la caratteristica più spiccata di Dio creatore, il grande biologo inglese J.B.S. Haldane, un entusiasta seguace di Darwin, rispose: «Una smodata predilezione per i coleotteri», di cui già a quell’epoca si conoscevano ben 400 mila specie.

È sempre stato duro, ed è duro anche oggi, accettare un ruolo di semplici comprimari in un mondo in cui tutto sembrava concepito per noi. Non essere che una delle tante specie che si sono avvicendate su questo pianeta, dopo aver dovuto accettare che questo nostro pianeta non è che uno dei tanti che girano intorno al Sole, che è una delle tante stelle esistenti nell’universo, appartenente, sappiamo oggi, a una delle tante galassie che lo popolano, può non disturbare chi è cresciuto con tali conoscenze, ma certo non può non deludere amaramente chi si adagiava su altre certezze. D’altra parte, la pagina dello Zibaldone del 31 ottobre 1823 così recita: «Quindi non vi può esser cosa né fine più naturale, né più naturalmente amabile e desiderabile e ricercabile, che l’esistenza e la vita, la quale è quasi tutt’uno colla stessa natura, né amore più naturale, né naturalmente maggiore che quel della vita».

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Credo che tutti gli esseri umani si sentano spesso un po’ traditi dalla vita, che immaginavano molto diversa. Ciò li porta a idealizzare il passato, sia quello personale sia quello dell’umanità, a sospirarne più o meno apertamente, e ad augurarsi un cambiamento, che ciascuno vede, però, diverso da ogni altro.

Ma che promesse ci può aver fatto la natura che poi non ha mantenuto? Nessuna ovviamente, almeno direttamente, ma noi ci accorgiamo, crescendo, che le cose non vanno come ci aspettavamo. Il fatto è che noi ci troviamo progressivamente a essere in questo mondo, provenendo dalle nebbie mentali dell’infanzia, in cui tutto
pareva gradevole, ragionevole e «perfetto». Siamo portati a rimpiangere il passato e le sue lusinghe, abbiamo detto, tanto sul piano personale che su quello collettivo.

Sul piano collettivo, lo sforzo di trovare una spiegazione alla presenza di tanta sofferenza nel mondo e dentro di noi, ha dato origine anche all’idea dell’esistenza di un’antichissima, vagheggiata età dell’oro e al racconto biblico del peccato originale e della cacciata dall’Eden, e simili. L’uomo sente che c’è qualcosa che non va e che le cose potrebbero andare meglio e ipotizza un evento primario che ha portato alla corruzione di un originario stato di beatitudine e di purezza, collocato nel passato, molto lontano nel tempo. Non contenti di tutto questo, molti oggi tendono a mitizzare almeno parzialmente anche il passato più recente, ritenendo che comunque vivere nel passato fosse meglio che vivere nel presente.

Per costoro il tempo presente contiene sempre elementi di corruzione, come pure un certo numero di entità astratte o gruppi di persone che hanno guastato il mondo e lo fanno procedere in maniera ancora peggiore. Qui il classico problema di individuare un capro espiatorio si presenta articolato nel tempo: le cose vanno male perché… e vanno sempre peggio perché…

Anche all’interno della propria vita ciascuno tende a rimpiangere più o meno acutamente il passato e a considerarlo migliore del presente. Uno studio condotto qualche anno fa su moltissimi individui ha mostrato che questo avviene anche per episodi personali accadutici da pochissimo tempo. Intervistati in diversi momenti della loro vita, la maggior parte degli individui non dava una valutazione particolarmente positiva di ciò che stava loro accadendo, ma dovendo poi valutare tali momenti nel ricordo, arrivavano spesso ad affermare che era stati momenti felici.

Il rimpianto del passato e la convinzione che con il tempo le cose siano andate peggiorando, si fa sentire per tutta la vita, ma soprattutto quando l’età avanza. «Quanto più l’uomo cresce (massime di esperienza e di senno, perché molti sono sempre bambini), e crescendo si fa più incapace di felicità, tanto egli si fa più proclive e domestico al riso, e più straniero al pianto. Molti in una certa età (dove le sventure sono pur tanto maggiori che nella fanciullezza) hanno quasi assolutamente perduta la facoltà di piangere. Le più terribili disgrazie gli affliggeranno, ma non gli potranno trarre una lagrima. Questa è cosa molto ordinaria. Tanta occasione ha l’uomo di farsi familiare il dolore» (Zibaldone, 12 maggio 1825). È singolare che anche all’interno della propria vita si tenda a prendere in considerazione l’esistenza di una giovanile «età beata» a partire dalla quale la situazione si sarebbe andata progressivamente deteriorando.

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Si colloca qui probabilmente uno degli snodi fondamentali di tutto il problema del male. L’uomo chiama spesso male ciò che non corrisponde alle sue aspettative, tanto sul piano del male incolpevole quanto su quello della cattiveria umana. Il mondo si rivela diverso da quello che ci si aspettava ed è Male rispetto a un Bene vagheggiato e in definitiva immaginato.

Il punto essenziale è che l’uomo giunge nel tempo, e attraverso varie tappe, a una visione adulta e consapevole del mondo, provenendo da epoche della sua vita nelle quali la consapevolezza delle cose è sporadica, sfilacciata e confusa. Prima c’è scarsa memoria e ancora più scarsa capacità di abbracciare con la mente eventi che si succedono nel tempo. Traversiamo la fanciullezza e la primissima giovinezza in uno stato d’animo un po’ trasognato, certamente non il più adatto a renderci conto della realtà delle cose. Si tratta di una progressiva, e in certe circostanze e per certe questioni, brusca transizione a stati mentali improntati a una grande consapevolezza provenendo da una condizione ben diversa.

Il fatto è che il grado di consapevolezza e la capacità della memoria crescono con la complessità del sistema nervoso e soprattutto del cervello. Qui sono prima di ogni altra cosa le connessioni fra le varie aree e fra le cellule della stessa area che dettano le condizioni e i tempi, perché sono dapprima scarse e lente e poi sempre più numerose, pronte e sollecite. Alla coscienza non si arriva tutto d’un tratto, ma per gradi, nel corso di un periodo, quello della fanciullezza e della prima giovinezza, che per noi umani è eccezionalmente lungo. La lunghezza di questa fase, che non ha uguale in nessuna altra specie, ha avuto come conseguenza la necessità di un lungo periodo di vita in famiglia, dove si viene nutriti, protetti, accuditi e istruiti nel quadro di quelle che sono dette più in generale le «cure parentali».

Sembra a noi che il mondo non sia mai all’altezza delle nostre aspettative giovanili perché noi lo viviamo a lungo in maniera parziale e «truccata», almeno rispetto alla nostra visione adulta. D’altra parte quale altro termine di paragone abbiamo? Su che base possiamo dire «questo non è giusto» o «questo è peggio di quello che sarebbe giusto in un mondo privo di male» o ancora «questo è capitato ma non doveva o non avrebbe dovuto capitare»? Con che cosa lo possiamo confrontare? La vita di ciascuno di noi è una e non si ripete. Nessuno ci ha mai garantito che le cose non sarebbero state così, anche se almeno a parole la famiglia e la società tendono a darci un quadro del genere.

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Sulla base di tutte queste considerazioni la domanda di Giacomo Leopardi si può legittimamente rovesciare: da «perché di tanto inganni i figli tuoi?» a «perché a un certo momento smetti di ingannarli e non continui a farlo per tutta la vita?». La risposta è per me di natura largamente biologica: perché siamo esseri umani e a una certa età diveniamo adulti. Essere umani adulti significa possedere un cervello sorprendentemente libero da impegni fisiologici tanto banali quanto assillanti, che può perciò abbracciare con continuità una quantità inusitata di eventi che si sono succeduti in un tempo abbastanza lungo, compararli fra di loro, e compulsivamente cercare di trarne un succo e un senso, il senso del «tacito, infinito andar del tempo». Le cose non sono obbligate ad andare come a noi sembrava andassero quando eravamo parzialmente consapevoli, e con il nostro sistema nervoso adulto non possiamo non rilevarlo. Il nostro cervello di adulti non può in sostanza passare sopra a una serie di circostanze intrinseche alla natura delle cose, che ci appaiono come incongruenze e contraddizioni e che il nostro cervello infantile non aveva visto o aveva provvisoriamente amalgamato in un quadro razionale e prevedibile, che noi definiamo come dotato di senso. Le cose procedono spesso in modo da sfidare anche la nostra razionalità. Perché non dovrebbero? Il problema è che noi ci aspettiamo che abbiano una razionalità e un senso, ma nessuno ce lo ha mai garantito. Siamo noi che siamo cresciuti nella convinzione, totalmente arbitraria ma certamente non priva di vantaggi, che le cose debbano avere una razionalità e una prevedibilità, cioè un senso.

A un certo punto ci «risvegliamo» e il risveglio è dei più bruschi. Tale confronto non è necessariamente drammatico, per lo meno non sempre e non su tutto, essenzialmente perché si afferma progressivamente in una fase della vita, l’adolescenz
a appunto, nella quale sono presenti potentissime spinte istintuali e motivazioni totalizzanti, ma le discrepanze sono inevitabili e, se sul piano cognitivo siamo più disposti ad avere un atteggiamento aperto, rendendoci conto per esempio del fatto che abbiamo ancora molto da imparare, è sul piano emotivo che si presentano i maggiori problemi.

Molto di quello che abbiamo detto serve poi a fare luce su quello che abbiamo definito il terzo problema posto dalla visione del mondo del poeta: l’esistenza del tedio, del disagio esistenziale tipico di noi umani.

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Abbiamo accennato a tre temi «filosofici» principali. Ma se ne possono certamente individuare anche altri. Uno di questi è straordinariamente attuale e riguarda il rapporto fra materia e spirito. L’11 luglio 1824 Giacomo Leopardi annotava molto acutamente nel suo Zibaldone:

Quando noi diciamo che l’anima è spirito, non diciamo altro se non che ella non è materia, e pronunziamo in sostanza una negazione, non un’affermazione. Il che è quanto dire che spirito è una parola senza idea, come tante altre. Ma perocché noi abbiamo trovato questa parola grammaticalmente positiva, crediamo, come accade, avere anche un’idea positiva della natura dell’anima che con quella voce si esprime. Nel metterci però a definire questo spirito, potremo bene accumulare mille negazioni o visibili o nascoste, tratte dalle idee e proprietà della materia, che si negano nello spirito, ma non potremo aggiungervi niuna vera affermazione, niuna qualità positiva, se non tratta dagli effetti sensibili, e quindi in certa guisa materiali (il pensiero, il senso ec.) che noi gratis ascriviamo esclusivamente a esso spirito. E quel che dico dell’anima dico degli altri enti immateriali compreso il Supremo.

Limpido, a dir la verità, e senza sbavature. D’altra parte, non si può spiegare «l’orribile mistero delle cose e della esistenza universale», se non mettendo in discussione anche «i principi stessi fondamentali della nostra ragione» (Zibaldone, 2 giugno 1824).

Il trionfo poi di questa inspiegabilità lo si può trovare nella piccola, eccezionale operetta intitolata Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere, un capolavoro nel capolavoro e fulgido esempio di prosa civile.

(20 aprile 2020)
#IORESTOACASA E LEGGO/GUARDO UN CLASSICO



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