Ospitalità in tempo di guerra
Mariasole Goracci
Dell’utopia di un mondo libero da barriere e confini, viviamo l’aspetto opposto e crudele, quello del liberalismo e del mercato globale. Ma il passaggio da un possibile all’altro è nel carattere rivoluzionario dell’arte, per cui l’utopia può diventare realtà. A Roma, una mostra di Chto Delat e Babi Badalov su confini e immigrazione.
Come ha scritto Alain Badiou a proposito di confini, infatti, “the political problem has to be reversed. We cannot start from an analytic agreement on the existence of the world and proceed to normative action with regard to its characteristics. The disagreement is not over qualities but over existence” (A performative unity from The Communist Hypothesis, “Chto Delat” febbraio 2013).
A due anni dalla mostra Transnational Capitalism Examined: Border as Method di Oliver Ressler, in cui si analizzava la proliferazione dei confini come strumento e articolazione del capitalismo globale, dunque, la galleria di Armando Porcari e Fabrizio Del Signore torna a occuparsi di un tema dolorosamente cruciale anche nella cronaca politica di questi ultimi giorni. Mentre scrivo, infatti, il decreto Salvini su immigrazione e sicurezza ha avuto il vaglio del Quirinale, e in queste ore è stata data la notizia (i dettagli sono da approfondire) che il sindaco di Riace Domenico Lucano è stato fermato nell’ambito dell’indagine sul favoreggiamento dell’immigrazione clandestina denominata, paradossalmente, “Operazione Xenia”: un fatto che, indipendentemente dalle altre accuse a carico di Lucano, evidenzia ancora una volta la drammatica confusione delle politiche condotte da Minniti, prima, e da Salvini, poi. Contraddizioni del sacro dovere dell’ospitalità in tempo di guerra.
Costume, lingua, morale sono alcune fra le differenze che l’esistenza stessa del confine, inteso come fattore estetico nel senso della ricaduta sulla percezione di sé e dell’altro, aggrava ed esaspera trasformandoli in un inesauribile motivo di conflitto e incomprensione. Sebbene entità artificiale, il confine è in grado di plasmare la soggettività individuale: è, anzi, indispensabile alla sua definizione, affermando continuamente e disperatamente ciò che non si è o non si vuole essere (l’altro), per tentare di definire la propria identità.
Il confine è dunque elemento di una percezione sensibile, e come tale viene trasformato dai lavori di Chto Delat in un dispositivo artistico, in modo da poter manipolarne, con lo stesso linguaggio, il significato convenzionale: come l’opera d’arte, il confine ha un significato per coloro che lo esperiscono (per l’opera d’arte questa proprietà può essere colta nella densità stessa della sua presenza, indipendentemente dall’interpretazione); benché stabilito e impiantato nella comunità, che su di esso si fonda, le sue implicazioni si depositano nel soggetto; ha una potenzialità estetica anche nel senso strettamente artistico del termine, alimentata da una dimensione attinente al Sublime burkiano che lo isola in quanto elemento relazionale.
La modalità di confronto soggetto/società innescata dal confine è, appunto, il tema dei cortometraggi in mostra: in A Border Musical, ad esempio, la volenterosa protagonista Tanya, che con il suo entusiasmo tenta di sfuggire a un conflittuale senso di appartenenza alla sua terra (I’ll be singing different songs/ In that marvelous land/ Where everyone is happy… We are the miners of your heart./ We dig the ore of your soul/ And bring to the surface/ From out of your dephts/ Your songs, Tanya), deve sacrificare la propria individualità alla legge di Jante cui la società straniera che la accoglie si conforma. La provvisorietà e la contraddittorietà dei meccanismi relazionali, dai quali si può, una volta rotti, ricomporre un nuovo possibile, vengono sottolineati da uno straniamento brechtiano, caratteristico di un teatro usato come metodo cognitivo ed euristico. I lavori di Badalov, d’altro canto, giocano con la destrutturazione delle parole, rovesciate in una lettura alternativa e rivelatoria: refugees welcome – refugees well come – refugees will come.
Dell’utopia di un mondo libero da barriere e confini per genti e individui, viviamo l’aspetto opposto e crudele, quello del liberalismo e del mercato globale. Ma il passaggio di un dato da un possibile all’altro è nel carattere rivoluzionario dell’arte, dove l’utopia può diventare realtà. E se le regole e gli equilibri attuali stanno letteralmente collassando, questo passaggio potrebbe essere l’unica strada percorribile.
Come in quickly, otherwise I’m afraid of my happiness! Xenia at the time of war
Chto Delat e Babi Badalov
Fino al 23 novembre 2018
The Gallery Apart
Via Francesco Negri, 43
Orari: dal martedì al venerdì 15,00 – 19,00 e su appuntamento
Babi Badalov, Refugees will come (green), 2018, paint on fabric, cm. 110×150.
MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.