Pandemia e virus finanziario: una risposta ad Alesina e Giavazzi
Pompeo Della Posta
e Mario Morroni
A 12 anni circa di distanza dalla crisi finanziaria globale, in un articolo sul Corriere della Sera del 4 maggio scorso, Alberto Alesina e Francesco Giavazzi sono ritornati sulla questione della crisi finanziaria globale tracciando un interessante parallelo con la crisi sanitaria attuale. In entrambi i casi, essi scrivono, la crisi non era stata prevista dalla maggioranza degli studiosi delle rispettive discipline. Pur riconoscendo di appartenere al folto gruppo di economisti che “non avevano capito o si occupavano d’altro”, essi affermano che in fondo delle responsabilità ce l’hanno anche gli economisti che avevano previsto la crisi, perché “forse avrebbero dovuto insistere ancor di più”. Un lettore attento si potrebbe porre, quindi, due domande. La prima: perché molti economisti non avevano capito cosa stesse accadendo? La seconda: davvero si possono incolpare gli economisti che invece avevano ben capito i rischi che l’economia mondiale stava correndo, di “non avere insistito abbastanza”?
Le risposte a queste due domande sono strettamente connesse.
La risposta alla prima domanda è molto semplice: molti economisti non avevano capito quanto stava per accadere perché basavano la loro analisi su strumenti che – a giudicare dai risultati – non hanno saputo interpretare la realtà.[1] L’inadeguatezza degli strumenti utilizzati deriva dal fatto che essi non considerano o sottovalutano aspetti cruciali per comprendere le crisi economiche. I loro modelli ipotizzano, di solito, razionalità perfetta, omogeneità dei comportamenti, mercati efficienti in grado di autoregolarsi grazie all’azione degli incentivi economici, scarsa efficacia degli aspetti moltiplicativi e dell’interazione tra soggetti che determinano la propagazione dei fenomeni, come appunto nelle epidemie. I principali centri studi, per esempio, hanno costruito sofisticati modelli micro-fondati, di grande eleganza formale, fra i quali spiccano i modelli dinamici stocastici di equilibrio generale (DSGE), basati, però, su ipotesi che hanno scarsa rispondenza con la realtà e che sono, in gran parte, funzionali al risultato che si vuole dimostrare. Basti pensare all’ipotesi di unico agente rappresentativo perfettamente razionale, che è utilizzata per interpretare il funzionamento dei mercati. Anche se, dopo la crisi, questi modelli sono stati integrati con le “frizioni finanziarie” nel tentativo di renderli più realistici, l’ipotesi di agente unico rappresentativo non trova riscontro nella realtà, caratterizzata invece da un’eterogeneità di agenti con conoscenze incomplete. È proprio l’interazione tra agenti e problemi informativi ad avere svolto un ruolo cruciale nello scoppio della grande recessione. In sintesi, l’inadeguatezza di questi modelli dipende dal fatto che non considerano l’instabilità finanziaria, l’incertezza, i problemi conoscitivi, le asimmetrie informative, l’interazione macroeconomica tra spesa e reddito (ossia l’azione del moltiplicatore keynesiano) e l’interazione tra agenti con caratteristiche eterogenee.[2]
Riportiamo, per brevità, solo tre esempi di analisi errate.
Quattro anni prima dello scoppio della crisi finanziaria del 2007, Robert Lucas, teorico delle aspettative razionali, dichiarò con toni trionfalistici, nel corso del suo discorso presidenziale all’American Economic Association, che “il problema centrale della prevenzione della depressione è stato risolto, da ogni punto di vista”.
Il Fondo Monetario Internazionale aveva sottovalutato il ruolo del moltiplicatore keynesiano – come riconobbe Olivier Blanchard, allora capo dell’ufficio ricerche dello stesso Fondo – sottostimando così gli effetti negativi delle politiche di austerità sul PIL che determinarono il peggioramento del rapporto debito pubblico/PIL. [3]
Infine, ricordiamo l’appello di molti economisti affinché la Banca d’affari Lehman Brothers non fosse salvata con soldi pubblici, posizione condivisa anche dal secondo autore dell’articolo del Corriere della Sera citato all’inizio di questa nota, che all’indomani del mancato salvataggio e del conseguente fallimento della banca scriveva che “ieri è stata una buona giornata del capitalismo”, “una vittoria del mercato” (LaVoce.info, 16.9.2008). Com’è ben noto, lasciar fallire la Lehman Brothers è stato invece un grosso errore, dal quale è esplosa la crisi a causa dei gravi effetti sistemici risultanti dall’interazione tra i soggetti e i settori di attività economica.
Non abbiamo però ancora risposto a un aspetto importante che è legato alla prima domanda: come è possibile che, contrariamente all’esito che dovrebbe caratterizzare un mercato perfettamente funzionante, chi compie errori di previsione e analisi continui ad avere spazio sulla stampa? La risposta è suggerita nell’articolo di Alesina e Giavazzi. Essi affermano giustamente che “i politici stessi si deliziavano nella bolla speculativa”. In altre parole, l’idea che vada bene deregolamentare la finanza, perché i mercati si autoregolano, non solo trova ampio consenso, ma è anche funzionale a precisi interessi economici e politici.
Sollevare dubbi, invece, può essere molto scomodo. Gli economisti che, prima della grande recessione, osavano mettere in guardia dai rischi che si stavano correndo deregolamentando la finanza e, a recessione scoppiata, dalle gravi conseguenze negative delle politiche di austerità, trovavano scarsissimo spazio nei giornali.
Quanto detto risponde in parte alla seconda domanda che sorge spontanea leggendo l’articolo di Alesina e Giavazzi. Davvero gli economisti che invece avevano ben capito i rischi che l’economia mondiale stava correndo “non hanno insistito abbastanza”? La realtà è che molti non avevano alcun interesse ad ascoltare questi studiosi e ad accettare le loro teorie; anzi in molti casi gli economisti che “non avevano capito o si occupavano d’altro” hanno combattuto tenacemente i colleghi che non condividevano le loro idee, allontanandoli dai loro dipartimenti o impedendo la pubblicazione dei loro articoli sulle riviste di cui erano redattori o consulenti editoriali. Questa è l’esperienza di molti che hanno studiato e lavorato in alcuni grandi dipartimenti di economia negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Italia. In alcune importanti università lo scambio, il confronto, la diversità di opinioni e di approcci sono incoraggiati, così come dovrebbe essere, ma in altri casi purtroppo non si comprende il valore del pluralismo. Al riguardo, in Italia, un dipartimento si staglia fra tutti.
Può essere utile ricordare quello che potremmo definire “il caso Minsky”. Molti anni prima dello scoppio della crisi finanziaria globale, un giovane laureato in Economia andò all’Università di Warwick (UK) per iniziare il suo MA in Economics. Egli mostrò al suo professore del corso di Economia monetaria internazionale un libro di Hyman Minsky dal titolo molto significativo Potrebbe accadere di nuovo?[4] con ovvio riferimento alla crisi del 1929. Il professore cominciò a sfogliarlo, sempre più nervosamente, fin quando glielo restituì stizz
ito, chiedendogli: “Dove sono le equazioni? Dov’è il modello?” Il libro non gli interessava, non era degno della sua attenzione perché mancava la parte formalizzata, mancava “il modello”. Venti anni dopo, con la crisi finanziaria globale del 2007-2008, il nome di Hyman Minsky e le sue teorie della fragilità finanziaria – che nel frattempo erano state sviluppate e formalizzate anche da altri economisti – sono diventate note a tutti. Molti hanno compreso l’importanza dell’analisi minskyana e addirittura nell’aprile del 2009 l’Economist dette ad un articolo dedicato allo scoppio della crisi finanziaria il titolo “Minsky moment”. Molti economisti sono andati a rileggersi gli scritti di Minsky, riconoscendo che se solo si fosse prestata maggiore attenzione a quello che egli diceva, si sarebbe potuta evitare la crisi finanziaria globale, attuando alcune semplici e non troppo costose forme di cautela e assicurazione. E pensare che un libro simile, alle regole attuali, non sarebbe neanche preso in considerazione nelle valutazioni ANVUR (l’agenzia di valutazione universitaria) o da alcuni commissari nei concorsi universitari italiani, perché privo di equazioni e di modelli. Gli autori di libri del genere forse dovrebbero insistere di più?
Nell’articolo di Alesina e Giavazzi si cita Robert Shiller, come esempio di coloro che avevano avvertito del rischio che una crisi si stesse preparando. Peccato però che, ben prima che gli fosse assegnato il premio della Banca di Svezia per l’Economia intitolato ad Alfred Nobel, Shiller sia stato rimosso dal Board della Federal Reserve di New York, proprio a causa degli avvertimenti che stava dando! Forse non aveva insistito abbastanza?
SOSTIENI MICROMEGA L’informazione e gli approfondimenti di MicroMega sono possibili solo grazie all’aiuto dei nostri lettori. Se vuoi sostenere il nostro lavoro, puoi: – abbonarti alla rivista cartacea – – acquistarla in versione digitale: | iPad |
Un altro esempio di censura riguarda Peter Wallison, un consigliere della Casa Bianca al tempo dell’Amministrazione Reagan. I funzionari di Fannie Mae imposero la sua rimozione dal consiglio di amministrazione di una società che era in affari con loro, proprio perché Wallison stava evidenziando i rischi associati alle operazioni fatte da Fannie Mae e Freddie Mac, che dopo il crack del 2007 saranno salvate dal fallimento da massicce garanzie federali. Anche lui non aveva insistito abbastanza?
Questi sono solo due tra i tanti economisti che, negli anni immediatamente precedenti la crisi, erano considerati come delle fastidiose Cassandre e per questo sistematicamente rimossi da commissioni, comitati di consulenza e ridotti al silenzio sui media.
Da ultimo citiamo ancora Robert Lucas, premio Nobel ed economista molto influente, che era solito ironizzare sul fatto che se un giovane economista si fosse presentato a un colloquio di lavoro esponendo idee keynesiane, sarebbe stato deriso e le sue chance di assunzione sarebbero state prossime allo zero. Un’ironia che però sembra un avvertimento, anche piuttosto credibile.[5] Se ora affermasse che in fondo la colpa della crisi è anche degli economisti keynesiani o minskyani che “non hanno insistito abbastanza” e che per questo non hanno saputo impedire la crisi che ha colpito anche lui, ricorderebbe quel tipo che, uccisi i genitori, si lamentava di essere rimasto orfano!
In conclusione, il parallelo proposto da Alesina e Giavazzi tra la crisi finanziaria globale scoppiata nel 2007 e la recente crisi sanitaria da coronavirus è molto interessante, perché in ambedue i casi risulta evidente che la sottovalutazione dei rischi e della gravità delle conseguenze negative sulla vita delle persone, non solo impedisce di prevedere la crisi, ma anche di predisporre misure capaci di prevenirla e di adottare, in tempi rapidi, i provvedimenti necessari a farvi fronte.
NOTE
[2] Dani Rodrik si scaglia contro l’arroganza degli economisti che sottovalutano i limiti dei propri modelli. Al riguardo, si veda Dani Rodrik (2007), One Economics, Many Recipes. Globalization, Institutions, and Economic Growth. Princeton University Press, Princeton, p. 5.
[3] Riferimenti bibliografici sulle dichiarazione di Robert Lucas e Olivier Blanchard si trovano in Mario Morroni (2018), “The Failure to Predict the Great Recession: Second Dialogue” in What Is the Truth About the Great Recession and Increasing Inequality? Dialogues on Disputed Issues and Conflicting Theories, Springer Nature, Cham.
[4] Hyman Minsky (1982), Can "It" Happen Again?, M.E. Sharpe, Armonk.
[5] Riferimenti bibliografici riguardanti il ‘licenziamento’ di Robert Shiller e di Peter Wallison e i ‘consigli’ di Lucas ai giovani economisti si trovano in Morroni, op. cit.
MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.