Pandemia e nuovi paradigmi del linguaggio pubblicitario
Fausto Pellecchia
Una delle conseguenze più vistose della pandemia covid-19 è il rapido mutamento di registro della pubblicità commerciale nel tentativo di catturare il sentiment dei consumatori sottoposti ad un evento fortemente traumatico. Le agenzie pubblicitarie sono state in breve tempo costrette ad analizzare le differenze introdotte dalla crisi nei diversi comparti economici e merceologici. E questi sono i risultati.
Come ammoniva Walter Benjamin nella VI tesi di filosofia della storia: «Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo "come propriamente è stato". Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo. Per il materialismo storico si tratta di fissare l’immagine del passato come essa si presenta improvvisamente al soggetto storico nel momento del pericolo». Nella Jetz-zeit, consegnata all’angoscia del #restiamoacasa, mentre le reti televisive sono stabilmente occupate da rubriche giornalistiche, talk show e interviste monotematiche sulla situazione medico-sanitaria e sulla catastrofe economica prossima ventura, le “imprescindibili” interruzioni pubblicitarie ci sono apparse, per la prima volta, immerse in un’aura irritante che incita, se non alla deplorazione, almeno ad un inquietante disagio. La consolidata, onnipotente intrusione delle strategie di marketing in ogni superstite anfratto lasciato al pensiero e alla riflessione pubblica dalla segregazione immunitaria che stiamo vivendo, sembra dismettere i connotati della “franca menzogna”, tipica del messaggio pubblicitario, per mostrare la crudezza della pura ricerca di profitto. Quasi che proprio questi momenti di eccezionale emergenza rendano possibile, per la prima volta, la percezione dello scarto tra la calcolata, ipocrita frivolezza degli spot pubblicitari – costellati di volti sorridenti, immersi in atmosfere oniriche e rarefatte o in effimere voluttà consumistiche – e la reale incombenza delle nostre paure. Paure del tutto simili a quelle che, nella quotidiana emergenza dell’epoca attuale, inquietano e assillano la nuda vita degli oppressi, dei disoccupati, dei migranti, degli sfruttati.
In verità, nel tentativo di adeguarsi a questa straordinaria contingenza temporale, le attuali strategie di marketing hanno appreso a dissimulare il loro messaggio commerciale attraverso l’uso di formule stereotipate proprie della pubblicità sociale, producendo così un intreccio di connotazioni ambivalenti. Costretti all’alternanza con gli insistenti appelli della pubblicità istituzionale [#resta a casa, #usa le precauzioni anticontagio, ecc.], gli spot commerciali provano a mimetizzare la loro natura e le loro finalità, proponendosi con le sembianze del discorso dell’informazione on line e delle innovazioni tecnologiche dello smart working. Essi occultano l’autopromozione commerciale con la vacuità di uno pseudo-sapere che traveste l’imperativo del consumo con formule rassicuranti o consolatorie. Questa strutturale equivocità è dissimulata e, al contempo, enfatizzata dall’imperturbabile ossequio con il quale i conduttori televisivi – nel bel mezzo di un’intervista, di un dibattito o di un collegamento esterno- annunciano l’interruzione pubblicitaria come un atto di improrogabile deferenza all’ubiqua divinità del mercato. Dissonanza che non può essere giustificata – come pure accade di sentire da qualche epigono dei grandi teorici italiani del mid-cult (da Omar Calabrese a Umberto Eco) – come un estremo tentativo di normalizzazione, inteso a rassicurare gli spettatori sulla tenuta del sistema, con un abusatissimo the show (of goods) must go on.
Indubbiamente, una delle conseguenze più vistose della pandemia covid-19 è il rapido mutamento di registro della pubblicità commerciale nel tentativo di catturare il sentiment dei consumatori sottoposti ad un evento fortemente traumatico.
Le agenzie pubblicitarie sono state in breve tempo costrette ad analizzare le differenze introdotte dalla crisi nei diversi comparti economici e merceologici. In apparenza, quasi nulla è cambiato nella pubblicità dei prodotti distribuiti nei grandi centri commerciali, nei quali il flusso dei consumatori è persino aumentato a causa del panico per il temuto scarseggiare dei generi di prima necessità. Piccole ma significative variazioni sono intervenute nei punti vendita della telefonia o delle connessioni internet, dal momento che, per i cittadini sottoposti a confinamento sanitario, i dispositivi informatici rappresentano l’unica modalità di contatto interpersonale o per il lavoro da remoto. In quest’ultimo caso, la pubblicità tenta di riconvertire la necessità dell’emergenza in virtù di facilitazione tecnologica, se non addirittura in un incremento di comodità: il contatto in teleconferenza con l’amico che risiede nello stesso quartiere ha la stessa semplicità della conversazione con un parente che abita in un altro continente. Decisamente più difficile è la costruzione del messaggio pubblicitario se l’affare da reclamizzare è costituito dalla vendita di automobili, che in questo frangente gode di una estensione della domanda nettamente minore, quasi in concorrenza con la vendita di biciclette con pedalata assistita. Discorso analogo vale per la moda prêt-à-porter, per la cosmetica, la pelletteria o per le agenzie dei viaggi-vacanze, che scontano la sospensione commerciale di beni attualmente percepiti come superflui.
In tutti questi casi, il prodotto non è più il centro della comunicazione commerciale: al suo posto subentrano i significanti simbolici che vi si possono associare. Perciò la BMW, ad esempio, sceglie come influencer Alex Zanardi, pilota automobilistico e conduttore televisivo, mentre la KIA lancia il nuovo modello, invitando i clienti a prenotare l’auto online “senza uscire di casa”; ma non tralascia di pubblicizzare il proprio impegno nel mettere a disposizione dei volontari del CSV i propri autoveicoli per consegnare la spesa alle persone anziane o non autosufficienti nell’hinterland milanese. Ciò che unifica tutti i messaggi della pubblicità commerciale, in questo periodo di confinamento forzoso e di preannunciata catastrofe socioeconomica, è non solo il tono rassicurante e paternalistico, quanto soprattutto l’accentuazione del carattere emozionale, ispirato ad una cultura rétro, vagamente nazional-popolare (se non romanticamente “patriottica”) che esalta le naturali doti di resilienza degli italiani. La voce fuoricampo – che accompagna le immagini del tricolore appese ai balconi, con le famiglie che si salutano da un palazzo all’altro, snocciola le massime di un ottimismo consolatorio: “Insieme ce la faremo”, “andrà tutto bene” eccetera.
La Barilla, ad esempio, ha scelto come testimonial Sofia Loren per la voce narrante di uno spot in cui si celebra l’Italia “che resiste”. L’intero video è basato sul dosaggio di stimoli emozionali: “A chi dà tutto senza chiedere nulla, a chi è stremato ma ci dà forza per sperare, a chi…”. In molti video pubblicitari è diventato ‘virale’ l’appello alla prossimità morale (come contraltare del distanziamento fisico), regolarmente preceduto dal ringraziamento a medici e infermieri, che affrontano l’emergenza in prima linea, ma anche a farmacisti, cassieri, o
perai, trasportatori e a tutta la filiera agroalimentare. Un festival dei “buoni sentimenti”, intriso di luoghi comuni che esaltano l’orgoglio nazionale e la pretesa supremazia morale dell’ italiano medio . Influencer d’elezione in questi spot è, infatti, tanto il personale sanitario che accudisce i malati in ospedale, quanto chi si occupa della famiglia a casa; sia chi lavora in fabbrica, sia chi invece è a casa davanti ad un pc; sia gli scienziati impegnati nei laboratori a trovare una cura o il mitico vaccino (che porrà termine all’apocalisse), sia chi fa disegni da appendere al balcone o dipinge murales edificanti sulle pareti dei grattacieli; tutti accomunati dallo stesso desiderio di contribuire a superare insieme questo momento difficile.
Meno percepibile proprio perché onnipresente è il carattere decisamente “parassitario” della pubblicità commerciale, che sfrutta sapientemente la scia delle campagne istituzionali di comunicazione del Governo: come quella promossa dal Ministero della salute per l’uso della mascherina, con lo spot “Per tornare tutti insieme a sorridere”; o quella del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo con la campagna di comunicazione "Andrà tutto bene" ; quella del Ministero dell’Istruzione sulla didattica a distanza con lo slogan “Restando a casa #lascuolanonsiferma”; o la campagna “Libera puoi”, promossa dal Dipartimento per le Pari Opportunità a sostegno delle donne vittime di violenza durante l’emergenza coronavirus; o, infine, la campagna “sintetica”, denominata “GRAZIE”, promossa dal Governo sull’emergenza sanitaria legata al Coronavirus, che esprime il ringraziamento ai medici, agli operatori della sanità e tutti gli altri lavoratori impegnati nella produzione e distribuzione dei prodotti e servizi indispensabili per i cittadini, in sintesi tutti coloro che, in questo periodo, stanno rischiando la loro salute per dare il loro contributo al nostro Paese, curando gli ammalati e garantendo agli altri cittadini i prodotti e servizi essenziali.
Per effetto del parassitismo comunicativo della pubblicità commerciale sulle campagne istituzionali si ha quasi l’impressione che nei video di queste ultime – proprio in virtù del carattere emozionale delle immagini e delle narrazioni opportunamente riconvertite dalla pubblicità commerciale – manchi, per una strana forma di amnesia, l’indicazione del prodotto da reclamizzare, sostituito dal salvataggio e dalla simbolica “ripartenza” dell’intero Paese. In questo senso, l’antica bipartizione della pubblicità di Carosello – composta da uno sketch originale e da una coda ripetibile riservata al prodotto di riferimento – sembra ritrovare un’inattesa rinascita: l’eliminazione della “coda” nella comunicazione istituzionale è stata prontamente ripresa e manipolata nel simbolismo sentimentale della merce.
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