Panglossiani in armi contro l’Indignazione
Pierfranco Pellizzetti
possono essere altrimenti: poiché, tutto essendo fatto per
un fine, tutto è necessariamente per il fine migliore».[1]
Voltaire
«Se la classe dominante ha perduto il consenso, cioè non
è più ‘dirigente’, ma unicamente ‘dominante’, detentrice
della pura forza coercitiva, ciò appunto significa che le
grandi masse si sono staccate dalle ideologie tradizionali,
non credono più a ciò in cui credevano»[2]
Antonio Gramsci
Thomàs Piketty, Il Capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano 2014
Giuliano da Empoli, Gli ingegneri del caos, Marsilio, Venezia 2019
Invasioni di campo?
Cosa succederà mai nella psiche di miti cattedratici, tanto da ridurli preda di un tremendismo da angelo vendicatore, scatenato contro i presunti disturbatori del mainstream? La quiete intellettuale pubblica al servizio dell’ordine vigente.
Una patologia di cui riscontrammo i tragici effetti già tempo fa nell’iper-baronale Alessandro Dal Lago, quando se ne uscì con il suo scriteriato attacco ad alzo zero contro Roberto Saviano, reo di vendere milioni di copie dei suoi libri sulla devianza e la criminalità organizzata; a fronte di quelle per pochi intimi smerciate da chi si sentiva esclusivista del tema per titoli accademici[3].
Narcisismo ferito. Sicché la causa di questo disturbo della personalità trae presumibilmente origine dalla stizza causata da una presunta invasione di campo: il monopolio dell’interpretazione per rendita di posizione professorale. Particolarmente nel caso di fenomeni di cui si stenta a capirne il senso; quando – al tempo stesso e unicamente – si percepisce una fastidiosa scompostezza nelle interpretazioni critiche del Potere attivo e operante in quel campo. Tanto da atteggiarsi automaticamente a paladini dell’establishment criticato.
Come diceva quel tale: sopire e troncare.
L’ipotetica saldatura di classe tra insiders, in cui i chierici di corte assumono il ruolo di camerieri e valletti di lorsignori. Magari retribuiti con una semplice pacca sulla spalla e l’ospitata in qualche convegno della Bocconi o in LUISS.
Almeno Friedrich Hayek – modello inimitabile della categoria – incassava nel 1974 l’adeguata remunerazione dei suoi apprezzati servizi sotto forma di un premio Nobel per l’economia assegnato dai banchieri svedesi.
Premio che – come scrive Emiliano Brancaccio – «funziona da segnalatore in quanto rivela ai ricercatori quali sono le teorie giuste. In particolare, un giovane agli inizi della sua carriera da economista potrà chiarirsi le idee su quale paradigma scientifico sia opportuno sposare, quando viene informato del fatto che se si orienta verso qualche forma di pensiero economico eterodosso non avrà nessuna possibilità, non solo di vincere il premio Nobel ma neanche di pubblicare su riviste di serie A»[4].
Dunque, un caldo invito alla prudenza (e al conformismo), specie quando ci si trova – come ci stiamo trovando – ad attraversare la gramsciana crisi da “interregno”, inteso come vuoto di autorità/egemonia, mentre il vecchio muore, il nuovo non può ancora nascere e «si verificano i fenomeni morbosi più svariati».
Non era quello il contesto in cui si trovavano ad operare Hayek e la task force dei followers liberisti. Ossia la fase ascendente della finanziarizzazione del mondo; all’attacco dell’assetto post-bellico (Welfare State) già con l’avvento della “Nuova Destra” reaganiano-thatcheriana, poi con la vittoria planetaria del Turbo-Capitalismo dopo il 1989 e il venir meno del contrappeso rappresentato dall’antagonismo del Secondo Mondo (il pur esecrabile impero sovietico).
Oggi la situazione è profondamente mutata: come si diceva, ormai ci aggiriamo in quello stallo sistemico che Antonio Gramsci e l’ultimo Zygmunt Bauman definivano – appunto – “interregno”. «La fine della modernità [che] coincide anche con la disgregazione della società di massa, che aveva rappresentato, per quasi un secolo, la modalità più avanzata di mantenimento dell’ordine e del controllo sociale»[5]. Il costo della crisi addebitato al ceto medio, attraverso i processi di impoverimento e precarizzazione. A fronte dei macroscopici arricchimenti dei vertici della piramide. E lo chiamano “keynesianesimo privatizzato”…
Da qui il nuovo tradimento dei chierici; stavolta chiamati a un ruolo pompieristico. A fronte dell’indignazione montante a livello planetario. Mentre il sogno digitale che prometteva immense praterie di libertà e democrazia sta rivelando il suo vero volto: quel progetto commerciale famelico e astutamente mimetizzato che inizia a essere smascherato come “capitalismo della sorveglianza”. Ossia l’ultima frontiera delle oligarchie, fattesi plutocrazie grazie all’accaparramento sfrenato di cui si diceva. Ma questa volta non più delle risorse naturali bensì della stessa natura umana e le sue emozioni, estratte come materia prima da trasformare in dati; da immettere sul mercato dei comportamenti futuri, con inestimabili effetti predittivi delle propensioni di immensi bacini umani, per indirizzarli e/o controllarli, sempre manipolarli.
Una plutocrazia che ha tratto ogni possibile beneficio da una stagione ideologica (NeoLib), in cui le regolazioni pubbliche venivano considerate sinonimo di tirannide, e dalla congiuntura emergenziale del dopo attentati terroristici dell’11 settembre, che ha creato la psicosi della sorveglianza. Basti dire che i guadagni provenienti da tali prodotti e servizi di Google – l’azienda leader di questa forma degenere di capitalismo – sono valutati in crescita dai 644 milioni di dollari del 2016 ai 36 miliardi del 2025[6]. Con tanti saluti a privacy e principi democratici vari.
Populismo, che ci sia ciascun lo dice…
L’urgenza di spegnere focolai di contestazione impone ancora una volta decrescenti capacità di critica razionale da parte degli addetti alla manutenzione del mainstream, funzionale alla ristrutturazione dei rapporti di classe, attraverso l’affermazione di un nuovo discorso egemonico. Minacciato dal crescente disincanto nei confronti del ruolo eminentemente contro-rivoluzionario esercitato dalle élite del potere.
Va ribadito, montante: «un recente sondaggio suggerisce che la percentuale di americani convinta che il governo sia gestito da ‘pochi potenti interessati solo a se stessi e non a tutto il popolo’ è aumentata dal 29% del 1964 al 53% del 1972, sino a oltre il 70% degli anni ‘90»[7]. La strategia argomentativa è quella di creare un fantoccio polemico denominato “Populismo” e bollarlo come “politicamente scorretto”.
Non a caso – ha osservato l’antropologo americano Jonathan Friedman – «il politicamente corretto rappresenta uno strumento di controllo nei periodi in cui nuove élite si contendono l’egemonia. La fragilità delle loro posizioni appena acquisite porta con sé la paura di esporsi e il bisogno di controllare la sfera pubblica. Un controllo strumentalizzato attraverso l’elusione del contenuto semantico delle questioni e mettendo in atto un discorso morale di classificazione»[8].
Nella disgregazione epocale e nei tentativi di puntellarne i previlegi, ecco avvenire il ribaltamento degli effetti in causa: l’indignazione imputata di irresponsabilità distruttiva. Quando non si tratta altro che la sacrosanta critica delle politiche smaccatamente anti-popolari degli ultimi decenni. Contestazione esorcizzata facendo ricorso ad un altrettanto smaccato confusionismo analitico.
Scrive Marco D’Eramo: «Non se ne può pi&ugr
ave; della sufficienza schifata con cui i commentatori di tutte le sponde declinano i termini “populismo” e “populista” […]. Populista ha non solo lo stesso significato, ma anche la stessa etimo di demagogico, termine che non a caso fu coniato nell’antichità dalle fazioni aristocratiche e senatoriali in spregio alla plebe. In effetti i nostri opinionisti ostentano nel pronunciare la vituperata parola un tale ludibrio venato di degnazione, neanche fossero tutti elencati nell’almanacco di Gotha, marchesi di Carabas timorosi d’infettarsi a contatto con il volgo (da cui la parola volgare)».
Dunque, irrisione fondata su tassonomie assurde, tendenti al delirante, che classificherebbero appartenenti a una specie comune Viktor Orbán e Ada Colau, alcaldessa di Barcellona, Marine Le Pen e Antonio Costa, premier portoghese, o – magari – Pippo Civati e Donald Trump, Matteo Salvini a braccetto di Pablo el coleta Iglesias. Sicché sono sempre di più i movimenti politici e sociali che vengono sprezzantemente tacciati di “populismo” da trombettieri e violini di spalla dei governi specializzati in misure antipopolari.
Prosegue D’Eramo: «nella campagna del 1936 Roosevelt mise in guardia contro i ‘monarchici dell’economia’ che avevano ridotto l’intera società al proprio servizio: ‘Le ore che uomini e donne lavoravano, i salari che ricevevano, le condizioni del loro lavoro … tutto era sfuggito al controllo del popolo ed era imposto da questa nuova dittatura industriale’. In gioco, tuonava Roosevelt, era niente meno che ‘la sopravvivenza della democrazia’. Disse al popolo americano che la finanza e la grande industria erano determinati a scalzarlo: ‘mai prima d’ora in tutta la nostra storia, queste forze sono state così unite contro un candidato come oggi. Sono unanimi e concordi nell’odiarmi e io accolgo volentieri il loro odio. A ragione questo linguaggio sarebbe oggi definito ‘populista’. Ma quanto ci piacerebbe sentirlo di nuovo da un leader della (cosiddetta) sinistra!»[9].
Dunque una storia antica, che si ripropone ogni volta in cui le oligarchie del denaro entrano in rotta di collisione con i tentativi di regolarle socialmente. Succede oggi, successe al tempo dei robber baron (i baroni ladri) del primo industrialismo americano: «come i dirigenti di Google, i titani di fine Ottocento volevano utilizzare un territorio indifeso per i propri interessi, dichiarando la legittimità della propria ambizione e salvaguardando in tutti i modi il proprio neocapitalismo dalla democrazia». Esorcizzano sempre lo stesso avversario: il cosiddetto “populismo”. Lo ha recentemente ricordato la docente di Harvard Business School Shoshana Zuboff: «nel 1896 i milionari si mobilitarono per sconfiggere il populista democratico William Jennings Bryan che aveva promesso di sottomettere l’economia alla politica democratica con regolamenti per le ferrovie»[10].
Gli esegeti implacabili
All’inizio del 2019 Giuliano da Empoli, tipico figlio della borghesia di Stato sistemata fin dalla più giovane età ai piani alti del Palazzo (nel suo caso quello “Vecchio”, nella fiorentina piazza della Signoria, come assessore per affinità antropologico/blairiane nella giunta del sindaco Matteo Renzi), ha dato alle stampe un pamphlet contro l’anti-politica per l’editore Marsilio: “Gli ingegneri del caos”.
Pagine di feroci stroncature alla ricerca di un bersaglio, visto che l‘autore fino all’ultima riga non riesce ancora a decidersi se l’oggetto della sua esecrazione è la solita italica carnevalata oppure – come lascerebbe intendere il sottotitolo del suo Malleus Maleficarum in sedicesimo: “teoria e tecnica dell’internazionale populista” – una cospirazione planetaria organizzata, per conto di qualche Spectre politica, da decine di spin doctors (che vanno dal piazzista della sovversione Steve Bannon al suggeritore di Viktor Orbán Arthur Finkelstein), all’opera per scopi non rivelati. Se non vogliamo considerare tali quelli di sollevare polveroni, dare sfogo a personali insofferenze e risentimenti da biechi reazionari.
Nuovi Dottor Stranamore che «stanno reinventando la propaganda per l’era del selfie e dei social network»[11], al servizio di «miliardari che diventano i portabandiera della rabbia dei diseredati, decisori pubblici che fanno dell’ignoranza un vanto, ministri che contestano i dati dei loro ministeri»[12]. Insomma, la compagnia di giro da salotti televisivi e tweet, del tutto altra rispetto all’elemento popolare.
Vai a spiegare al quarantenne in carriera Da Empoli che non di “populismo” si tratta, bensì di quella vecchia conoscenza chiamata “demagogia”. Il solito travestimento di una parte dell’élite del potere determinata a perpetrare i propri regolamenti di conti rifacendosi una verginità e asservendo ai propri fini quella che il nostro implacabile censore citava come “rabbia dei diseredati”.
Gli è mai passato per l’anticamera del cervello che “tale rabbia” potesse esprimere una propria autonoma soggettività liberandosi dalle strumentalizzazioni?
Quanto invece appare chiaro è l’avversione benpensante nei confronti dei soggetti che intendono dare rappresentanza in presa diretta a tale risentimento indignato. Come emerge nel caso italiano, dove la grande stampa, Confindustria e i vari circoli affaristici, non meno degli ambienti retrò legge-e-ordine, considerano i certamente populisti Cinquestelle alla stregua del male assoluto. Mentre la Lega salviniana viene criticata per le sue bullesche posture sovraniste/suprematiste ma non messa all’indice; e comunque considerata un interlocutore con cui intavolare trattative per buoni affari, sopra e sotto banco. Dal TAV alle operazioni dei palazzinari romani.
Di recente si è messo sulla scia del succitato renziano, implacabile fustigatore dei propri personali incubi, anche il filosofo del diritto Mauro Barberis[13]; sempre alla ricerca di un albero a cui impiccare le proprie spiritosaggini. Sicché, cataloga il fenomeno populista nell’ineffabile, buttandola sul paradossale: stavolta l’assassino non è il maggiordomo bensì Internet. E perché non il forno a microonde?
Un contesto a cui nel 2014 ha dedicato il proprio ponderoso saggio di successo lo storico dell’economia francese Thomas Piketty. Testo che pone al centro della propria ricerca una questione solo apparentemente eccentrica: «il problema della distribuzione della ricchezza»[14]. Ossia i mastodontici trasferimenti di patrimonio dal settore pubblico a quello privato, a partire dagli anni Settanta (e dalla “rivoluzione conservatrice” anglosassone), all’origine di un’incessante ricrescita delle diseguaglianze. Impoverimenti e conseguenti proletarizzazioni nella fascia centrale della società, spudorati arricchimenti per accaparramento ai suoi vertici.
La dinamica spaventosamente divergente, che chiama in causa le strategie delle élites e le trasformazioni nella composizione sociale accelerate dalla globalizzazione finanziaria, prefigurate già in precedenza da intellettuali nordamericani fuori dal coro: nel 1991 l’economista Robert B. Reich segnalava l’emergere, con le nuove figure degli analisti simbolici (i master della finanza) e degli intermediari strategici (i grandi players del trade), «di forze centrifughe dell’economia globale che vanno a sciogliere i legami che tengono uniti i cittadini»[15]; quattro anni dopo lo storico Christopher Lasch prefigurava i rischi mortali per la democrazia derivanti dal formarsi di «una società bipolare, in cui i pochi privilegiati monopolizzano i vantaggi della ricchezza, dell’educazione e del potere»[16].
Analisi in linea con la ricerca di Piketty, la cui lezione «è che il processo dinamico di un’economia di mercato e di proprietà privata, se abbandonato a se stesso, alimenta […] potenti fattori di divergenza, potenzialmente minacciosi per le nostre società democratiche e per i valori di giustizia sociale sui quali esse si fondano»[17].
Il fatto nuovo – avvenuto nel fatidico 2011 (con l’anteprima su scala mondiale del Vaffa Day bolognese di Beppe Grillo nel 2007) – è la crescita di reti d’indignazione a livello di pensiero collettivo mondiale, conseguenti all’individuazione delle responsabilità nella produzione di malessere sociale ed emarginazione diffusa da parte di una plutocrazia irresponsabile quanto avida. Con le parole dello stesso scienziato sociale francese, «la storia delle disuguaglianze dipende dalla rappresentazione di ciò che è giusto e di ciò che non lo è che si fanno gli attori economici, politici, sociali, dai rapporti di forza tra questi attori e dalle scelte collettive che ne derivano»[18].
Il mood collettivo da cui sgorga l’indignazione, interpretato da nuovi soggetti che balzano sulla scena politica e continuano a tener campo, seppure con alterne fortune: lo spagnolo Podemos, il catalano Barcelona en Comù, il nuovo partito socialista portoghese di Antonio Costa (mentre il greco Syriza si è impiccato a Bruxelles e nei propri opportunismi. L’italico M5S nella propria indeterminatezza culturale e nei criteri suicidi di selezione del proprio personale politico). Da qui la riscoperta di un filone di pensiero latino-americano, che riporta a nuovo riflessioni gramsciane sul tema delle alleanze nel sociale per far valere istanze di cambiamento. A fronte della messa fuori gioco del “Lavoro” come “classe generale” antagonista al tempo del conflitto industriale (gli allievi di Pierre Bourdieu, Luc Boltanski ed Eve Chiappello parlano di «involuzione dallo sfruttamento all’emarginazione»[19]). Nel campo del nuovo conflitto sociale, che ridisegna ruoli e profili dei soggetti antagonisti.
L’aspetto a dir poco bizzarro dell’intera faccenda è che i nostri panglossiani, propugnatori dell’esistente come “migliore dei mondi possibili”, implacabili Torquemada persecutori dell’eresia contestativa, si impancano a intemerati difensori della veneranda Liberal-Democrazia; quando – in effetti – fungono (spesso a propria insaputa) da puntello ideologico di una plutocrazia bieca e cannibale. Che, giorno dopo giorno, sta smantellando la democrazia a colpi di piccone.
[2] A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Vol. III, Einaudi, Torino 1975 pag. 311
[3] A. Dal Lago, Eroi di carta, Manifestolibri, Roma 2010
[4] E. Brancaccio, Il discorso del potere, il Saggiatore, Milano 2019 pag. 11
[5] C. Bordoni, Fine del mono liquido, il Saggiatore, Milano 2016 pag. 41
[6] S. Zuboff, Il Capitalismo della sorveglianza, Luiss, Roma 2019 pag. 202
[7] J. Friedman, Politicamente corretto – il conformismo morale come regime, Meltemi, Milano 2018 pag. 223
[8] ivi. pag. 322
[9] M. D-Eramo, “Ben venga il populismo di sinistra”, MicroMega on line 16 gennaio 2012
[10] S. Zuboff, Il capitalismo ella sorveglianza, cit. pag. 117
[11] G. Da Empoli, Gli ingegneri del caos, teoria e tecnica dell’internazionale populista. Marsilio, Venezia 2019 pag. 19
[12] Ivi pag. 147
[13] M. Barberis, Come Internet sta uccidendo la democrazia, Chiarelettere, Milano 2020
[14] T. Piketty, cit. pag. 34
[15] R. B. Reich, L’economia delle nazioni, IlSole24Ore, Milano 1993 pag. XV
[16] C. Lasch, La ribellione delle élite – il tradimento della democrazia, Feltrinelli, Milano 1995 pag. 32
[17] T. Piketty, cit. pag. 919
[18] Ivi pag. 43
[19] L. Boltanski ed Eve Chiappello, Il nuovo spirito del Capitalismo, Mimesis, Sesto S. Giovanni 2014 pag. 401
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