Paolo Flores d’Arcais: Una lista civica per le europee
È ormai assolutamente lampante che la classe dirigente del Pd è pienamente integrata nella casta partitocratica. La speranza di un suo rinnovamento dall’interno è soltanto un’illusione e l’unico strumento a nostra disposizione è il voto. Una lista di cittadini senza partito, con tutti gli accorgimenti necessari ad evitare una nuova deriva partitocratica. È l’unica strada: per realismo politico.
di Paolo Flores d’Arcais, da MicroMega 5/2008
Il governo Berlusconi procede a tappe forzate verso la putinizzazione dell’Italia. La mordacchia alla stampa e i braccialetti della libertà vigilata ai magistrati ne costituiranno il compimento. Alle pulsioni totalitarie di Berlusconi non basta infatti il monopolio dell’informazione televisiva (e della ricreazione televisiva, capace di veicolare valori e plasmare psicologie e sudditanze collettive perfino più di telegiornali e talk-show). I residui marginali di giornalismo libero e di informazione-informazione di alcune testate cartacee e di due o tre trasmissioni tv (se sopravvivranno) risultano comunque insopportabili per l’appetito totalitario, e così ai giornalisti che in futuro continueranno a raccontare qualche procedimento penale in corso contro eventuali magnae partes di regime vengono promessi anni dietro le sbarre, e multe fantastilioniche agli editori, perché venga meno qualsiasi ubbia da democrazia anglosassone.
Quanto ai magistrati, poiché un ventennio meno quattro di manganello mediatico e gogna quotidiana e delegittimazione a suon di ispezioni ministeriali bipartisan, e leggi ad hoc e ad personam bipartisan anch’esse (per atti od omissioni), e inchieste scippate e altre provocazioni, non è bastato a rimettere sul signorsì tutte le toghe, si passa al piduismo doc: separazione delle carriere, procure gerarchizzate, pm sottoposto di fatto all’esecutivo, discrezionalità governativa sull’azione penale.
Ora, basta riflettere anche brevemente e con gli strumenti di una intelligenza media, per realizzare che laddove i magistrati non possano più indagare autonomamente e i giornalisti non possano più raccontare i fatti (ma sviolinare esclusivamente quelli che suonino encomiastici per il potere), della democrazia liberale si perde perfino l’ombra.
E infatti il Partito democratico, maggior partito d’opposizione come l’inerzia classificatoria continua a definirlo, ha lanciato qualche mese fa la raccolta di cinque milioni di firme (diconsi cinque) in calce ad un documento dal titolo esplicito e ultimativo: «Salviamo l’Italia». Titolo che allude, se ha senso (e un titolo veltroniano, per definizione, ha senso, non è certo escogitato a fini di estremismo agitatorio), ad una minaccia di proporzioni devastanti, e ormai in atto, che incombe sulla democrazia liberale in Italia. Il Berlusconi rischio di fascismo, di cui Famiglia Cristiana, insomma.
Ma tant’è. Mentre il Pd stancamente raggranella firme alle sue feste (di ex Unità), alle medesime invita in pompa magna l’intero governo – salvo beccarsi qualche altezzoso rifiuto alla «ragazzo, spazzola» – attorno al clou della compagnia di giro Tremonti-D’Alema, che si esibisce perfino in duetti teologico-politici sull’aldilà, mica poltrone e altri inciuci.
Sembra insomma che nei fatti (unica derrata che dovrebbe contare in una politica riformista) la ricetta per «salvare l’Italia» sia una collaborazione cieca, pronta e assoluta con coloro che l’Italia minacciano. Chi pensava che in logica progressi grandi e sconvolgenti fossero ormai impossibili, è servito.
Una analisi sine ira et studio dovrebbe trarne le conseguenze. Il Partito democratico è ormai – innanzitutto e per lo più – parte integrante della gilda partitocratica (così la definivamo oltre un quarto di secolo fa. Ora, grazie al capolavoro giornalistico di Rizzo e Stella, per fortuna è entrato nell’uso comune il termine «casta»). Il partito non come astrazione, ma inteso come insieme dei suoi dirigenti, centrali e locali, dal segretario nazionale al consigliere del più periferico municipio. Ovvia qualche eccezione, importante moralmente nella rispettiva cerchia di influenza, ma sul piano statistico, «strutturale» e sociologico, eccezioni ormai del tutto irrilevanti. Il ceto politico del Pd è, statisticamente parlando, del tutto omologato, assimilato, con-forme, negli interessi (e sempre più spesso anche negli stili di vita), alla casta partitocratica, dei cui privilegi non a caso si fa paladino, a cominciare dalle impunità per finire alle buvettes.
Si dirà che il giudizio è sommario, almeno per quanto riguarda gli stili di vita. Che lo sgaggiare salottier-billionaire di presidenti, nani e ballerine di governo è ancora anni luce lontano dalla sobrietà post-comunista. Delle differenze ancora sopravvivono, in effetti. Ma sarebbe bello (e anzi necessario) poterle garantire al centouno per cento. E invece, l’album fotografico del matrimonio Briatore-soubrette (costo stimato dal gossip oltre due milioni di euro: quanto metterebbe insieme un lavoratore medio che avesse cominciato a lavorare ai tempi della battaglia di Austerlitz) lascia purtroppo più di un dubbio. E del resto anche lo stile di Fini non è lo stesso di La Russa.
Se poi gettiamo un occhio sulla kermesse degli under-40 apparecchiata dal vice-Walter Dario Franceschini, non siamo più all’inciucio, alla commistione dei ruoli tra maggioranza e opposizione, alla omologazione che tutto rende indistinto (la notte hegeliana in cui tutte le vacche sono nere), siamo ad un vero kamasutra di amorosi sensi progettuali e indistricabili.
L’unica differenza vera, tra il maggior partito di non-opposizione e la maggioranza di regime, è ormai costituito solo dalla natura di una parte ancora consistente del suo elettorato. Differenza morale, ancor prima e più che politica. E financo antropologica. Questa parte di cittadinanza democratica coerente continua a votare una nomenklatura ormai assuefatta al bacio-della-pantofola, ma solo faute de mieux e/o per inguaribile (fino a quando?) nostalgia-illusione: che i dirigenti del Pd, solo nella parte di provenienza ex comunista, sia chiaro, siano ancora portatori per lo meno parziali delle neiges d’antan: eguaglianza e libertà.
Questi elettori sanno benissimo che non è più così, ma si aggrappano ad ogni parola, ad ogni pallido lemure di «attacco» al governo che di tanto in tanto sfugge a D’Alema o a Veltroni, per sognare che la contrapposizione ancora ci sia: noi e loro, due Italie. Come in effetti è. L’Italia della democrazia presa sul serio, della Costituzione repubblicana come bussola, l’Italia della serietà, insomma, e l’Italia del ghigno dei furbi perché le regole sono solo per i fessi, l’Italia del privilegio più sboccato e sguaiato, del razzismo strisciante e montante, delle libertà calpestate e derise, dell’apoteosi del servo encomio. Solo che i dirigenti del Pd, nella media e come ceto, appartengono ormai a «loro».
Questo aggrapparsi alle illusioni, benché razionalmente insensato, è perfettamente comprensibile. Se manca un’alternativa politica reale, l’illusione sulla «perfettibilità» dei dirigenti Pd resta l’ultimo rifugio contro la rassegnazione e la disperazione. È accaduto a tutti noi, tutti noi rischiamo di praticarlo ancora, malgrado ogni empirica dimostrazione sul carattere irreversibile della mutazione genetica ormai avvenuta nel Pd. Ma in questo mod
o il destino del regime berlusconian-putiniano è segnato, sarà quello di magnifiche sorti e regressive, e noi con le nostre illusioni avremo portato a questa catastrofe il nostro obolo.
Un’altra scelta è possibile, naturalmente. Quella, assai più faticosa ma che – sola – potrà produrre risultati, del realismo politico. Che comincia col riconoscimento dell’avvenuta metamorfosi strutturale del Pd in segmento della «casta» (il segmento meno impresentabile, con frammenti perfino decenti), e dunque della impossibilità che questo partito si rinnovi per vie interne, per evoluzione dei dirigenti, e meno che mai per staffetta generazionale. In vista di una democrazia presa sul serio, il Pd è ormai perduto, insomma. Ma perduto non è affatto il suo elettorato. Anzi.
Perché si esca dallo stallo, dall’avvitamento della democrazia liberale in regime (col concorso del Pd) è necessario perciò che il Pd passi attraverso il trauma di una sconfitta. La sola lingua che le gerarchie conoscano e che nomenklature capiscano è la perdita di consensi in percentuale. Che tanti cittadini restino a casa, in tacita protesta contro tutta la politica, lascia le burocrazie indifferenti, fino a che questo «sciopero del voto» si distribuisce più o meno su tutti.
Non di una sconfitta qualsiasi, perciò, c’è bisogno perché rinasca un’opposizione democratica, e neppure di una sconfitta cocente (cos’altro è stata la sconfitta del 2008, del resto?). È necessaria una sconfitta disastrosa, una sconfitta-terremoto, tale da non consentire a nessuna frazione dei suoi attuali gruppi dirigenti di presentarsi, neppure per ipotesi, come una risorsa per la ricostruzione futura.
Ma è evidente che il tanto peggio non può essere auspicabile. Mai. Eppure, senza quel trauma, da cui nasca una opposizione radicalmente nuova (nel cui crogiuolo si rifondano anche le energie di base oggi nel Pd paralizzate), il regime putiniano si consoliderà malgrado ogni ingiustizia, ogni errore e ogni crisi. Dunque, bisogna immaginare scelte che consentano di bilanciare la sconfitta traumatica e catastrofica del Pd, necessaria per uscire dalla morta gora del regime senza opposizione, con un successo più che compensatorio per altre realtà democratiche organizzate.
Sembra la quadratura del cerchio. Altre forze che possano drenare i consensi persi dal Pd, e anzi incrementarli strappando voti ai delusi e non più affatturati dai Bossi, Fini e Berlusconi, oltre che riportare alle urne tanti democratici che si sono autoesiliati nel non voto, oggi non sono alle viste. L’Italia dei valori di Di Pietro ha innegabili meriti, per i quali ha già raddoppiato i consensi nei sondaggi, e speriamo arrivi anche molto oltre, ma non potrà rappresentare il catalizzatore di quella vera e propria «catastrofe virtuosa» che sembra necessaria: un Pd sotto il 25 per cento e una nuova forza che erediti e moltiplichi il 10 per cento di tale spostamento traumatico.
E tuttavia: potenzialmente, questa quadratura del cerchio è già presente nel paese. Non si tratta di wishful thinking di intellettuali estremisti, in transito da un’utopia all’altra. Si tratta di sondaggi. Solidi e prosaici sondaggi, di cui si nutrono quotidianamente gerarchi e nomenklature della casta. A partire da quello di Renato Mannheimer su piazza Navona, che ha visto un consenso alla manifestazione (così come demonizzata dai media, oltrettutto) che tradotto in termini elettorali superava di due punti il risultato elettorale del Pd (cfr. il numero speciale di MicroMega «Il regime non passerà», uscito lo scorso luglio, pp. 154-155).
Insomma, realisticamente parlando: alle prossime elezioni europee, una lista della società civile, di cittadini senza partito, può essere lo strumento della «catastrofe virtuosa» che abbiamo delineato.
Può.
A quali condizioni? Inutile nascondersi le difficoltà.
Il silenzio dei media, innanzitutto, la prevedibile «congiura bipartisan» con cui il regime proverebbe a lasciare all’oscuro della novità gran parte dell’elettorato, o comunque a darne conto in modo fuorviante e penalizzante. Le tecniche non mancano, e «loro» sono la negazione totale del fair play democratico. Ma anche la difficoltà di dar vita ad una lista che non diventi un nuovo partito, che non promuova nuove carriere partitocratiche, che insomma non «tradisca» la società civile non appena presente nelle istituzioni.
Erano queste, del resto, le legittime preoccupazioni che bloccarono la trasformazione dell’enorme forza popolare di piazza San Giovanni 2002 in un nuovo soggetto politico. La difficoltà di inventare davvero questo nuovo. Di non ripercorrere come inevitabili i sentieri della «forma partito» e di nuovi «professionisti a vita» della politica.
Proviamo allora a immaginare in concreto come dar vita ad una forza democratica «a geometria variabile», che non sia un partito, che sappia diventare lista elettorale quando necessario, adattandosi alle diverse circostanze e prevedendo tutti i meccanismi possibili per sventare anche solo tentazioni carrieristiche e conati di nomenklatura.
L’Italia elegge al parlamento europeo 72 deputati (secondo il trattato di Nizza). Ma i candidati non debbono essere necessariamente italiani, devono essere cittadini della comunità europea. Stabiliamo perciò che metà di essi siano di paesi non italiani, eminenti personalità francesi, spagnole, tedesche, polacche… E che la metà, sia fra gli italiani che fra gli «stranieri» siano donne. E che la posizione in lista di ciascuno venga decisa dalla sorte (se la nuova legge-porcata non ammetterà preferenze), e che non sia consentito uso di danaro per farsi una campagna individuale, nel caso le preferenze siano ammesse. E che comunque ogni eletto si impegna a dimettersi dopo un anno di mandato, di modo che, a rotazione, siano molti a «sacrificarsi» temporaneamente per spirito di servizio (i politici dicono sempre che questa è la loro motivazione), e nessuno a poter avviare una lucrosa carriera. E che tutti coloro che dovranno avere incarichi organizzativi (portavoce, tesoriere, comitati di «saggi» per le candidature eccetera) non potranno ovviamene essere candidati. E che nessuno potrà trattenere, dello stipendio, più di quanto già non guadagnasse nella società civile…
Sono le prime misure che mi vengono in mente. Altre se ne potranno certamente escogitare. Non è affatto fatale, insomma, che organizzazione debba significare burocrazia inamovibile e nomenklatura, nemmeno in fieri. Naturalmente su questo versante si rischia anche l’eccesso della demagogia «di base», del sospetto aprioristico verso le personalità spiccate o, all’opposto, l’acritica devozione per carismatiche popolarità mediatiche. Verissimo, si rischia.
Perché, a voler agire, a non rassegnarsi, rischi ce ne sono sempre, lungo tutti i crinali. Se si cercano alibi per limitarsi a coltivare il proprio giardino, se ne troveranno sempre a iosa, e anche di ottima lega e caratura. Lusinghe e seduzioni per un dolce «far niente» pubblico, che non cambiano la realtà: oggi il peggio c’è già, è l’inazione di fronte a un regime senza opposizione, dove – è l’ultima barbarie mentre scriviamo, ma quando leggerete forse ce ne saranno già state altre – si uccide a sprangate per quattro biscotti, e la pressione razzista è ormai tanto forte che malgrado le numerose tes
timonianze su quanto gridavano gli assassini (sporco negro, negro di merda), agli assassini medesimi non viene neppure contestata l’aggravante del razzismo.
Una lista della società civile, una lista di cittadini senza partito. Questa la esigenza imprescindibile per le elezioni europee. Se ne potrà realizzare una versione piena, o delle varianti, a seconda dei dettagli del sistema elettorale (la nuova legge-porcata in gestazione), e a seconda della forza di lotta che la società civile democratica dimostrerà di avere nel paese nei prossimi mesi (scadenze e occasioni di ogni genere incombono). Una lista autonoma vera e propria, con proprio simbolo e senza apparentamenti, se la legge-porcata non prevederà raccolte di firme iugulatorie, e se un’ondata di lotte non sarà immiserita da personalismi e diatribe di bottega.
Un simbolo autonomo della società civile, accanto al simbolo dell’Italia dei valori, in una lista comune, scelta in comune, se la legge-porcata non lascerà alternative praticabili, ma sulla base di regole comuni antinomenklatura quali quelle sopra accennate (altrimenti non si fideranno i cittadini, che vogliono diversità radicale e non sono disposti a spendersi per sfumature).
Infine, ipotesi minima, certamente insufficiente a produrre il terremoto democratico di cui ho parlato, ma sempre meglio che niente, la presentazione della sola lista di Di Pietro, con un’ampia apertura a esponenti indipendenti della società civile e dei movimenti.
Di tutto questo vogliamo cominciare a discutere fin da ora. Sapendo perfettamente che ai media le questioni di fondo qui affrontate interessano poco o nulla. A loro interessa solo se la lista e chi i capilista, esattamente come non erano affatto interessati a informare telespettatori e lettori sulla preparazione della manifestazione di piazza Navona, sui suoi contenuti, i suoi obiettivi, le sue modalità, tutti fissati su un solo interrogativo: ci sarà Beppe Grillo, ci sarà Nanni Moretti?
Quale sia il mio auspicio credo sia chiaro. Se si realizzerà, io comunque non sarò candidato. Non perché vi sia incompatibilità tra la direzione di una rivista di élite come MicroMega e una carica politica (ai tempi in cui la rivista fu fondata, con Giorgio Ruffolo, ventidue anni fa, Ruffolo era deputato e ministro) ma perché il monopolio totale del regime sui media, e la sua volontà di infangare qualsiasi opposizione degna del nome, impone a ciascuno di noi scelte iper-rigorose, che non consentano al regime di spacciare in alcun modo veleni, insinuando su motivazioni meno che disinteressate.
E poiché sono io ad avanzare l’ipotesi di questa lista, è bene che ne resti fuori. Solo per quanto detto sopra. Ma è chiaro che si tratta di un esempio da non imitare. Questo è infatti l’ulteriore problema, la difficoltà forse più grande che ci sta di fronte: il discredito della politica è tale, la speranza di un cambiamento talmente al lumicino, che anche chi vorrebbe operare per un rinnovamento radicale, e ne ha tutti i titoli, per credibilità e prestigio acquisiti nella sfera della società civile, vive fortissime resistenze a esporsi in prima persona, a candidarsi. Dipenderà da ciascuno di noi, allora, se sapremo spingere questi amici e compagni alla generosità del coraggio ineludibile.
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(6 ottobre 2008)
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