Paolo Piacquadio

MicroMega

Dottorando e ricercatore presso l’Université Catholique de Louvain in Belgio

1) Una delle accuse che vengono rivolte dai sostenitori della “riforma” Gelmini (ammesso che di riforma si possa parlare) al movimento di protesta è quella di rappresentare interessi corporativi ed esprimere istanze conservatrici.
E’ una critica fondata secondo te? Se si/no perché? Qual è l’idea di scuola e di un’università che questo movimento esprime? Quali sono le direttici di riforma che – se pur confusamente, come non potrebbe essere diversamente visto il carattere multiforme e composito del movimento – questa protesta tende a delineare?

A mio avviso la critica di rappresentare interessi corporativi e di esprimere istanze conservatrici è parzialmente fondata: a parte gli studenti, coloro che protestano sono insegnanti, ricercatori, professori che da un lato sono chiaramente convinti della necessità di cambiamenti e miglioramenti (quindi si dichiarano non conservatori); sono però anche preoccupati (ed a ragione) per la transizione verso un nuovo sistema scolastico/universitario (e ciò li rende parzialmente corporativisti e conservatori).
Mi spiego meglio: tali persone hanno dovuto combattere (ed investire risorse) anni fa per entrare in un mondo non accogliente, chiuso, senza spazio per i giovani; certo concordano sulla necessità di cambiamento, ma il rischio di non essere più adatti a tale mondo (e quindi scartati) se si cambiano le regole è evidente. E’ l’analogo della storia della licenza di tassisti: io, giovane, investo i risparmi dei miei genitori e chiedo un mutuo per comperare la licenza di tassista; certo che sono d’accordo sulla necessità di una riforma che dia spazio ai giovani e favorisca l’accesso alla carriera, ma, se il giorno dopo che spendo 250.000 euro non miei, il governo liberalizza il mercato, le conseguenze sono che la licenza ancora da pagare è carta straccia e la redditività del settore diminuisce. Fuor di metafora: si prenda un ricercatore che per diventare professore ha investito 15 anni della sua “giovinezza” a fare il portaborse al barone di turno in cambio della promessa di un posto di associato; certo che è a favore di una riforma delle carriere universitarie, ma nel momento in cui ci fossero giovani e promettenti ricercatori (che magari hanno scelto l’estero) con più e migliori pubblicazioni lo scavalcherebbero; se è vero che vi è un inequivocabile vantaggio per la ricerca, bisogna preoccuparsi anche di trovare un futuro adeguato all’ex-giovane portaborse.

2) Al di là delle strumentali posizioni sostenute dal governo, è oggettivamente difficile difendere la scuola, ma soprattutto l’università, così come sono oggi. Quest’ultima è il regno della gerontocrazia, dell’immobilismo, del feudalesimo accademico, della totale mancanza di meritocrazia. Quali sono secondo te le linee su cui dovrebbe essere impostata una “riforma organica” del sistema formativo e della ricerca?
Quali provvedimenti concreti si potrebbero adottare per migliorare le cose? Es. diverse regole per i concorsi, per l’assegnazione dei fondi, revisione delle lauree 3+2 e del sistema dei crediti, commissioni internazionali per la ricerca, nuovo sistema per la definizione degli insegnamenti, ecc…

Attualmente in alcune facoltà la maggioranza dei professori non è impegnata (come dovrebbero da contratto) nella ricerca e nell’insegnamento. Ragioni sono molteplici: incapacità, altri interessi, altre professioni (soprattutto liberi professionisti), alcun rischio nel non svolgere il proprio dovere etc…
Ciò che è però rilevante è che se la percentuale di tali persone supera il 50%, sono capaci di contrarre spazio e risorse per i pochi “volenterosi” e, per autoperpetuazione della specie, si entra in un vortice che porta la facoltà ad una associazione di baroni con rendite capitalistiche di poltrona acquisita.
Se al contrario tale percentuale è bassa, il circolo che si crea è virtuoso ed i professori baroneggianti sono invitati a cambiare dipartimento o facoltà (in realtà lo fanno per propria scelta: avere colleghi che parlano di conferenze internazionali dove presentano i loro ultimi risultati, quando oramai le loro conoscenze di base sono un ricordo lontano di giovinezza e si preferirebbe parlare di vacanze o di incarichi istituzionali…).
Il risultato di questo modello è la fotografia dell’università italiana: spaccata tra facoltà di eccellenza e facoltà di baroni incollati alla poltrona. I buoni contro i cattivi in un lotta impari regolata dai voti di scambio per le nomine (necessità di scambi di favori), dall’assenza di rischi di licenziamento (zero incentivi per la ricerca), da bassi stipendi (elevati incentivi ad aggiungere altre attività remunerative esterne), da nessuna valutazione per l’attività di ricerca (per elevare il proprio salario meglio stare seduti in poltrona ed aspettare il tempo che passa: è più remunerativa l’attesa che non l’impegno).
Dal punto di vista delle proposte migliorative dire che serve merito, maggiori fondi, semplificazione delle lauree, non può portare ad alcun risultato concreto di lungo termine: le mele marce dell’università vanno prima messe da parte o contamineranno negativamente ogni iniezione di merito, di fondi e di giovani volenterosi.
I concorsi pubblici sono un modo tutto italiano di dire: discrezionalità implica possibilità per i disonesti di fare scelte per loro tornaconto, ergo più concorsi implica meno comportamenti disonesti.
Come si spiega allora che all’estero le chiamate sono spesso individuali e del tutto discrezionali? In genere la questione è semplicisticamente liquidata con: in Italia vi è un problema di mentalità, ognuno guarda al proprio particulare.
La misura che io propongo è di restituire ai professori discrezionalità accompagnata da una buona dose di responsabilità: come si può pensare di confezionare il concorso perfetto? come si può dover controllare che ogni candidato non sia parente o parente acquisito di questo o quel professore? All’estero, ed è ciò che propongo, si sceglie liberamente il proprio gruppo di ricerca, ma si risponde anche per i risultati del proprio gruppo: tali risultati sono la determinante di stipendio, pubblicazioni, fama ed ulteriori fondi (eventualmente possono essere la causa di licenziamento). Come si può, con i concorsi, voler spersonalizzare a tal punto la scelta dei membri di gruppi di ricerca? I risultati di tale strategia sono: gruppo non coeso, disinteresse dei risultati, scarsi sforzi di ricerca, bassa produttività della ricerca etc… Chi risponde dell’operato delle scelte fatte per concorso? Nessuno. Se un professore non lavora, il consiglio di dipartimento o di facoltà non possono niente. Il preside non è responsabile del corretto funzionamento della facoltà. Il direttore di dipartimento non può chiedere conto ad un professore per assenze ingiustificate. Per il professore è differente, lui ha forza nei confronti dei ricercatori, ma solo perché essi pregano giorno e notte per il posto da professore.
In Italia ci ostiniamo a cercare di avere una situazione paradossale: manager o dirigenti che non rispondono delle scelte in quanto tali scelte sono delegate al di fuori della loro influenza per evitare discrezionalità (e la presupposta conseguente disonestà). A che serve un manager che non sceglie? A che serve un manager di cui non ci fidiamo?

3) Vista l’assoluta trasversalità di questo movimento, che riunisce praticamente tutte le figure del variegato sistema formativo italiano (studenti, insegnati, maestre, dottorandi, ricercatori precari, professori di ogni ordine e grado) è possibile che esso trovi la forza e la “maturità politica” per districarsi tra interessi che possono rivelarsi anche molto contrastanti tra loro se posti di fronte a proposte concrete di riforma? Ogni seria riforma – e per essere seria non può che porsi come obiettivo anche quello di rimescolare rapporti di forza consolidati da decenni – tende a toccare interessi molto concreti. Così come si è configurato questo movimento, può fare i conti con queste sfide? Ne è all’altezza? Quali interessi corporativi è disposto a colpire?

A mio modo di vedere, tale movimento non ha ancora la forza e la maturità di vincere la guerra dell’istruzione e della ricerca. Ciò non è dovuto ad un problema interno all’Onda, ma al fatto che anche la miglior riforma del sistema scuola/università/ricerca calata nel contesto italiano è destinata a svuotarsi ed a perdere il vigore innovatore che contiene: potrebbe anche vincere la battaglia sulla riforma specifica, ma rimarrebbe lontana dal risolvere i problemi dell’istruzione e della ricerca. In poche parole sono convinto che i cervelli italiani coltivati con sacrificio e rinunce continuerebbero il loro triste esodo (magari in numero leggermente inferiore grazie al parziale successo).
La mia cura per il miglioramento del sistema universitario parte quindi da molto lontano; consiste nel correggere le distorsioni tutte italiane di lavoro e imprese. Non si scappa dall’Italia perché non ci sono posti per la ricerca, non si scappa perché il “proprio” posto è stato preso dal parente di turno del barone dominante, non si scappa perché l’ambiente per la ricerca è relativamente meno stimolante che non altrove. Almeno non principalmente per questi motivi. Si scappa dall’Italia perché un giovane mediamente brillante non ha prospettive se non ha o non accetta aiuti di familiari.
E ciò non vale unicamente per il mondo della ricerca, ma per tutti i settori lavorativi ad elevata intensità di capitale umano.
L’anomalia italiana è tutta riassunta da un dato: la parte di PIL che va ai lavoratori è il 60% (tra l’altro in calo), mentre la parte di PIL che va ai detentori di capitale è del 40%. La media europea è rispettivamente del 70% per i lavoratori e 30% per i secondi. Pochi si rendono conto della portata distruttiva di questa situazione. Se si prende una famiglia della classe media, gli e!etti sono sostanzialmente trascurabili: in genere possiede una casa, risparmi e lavora; la riduzione di entrate sullo stipendio è grosso modo compensata dalle maggiori rendite capitalistiche. Sui giovani l’eletto è però devastante: sono persone che hanno solo la scelta di lavorare subito o di investire in istruzione per poi lavorare successivamente; sia nell’una che nell’altra ipotesi non sono autosufficienti; in entrambi i casi non hanno interessanti prospettive almeno fino a che non ereditano il capitale che con i bassi livelli di salario non riescono ad accumulare. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: 35enni che vivono a casa dei genitori, universitari estremamente demotivati, calo di matrimoni e natalità bassissima, e potrei continuare con i problemi legati alla fiducia delle nuove generazioni, o con i problemi delle pensioni future, o con la perdita di competitività dovuta al calo della produttività del lavoro etc…
Cosa è la causa di tale dato?
Iniziamo dal mercato del lavoro. Qualche anno fa, con il boom dell’economia cinese in particolare, la competitività dei nostri prodotti ha accelerato la sua fase discendente. L’allarme degli imprenditori è stato accolto dai politici con la promessa di accrescere la competitività con il taglio del costo del lavoro (oltre a dazi più o meno espliciti ipocritamente motivati dalla differenza nell’assistenza sociale): in questa direzione si possono citare il taglio del cuneo fiscale, l’abolizione dell’IRAP, la grande accessibilità alla CIG ordinaria e straordinaria, la detassazione degli straordinari (ritengo che i lavoratori contrattino il salario sulla cifra reale percepita al netto delle imposte, per cui tale misura favorirà più le imprese che non i lavoratori), la riforma del mercato del lavoro con l’introduzione della flessibilità (per alcuni comunemente conosciuta come “precarietà”). Queste riforme, sebbene possano sembrare risollevare tramite una migliore salute delle imprese tutta l’economia italiana (motivo per cui sono state largamente accettate), hanno portato alcuni risultati “interessanti”: le imprese sono rimaste ancorate sui loro settori tecnologicamente non avanzati (prospetticamente le nostre imprese che ora non hanno approfittato di investire in innovazione e sviluppo avranno sempre più bisogno di aiuto pubblico per sopravvivere); il lavoro necessario per far funzionare tali aziende è generalmente a bassa/bassissima intensità di capitale (i nostri laureati non vengono richiesti dalle aziende); i lavoratori godono di una elevata sostituibilità (è l’ingrediente necessario per tenere i salari al di sotto di un livello che definirei normale; per via dell’esercito di lavoratori di riserva i dipendenti sono costretti ad accettare salari incomprensibili: il lavoratore a tempo determinato dovrebbe infatti essere ricompensato, oltre che per la sua mansione, per il rischio che alla scadenza del contratto non possa trovare subito un altro lavoro); le rendite capitalistiche vengono mantenute artificialmente elevate ed gli elevati profitti non vengono
neanche reinvestiti in Italia.
Da notare che le imprese potrebbero profittevolmente investire in tecnologia a maggiore intensità di capitale umano, ma (oltre alla totale assenza di incentivi specifici) si scontrano con il disincentivo dovuto al vantaggio che ottengono i nuovi dipendenti-lavoratori altamente specializzati: essi risulterebbero in posizione dominante nella contrattazione (per il costo fisso della formazione iniziale possono chiedere salari maggiori, problema dei sunk costs), sono difficilmente licenziabili (possono evitare di impegnarsi troppo, problema di moral hazard), sono difficilmente sostituibili (per la scarsità di lavoratori altamente specializzati con simili conoscenze). Una impresa adotterebbe tale strategia solo se vi fosse costretta: se per esempio una nuova impresa con tale tecnologia entrasse in tale settore, potrebbe facilmente conquistare ampie quote di mercato ed ancora raccogliere extra-profitti; così costringendo le concorrenti preesistenti a adottare simili strategie.
La mia opinione è che il sistema imprenditoriale in Italia abbia sviluppato un antibiotico alla concorrenza (gli ingredienti sono da ricercarsi nel circuito politici-imprenditori); sia dal punto di vista della competizione tra le imprese al fine di garantirsi quote di mercato ed efficienza produttiva sia dal lato dell’ingresso di capitali esteri e nuovi concorrenti.
Con la scusa della salute delle aziende e della loro indispensabile italianità, i politici italiani hanno
strappato via il futuro ai giovani e lo hanno consegnato ai vecchi.
Questa è la situazione che un giovane maturato o laureato ha di fronte: basse prospettive di lavoro, basse remunerazioni, scarsa fiducia in miglioramenti, impossibilità di pensare al futuro a medio/lungo termine, una politica lontana che non vede in te una risorsa ma un peso, i genitori che dopo aver pagato gli studi sono
chiamati a pagare bollette, affitto, matrimonio, pensioni integrative.
E’ forse sbagliato per un giovane mediamente brillante pensare di scappare?
Torniamo alla ricerca e all’università. Se, infatti, alla ricerca applicata manca il sostegno delle aziende che preferiscono le rendite monopolistiche ad investimenti in nuove tecnologie, nella ricerca di base non sembra (almeno per i nostri illuminati politici) neanche utile investire: da un lato gli eletti visibili, per in non addetti, si intravedono soltanto dopo lunga data e, dall’altro lato, è di facile appropriazione da parte di chi ha investito nella ricerca.
Bisogna, inoltre, tenere in considerazione gli e!etti positivi della possibilità di sfruttare le proprie competenze tecniche/scientifiche acquisite negli anni di studio universitario ed eventuale ricerca anche nel privato. Se infatti all’estero un giovane con il titolo di dottore (titolo che si consegue unicamente con il dottorato!) è ricercatissimo dalle imprese; in Italia la ricerca dottorale è, in termini di carriera, solo fine a se stessa in quanto è considerata un peso (anni persi) per le aziende. Nel momento in cui questa situazione dovesse correggersi, l’università perderebbe un gran numero di ricercatori che, attratti dalla più elevata remunerazione del settore privato e magari incentivati dalle proprie difficoltà nella ricerca, scelgono di spendere le loro capacità altrove. L’incentivo a sistemare i parenti come ricercatori e futuri professori crollerebbe, la percentuale di universitari “volenterosi” aumenterebbe, l’università avrebbe qualche possibilità di migrare verso l’autocorrezione e l’efficientamento del suo funzionamento. Se poi un aiuto venisse pure da qualche riforma di politici magari meno miopi e meno attaccati alla poltrona di quelli attuali…
Prima di passare al prossimo punto, vorrei richiamare l’attenzione sul sistema di finanziamento delle facoltà: i fondi per la ricerca dipendono dal numero degli studenti in corso. La simpatica conseguenza è che i professori, per ottenere maggiori fondi, devono spingere gli studenti a rimanere in corso: come? ma regalando 18 a go go!

4) Il governo – scottato dal crollo dei consensi che la protesta universitaria ha provocato – sembra voler procedere con maggiore prudenza nella riforma dell’università. Dopo una prima fase di straordinaria mobilitazione, riuscirà il movimento a mantenere alta la tensione e il coinvolgimento delle persone? Quali sono gli obiettivi di medio termine che dovrebbe porsi? Come dovrebbe procedere la mobilitazione? Quali idee concrete possono essere messe in campo per proseguire la lotta?

Ritengo straordinario il coinvolgimento che fino ad ora l’Onda ha richiamato. Inaspettato direi. Purtroppo rimango dubbioso sull’efficacia nel lungo termine di tale mobilitazione: poiché la responsabilità politica è stata cancellata dall’ultima riforma elettorale, l’unico freno per i politici a scelte impopolari è dettato dai dati del consensometro; ma, una informazione che funge da altoparlante dei proclami dei politici (in perfetto stile par condicio però) non permette di resistere a lungo contro i numerosi e ripetuti attacchi.
Un vantaggio risulta il rimanere concentrati su pochi, ma significativi punti. Non bisogna farsi prendere dall’essere movimento che esprime opinioni condivise anche su altri aspetti della realtà o della politica italiana, ma essere propositivi ed insieme intransigenti sul proprio motivo fondante e fondamentale.

5) Si è discusso molto sulla presunta “apoliticità” del movimento. E’ una lettura realistica e soddisfacente secondo te? Secondo te si tratta veramente di un movimento apolitico o forse è più che altro un movimento “apartitico”? Quali aspetti – se ve ne sono – ne determinano la “politicità”? Questo superamento delle tradizionali collocazioni – se c’è stato – ha aiutato il movimento a diffondersi o può essere una sua fonte di debolezza quando dalla protesta si passa alla proposta?

Guai se il movimento fosse apolitico. La Politica (con la maiuscola) è la ricerca del bene comune, ed in questo senso l’Onda mi pare fortemente un movimento Politico. Mi auguro rimanga apartitico, anche se è ovvio che se partiti volessero condividere le posizioni dell’Onda sono i benvenuti.

6) E’ condivisibile che si ricerchi un’intesa anche con organizzazioni studentesche esplicitamente di destra in nome dell’unità della protesta studentesca oppure no? La partecipazione di queste organizzazioni a manifestazioni pubbliche dovrebbe essere incoraggiata, tollerata, oppure concretamente osteggiata?

Il dialogo è alla base del confronto e del miglioramento. Tutti dovrebbero essere orientati al dialogo: un processo di ascolto e di interventi, di autocritica e di critica costruttiva che ha come obiettivo lo sviluppo, il miglioramento od eventualmente la modifica delle proprie idee. Durante una manifestazione bisogna portare una unica bandiera comune: il motivo della protesta. Chiunque si schiera dietro tale motivo è invitato.

7) Negli ultimi anni il nostro Paese è stato caratterizzato da una grande diffusione di movimenti (da quello no-global, ai girotondi, al movimento per la pace, alla battaglia sindacale per la difesa dell’articolo 18, alle vertenze territoriali come il No-Tav e No-Dal Molin, ecc.). Colpisce però la discrepanza tra la straordinaria capacità di mobilitazione, di fare “massa critica” anche ad un livello sociale e culturale diffuso, e la scarsissima “capitalizzazione politica” che ne è seguita. Oggi siamo addirittura l’unico Paese europeo a non avere una riconoscibile rappresentanza di sinistra nelle istituzioni rappresentative. Il problema dello “sbocco politico” è un problema che questo grande movimento nato nelle scuole e nelle università si deve porre? Oppure va privilegiata la totale “autonomia” del movimento? Quali rapporti possono essere instaurati con le forze politiche esistenti? E se quelle esistenti non offrono possibilità di un’interlocuzione soddisfacente, può essere utile e realistico porsi l’obiettivo di una organizzazione politica nuova, che superi anche i limiti del “modello partito” tradizionale, o più modestamente di liste elettorali di “società civile”, senza partiti, nelle diverse occasioni?
Insomma, il problema della rappresentanza è un problema che questo movimento – che si definisce “irrappresentabile” – dovrà prima o poi porsi?

Il “movimentismo” dal basso che in Italia stiamo sperimentando coincide con l’avvento della convinzione che è l’unico modo di rappresentare i propri interessi. L’assenza di sbocco politico è proprio intrinseca in questa motivazione: non sentiamo e non vediamo i politici in prima fila a difendere i nostri interessi e quindi siamo costretti a farlo noi. Qualcuno potrebbe pensare che alcuni politici astuti possano voler intercettare tali movimenti per accrescere il proprio consenso. Beh, dovrebbe far riflettere sulla salute del sistema politico il fatto che chi tenti di farlo siano solo pochi singoli.
Mi auguro che il problema di rappresentare gli interessi dell’Onda sia a carico dei politici: se alle elezioni si fosse discusso della riforma scolastica/universitaria anziché inflazionare ad hoc i problemi di sicurezza pubblica non avrei niente da recriminare al governo. Le persone votano in base a progetti.
Il progetto vinc
ente sia realizzato.
Probabilmente il sistema elettorale non verrà modificato entro le prossime elezioni (è troppo conveniente aver sostituito la responsabilità politica con la responsabilità partitica); di conseguenza le due coalizioni principali si confronteranno con urla e attacchi sulla base di programmi sostanzialmente identici e vuoti. In tal caso ritengo che l’Onda non possa che cercare di autorappresentarsi, ma i rischi ad esso connessi sono elevati: l’esperienza di Ferrara e la sua lista contro l’aborto dimostra che portare agli elettori una unica questione è una strategia perdente; d’altro canto diventare partito è quasi impensabile.

(28 novembre 2008)



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