Papa Luciani e la bimba in provetta
Alberto Melloni
, Corriere della Sera
La discussione sui bimbi in provetta riaccesasi in questi giorni attorno alla assegnazione del Nobel, potrebbe indurre molti a pensare che la Chiesa cattolica sia una Chiesa che o è «contro» ciò che per tanti è un dono o deve esserlo per adempiere la propria missione.
Contro il rischio che questo stereotipo del «no» si consolidi come una accusa o come un orgoglio val la pena di rileggere l’intervista di Albino Luciani. La consegnò ai primi d’agosto del 1978 alla rivista Prospettive nel mondo ed era dedicata alla «prima» bambina venuta al mondo con una fecondazione in vitro. Il futuro Giovanni Paolo I in questa specie di lettera augurale – che non venne pubblicata perché l’autore diventò papa e venne resa nota anni dopo la sua morte – argomentava con prudenza e a titolo personale, «in attesa di quanto l’autentico magistero» avrebbe dichiarato. Ma sviluppava quattro punti significativi per il loro ordine e la loro relazione interna.
Luciani condivideva «solo in parte l’entusiasmo di chi plaude al progresso della scienza e della tecnica»: cosa sarebbe accaduto quanto quella tecnica si fosse trovata davanti a «figli malformati? Lo scienziato non farà la figura dell’apprendista stregone che scatena forze poderose senza poi poterle arginare e dominare?». E inoltre, davanti al rischio di un «mercato dei figli» la famiglia e la società «non sarebbero state in gran regresso più che in progresso?».
Il futuro Papa, dunque, «in parte» sollevava dubbi che sotto Giovanni Paolo II si sarebbero distesi in una dottrina: ma non si fermava lì. Proseguiva col fare «a seguito di Dio, che vuole e ama la vita degli uomini, i più cordiali auguri alla bambina. Quanto ai suoi "genitori" non ho alcun diritto di condannarli: soggettivamente se hanno operato con retta intenzione e in buona fede essi possono avere perfino un gran merito davanti a Dio per quanto hanno deciso e chiesto ai medici di eseguire».
Il futuro pontefice esaminava la questione della liceità morale dell’accaduto, in linea col magistero di Pio XII (se l’atto medico facilita o continua l’atto coniugale è lecito, se lo sostituisce o lo esclude no).
E a chi negava si dovessero porre problemi morali alla scienza, l’allora patriarca scriveva in conclusione: «la morale non si occupa delle conquiste della scienza; si occupa delle azioni umane, mediante le quali le persone possono usare sia in bene sia in male delle conquiste scientifiche. Quanto alla coscienza individuale, siamo d’accordo: essa va sempre seguita, sia che comandi, sia che proibisca; l’individuo deve però sforzarsi di avere una coscienza ben formata. La coscienza, infatti, non ha il compito di creare la legge. Ha due altri compiti: di informarsi prima cosa dice la legge di Dio; di giudicare poi se c’è sintonia tra questa legge e una nostra determinata azione. In altre parole: la coscienza deve comandare all’uomo, non ubbidire all’uomo».
Come si vede un atteggiamento che sul piano dottrinale non era facilone: ma che teneva in gran conto la delicatezza delle situazioni, il valore della coscienza come tale, l’oggettività di una esistenza che, per quanto venuta al mondo in modo moralmente deprecato a rigor di magistero, non sfuggiva all’amore di Dio; e quell’amore attraeva le intenzioni della famiglia e perfino il ministero apostolico che nella magnanimità di Dio ha la sua misura. Non era una astuzia o un gesto di marketing, quello di Albino Luciani: era una forma di amore alla verità del ministero pastorale che forse dovrebbe essere tenuta nello stesso conto nel quale si tiene, giustamente, il ministero della verità.
(12 ottobre 2010)
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