Paradigmi Organizzativi, dal postmoderno al 2.0
Pierfranco Pellizzetti
moderna consiste nel prendere delle persone normali,
nell’istruirle a fondo in un settore limitato e nel riuscire,
grazie a un’adeguata organizzazione, a coordinare la
loro competenza con quella di altre persone ugualmente
normali. Ciò consente di fare a meno dei geni»[1]
John K. Galbraith
«Eserciti, chiese, università, ospedali, imprese
sindacati sono stati analizzati a lungo e in grande
dettaglio. Ma ciascuno è stato considerato unico
[…] Soltanto pochissimo tempo fa si è capito che
appartengono tutti alla stessa specie; che sono tutte
organizzazioni. L’ambiente creato dall’uomo»[2]
Peter F. Drucker
Karl E. Weick, Senso e significato nell’organizzazione, Cortina Editore, Milano 1997
Guido Martinotti, l’importante sociologo milanese scomparso nel 2012, vent’anni fa definiva lo sviluppo tecnologico come «nient’altro che l’applicazione di una grande intelligenza disciplinata da quella che è la vera scoperta della specie umana nel XX secolo: l’organizzazione»[3]. Una scoperta tardiva, tardivamente teorizzata.
Difatti – spiega Richard Sennet della London School – «durante il secolo e oltre che separa gli anni Sessanta dell’Ottocento dagli anni Settanta del Novecento le imprese hanno imparato l’arte della stabilità, assicurando la lunga durata delle attività economiche e aumentando il numero degli occupati. Non fu però il libero mercato a influenzare questo processo di stabilizzazione; un ruolo importante fu svolto invece dall’organizzazione interna delle imprese»[4].
Una forza potente che struttura le attività e – al tempo stesso – continua a mantenere un profilo vago, con un forte tasso di ambiguità. Già a partire dalla semantica al riguardo: “un ente sociale fondato sulla divisione del lavoro e delle competenze”, e pure “il modo con cui tale ente si presenta”, in tre modalità canoniche: lo strumento che coordina un aggregato di persone impegnate in attività comuni; l’obiettivo che si vuole raggiungere grazie a divisione e specializzazione delle attività; il processo che orienta l’attività collettiva in un contesto, tanto privato che pubblico.
Dunque l’ambiguità insita nella fenomenologia storica che impronta l’economicismo dell’ordine capitalistico – a partire dal suo soggetto dominante, l’impresa orientata al profitto – in quanto prescinde in maniera assoluta dalle logiche che contemporaneamente andavano a connotare il contesto sociale di riferimento: la contraddizione tra una società in via di inarrestabile democratizzazione, il cui motore economico si organizza secondo criteri autoritari; ma che – al tempo stesso – cerca di ammantare la propria essenza adottando retoriche di auto-comunicazione in linea con i valori accreditati dalla modellistica ortodossa a Occidente. La mimetica – ambigua – operazione volta a celare la propria dissintonia rispetto ai principi proclamati dal mainstream epocale: il carattere “ostinatamente” democratico/inclusivo del Moderno.
O – piuttosto – il bandolo per scorgere il cuore di tenebra dell’assetto emerso dalle rivoluzioni liberali settecentesche: la vera, intima, natura demofobica di un regime proprietario che depista con il proprio volto apparentemente benevolo le potenziali minacce insite nelle disuguaglianze; una volta che hanno assunto il profilo di “ceti pericolosi” per gli incubi nevrotizzanti dei “possidenti”.
D’altro canto – anche prima di essere teorizzati – i paradigmi di riferimento delle pratiche finalizzate alla gestione integrata di gruppi operativi si ispiravano a modelli autoritari e verticistici, come gli eserciti. Per poi adottare il criterio che veniva imponendosi nei grandi spazi nord-americani, al tempo dell’avventura che coinvolse masse umane in uno scopo unitario: l’epopea ferroviaria del decennio 1850-60. Che è anche l’apparizione dei “robber barons” (gli spregiudicati costruttori di imperi economici a costo di qualunque illegalità e sfruttamento), come vizio d’origine.
Scrive lo storico dell’economia Alfred D. Chandler junior: «quando le strade ferrate crebbero di lunghezza e svilupparono il loro volume di traffico aumentò il personale amministrativo e la struttura operativa dovette essere definita. L’attività riguardante la contabilità e la gestione del traffico divenne così estesa da richiedere uffici separati per la supervisione. Nello stesso periodo le mansioni collegate più direttamente con il movimento dei convogli e la manutenzione subirono un simile processo di dipartimentalizzazione». E poi aggiunge: «essendo le prime imprese private degli Stati Uniti dotate di moderne strutture amministrative, le ferrovie costituirono un utile precedente per lo sviluppo dell’organizzazione nell’epoca in cui le società crebbero fino ad avere dimensioni e complessità notevoli»[5]. Mentre comincia a operare la Mano Visibile del comando d’impresa, volto non solo a razionalizzare l’azienda, ma anche a plasmare a proprio uso le istituzioni sociali.
«Ma la novità complessiva più importante è che la direzione tradizionale basata sulla linea gerarchica di tipo militare viene sostituita da quella che Frederick Taylor chiama la direzione funzionale»[6], ossia la nascita della burocrazia di fabbrica, mentre prende forma la governance aziendale attorno al binomio strategia/struttura.
Ancora Chandler: «la struttura è costituita dallo schema atto ad armonizzare le risorse dell’impresa con la domanda corrente; la strategia è rappresentata dal piano per l’allocazione delle risorse in funzione della domanda prevista»[7].
La cultura organizzativa come calco dell’industria e – insieme – modellistica di recupero, che contrae debiti permanenti con il pensiero del tempo. Che nel XX secolo è stata chiamata ad affrontare la sfida dell’incertezza. Ossia la complessificazione a fronte della perdita di riferimenti certi, conseguente alle trasformazioni radicali nel passaggio dalla società tradizionale a quella industriale (urbanizzazione, industrializzazione, massificazione). Il trauma della presa d’atto che la verità È costruita e NON scoperta. Trauma da relativizzazione che l’epistemologia – da Rudolf Carnap a Ludwig Wittgenstein, a Karl Popper – affronta perseguendo certezze intersoggettive attraverso pratiche sociali condivise di giustificazione e controllo.
Per quanto riguarda le imprese, questo significa la constatazione della discontinuità che vanifica le previsioni lineari della prima industrializzazione; quando Henry Ford poteva dichiarare – lanciando il celebre Modello T, fulcro della motorizzazione di massa – che «il cliente riceverà l’auto nel colore gradito… se questo è il nero». La crisi del centralismo e delle standardizzazioni nella transizione postmoderna, esplorata da Ronald Inglehart: «lo stato burocratico, il partito politico ordinato e gerarchico, la catena di montaggio nella produzione di massa, la vecchia linea dell’unione operaia hanno giocato un ruolo molto importante nel mobilitare e organizzare le energie di massa della gente; hanno reso possibile la rivoluzione industriale e lo Stato moderno. Ma sono giunte a un punto di svolta per due ragioni: primo hanno raggiunto i limiti della loro efficienza funzionale, secondo stanno raggiungendo i limiti della loro accettabilità di massa»[8].
Fenomeno ulteriormente acuito nell’ultimo quarto del XX secolo dalla saturazione dei mercati che determinerà la volubilità di domanda e opzioni d’acquisto. Le cui dinamiche sono percepite con ben maggiore nitidezza e precisione dalle prime linee dell’organizzazione, rispetto alle informazioni di seconda mano che giungono al Top asserragliato nel Quartier Generale. Da qui la ricerca in generale di messa a fattor comune del patrimonio conoscitivo raccolto in tutte le pieghe dell’organizzazione.
Come spiegava Luciano Gallino, «un’organizzazione produttiva è un sistema cognitivo distribuito, tanto più complesso allorché abbia a che fare con la elaborazione e l’applicazione industriale di tecnologie avanzate. Le innumerevoli molecole di conoscenza esplicita e implicita che lo formano stanno nella memoria delle persone, pur nei casi in cui non ne sono consapevoli, sia negli archivi, dossier, classificatori, files di ogni reparto, divisione, officina o ufficio – non solo in quelli della direzione generale o del CdA»[9]. Ma anche la diffusione di uno spirito di appartenenza che favorisca queste transazioni interne. E la dimensione organizzativa assume una nuova funzione: la produzione di senso e significato. Il sensemaking.
Questa declinazione della svolta linguistica nella cultura organizzativa, come co-evoluzione continua tra il pre-riflessivo (senso) e il riflessivo (significato) si riferisce ai lavori dello psicologo sociale dell’Università del Michigan Karl Weick: il tentativo di abitare l’ambiguità attraverso la progettazione della realtà sociale. L’organizzazione come «un reticolo di significati intersoggettivamente condivisi che sono mantenuti attraverso lo sviluppo e l’uso di un linguaggio comune e l’interazione sociale quotidiana» [KW pag. 40]; il sensemaking come processo sociale.
Un’idea di invenzione permanente della realtà che alla fine degli anni Ottanta ha spinto il pensiero sull’impresa a estremizzare la teoria schumpeteriana della “distruzione creatrice” nel luna park del “caos sistemico” o “disorganizzazione creativa”. Elaborazione sempre a rischio di trovata consulenziale, alla ricerca di ricette aziendali per catturare un cliente sempre più inafferrabile. Valga per tutti il caso del guru del management Tom Peters che collezionava best-sellers e comparsate strapagate teorizzando la “distruzione delle cash cows”: i prodotti più redditizi che impigriscono dirigenze sedute sugli allori.[10] Tesi sul provocatorio estroso che ora ritroviamo nel consulente alla moda Nassim Talib e il suo antifragile (l’incertezza- come opportunità).
Di ben maggior spessore la riflessione di uno dei grandi irregolari del Novecento – Albert O. Hirschman – che con la “teoria della Voce” nella sua tripartizione (exit, voice, loyalty. Ossia, all’inverso: lealtà, defezione, protesta), intesa come qualità espressiva dei comportamenti, ha offerto infiniti spunti; tanto agli studiosi d’organizzazione e ai consulenti d’impresa, non meno che agli scienziati politici e agli statistici. La reazione/replica del consumatore/elettore nei confronti di una proposta. Tanto merceologica come elettorale. Il “ti compro/voto” come lealtà e “non ti compro/voto” come defezione; con in mezzo la protesta: Voice. «I clienti di un’azienda o i membri dell’organizzazione manifestano la propria insoddisfazione direttamente al management, a qualche altra autorità o con una generale protesta rivolta a chiunque sia disposto a prestarvi orecchio: è l’opzione-voce»[11].
Ossia il paradigma espressamente post-industriale de “l’impresa in ascolto”. Il cui massimo esempio – asceso a modello – è rappresentato dal post-fordismo toyotista. La Lean production de “La macchina che ha cambiato il mondo” (il modo di produrre Toyota), come il titolo di un best-seller che ha fatto conoscere alla pubblica opinione l’eccellenza giapponese; basata su un ribaltamento tardo-industrialista dei criteri produttivi, all’insegna tanto dell’innovazione quanto del recupero di valori pre-industriali. Come il comunitarismo.
Al crocevia di queste suggestioni troviamo il recentissimo saggio di Matteo Bonelli.
Che teorizza qualcosa di molto “lean”: «ridurre gli eccessi di burocrazia ‘umanizzando’ le organizzazioni, tramite scelte di decentramento, democratizzazione e responsabilizzazione» [MB pag. 121].
Il nostro autore è un giovane avvocato, collaboratore de ilSole24Ore, socio di uno dei maggiori studi legali italiani e figlio d’arte (suo padre Franco è stato un importante avvocato d’affari). Come talvolta accade ai bennati intelligenti e intellettualmente onesti, in bilico tra l’adesione ai valori della classe d’appartenenza e la sensazione di appartenere a un mondo al tramonto. Ragione e disillusione.
«In questa crisi abbiamo visto la conferma del declino dei modelli di governance prevalenti in occidente. Mentre sui modelli antifragili la partita tra occidente e oriente appare ancora aperta, sull’intelligenza distribuita basata sui dati e sulla governance del settore pubblico l’oriente appare in netto vantaggio» (MB pag. XV).
Da qui la volontà di puntare su un happy end tecnologico che altri testimoni del tempo interpretano in maniera radicalmente diversa. Difatti, per Bonelli «l’aspetto forse più interessante delle trasformazioni indotte dall’economia digitale è il passaggio da un modello organizzativo piramidale e chiuso a un modello orizzontale e aperto. La produzione di molte imprese di nuova generazione si avvale infatti della cooperazione di lavoratori autonomi e volontari, non di dipendenti e fornitori. Gli “autonomi” sono i milioni di affiliati alle piattaforme di affitti brevi, di noleggio con conducente, di car sharing, di vendita online, di lavoro occasionale, di consegna di merci, di apps per smartphone e tablet, di blockchain mining. I “volontari” sono i miliardi di utenti dei social network, dei blog, dei sistemi open source, delle recensioni di alberghi e ristoranti, dei sistemi peer-to-peer. […] La rivoluzione digitale ha dunque abbattuto una nuova frontiera, aprendo i modelli organizzativi alle “comunità” delle imprese digitali, senza imporre gerarchie, vincoli di orario e routine aziendali. Il governo di questi nuovi modelli aperti impone la rimodulazione della teoria dell’impresa con uno spostamento del suo baricentro verso la teoria dei mercati, dato che il gioco delle piattaforme digitali è sempre più simile al gioco dei mercati, in cui dominano i diritti di proprietà e la libertà d’impresa» (MB pag. 122)
Altri esprimono valutazioni assolutamente contrarie, denunciando l’esproprio in corso in materia di dati personali («[Google] aveva capito che l’esperienza umana poteva essere la materia prima estraibile gratuitamente on line»[13]); la svalutazione del lavoro nei lavoretti precarizzati della gig economy; il saccheggio speculativo delle nostre città d’arte a mezzo turismo mordi-e-fuggi («Le piattaforme digitali come Uber, Lyft e Airbnb stanno crescendo a ritmi incredibili, danneggiando interi settori industriali e sfidando le normative pubbliche. […] In risposta all’automazione su larga scala e alla deregulation generata dalla gig economy, alcune città stanno varando programmi pilota […] strategie per regolamentare Airbnb e Uber, richiedendo l’accesso ai dati e la trasparenza degli algoritmi in modo da far rispettare le leggi. […] Il futuro dell’economia della condivisione è incentrata sulla capacità delle città di assumere il controllo delle piattaforme digitali»[14]).
Per il nostro autore la condizione primaria per uscire dalla crisi-declino va ricercata nei criteri di regolazione: «personalmente ritengo che le regole siano la ragione principale, se non ultima, della prosperità o il declino di ogni organizzazione, privata o pubblica. Fino al punto di ritenere che, per usare le parole di Nassim Taleb, ‘con le giuste regole una manica di idioti produce un mercato efficiente’» [MB pag. 38]. In perfetta sintonia con il credo dei politologi à la page Daron Acemoglu e James A. Robinson, secondo i quali le nazioni falliscono o prosperano a seconda che si dotino di istituzioni “estrattive” (che sottraggono risorse alla società) o “inclusive” (incentivanti); che concentrano potere o si aprono al cambiamento[15].
Altri ritengono con Cornelius Castoriadis che la chiave di volta consista nel patrimonio valorial-culturale di una società: «il capitalismo ha potuto funzionare soltanto perché ha ereditato una serie di tipi antropologici che non ha creato e che non avrebbe potuto creare: giudici incorruttibili, funzionari integri, educatori che si consacrano alla loro vocazione, operai che hanno un minimo di coscienza professionale…[…]. Questi tipi non sorgono e non possono sorgere da soli. Sono stati creati in periodi storici anteriori, con riferimento a valori allora consacrati e incontestabili: l’onestà, il servizio dello Stato, la trasmissione del sapere, il lavoro ben fatto, ecc.»[16].
Infine, c’è la questione del rapporto tra pubblico e privato, su cui Bonelli non mostra tentennamenti: «sotto il profilo dell’efficienza non c’è dubbio che i modelli del settore privato siano migliori» [MB pag. 259].
Appurato che il suo testo è stato scritto prima della pandemia, potrebbe confermare tale affermazione dopo la lezione che ci è stata imposta dal Covid-19?
Una tra le tante questioni che la lettura di questo saggio offre alla riflessione critica del lettore; che ruotano ormai tutte attorno a una meta-questione: come organizzare la vita sociale in tutti i suoi aspetti – civili, economici e mediatici – dopo la profonda cesura rappresentata dal Coronavirus. Visto che – come ha recentemente dichiarato Noam Chomsky – «non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema».
[2] P. F. Drucker, La società post-capitalista, Sperling & Kupfer, Milano 1993 pag. 57
[3] G. Martinotti, introduzione a M. Castells, La nascita della società in rete, Bocconi Editore, Milano 2002 pag. XXVI
[4] R. Sennet, La cultura del nuovo capitalismo, il Mulino, Bologna 2006 pag. 20
[5] A. D. Chandler, Strategia e struttura, Angeli, Milano 1993 pag. 59
[6] G. Bonazzi, Storia del pensiero organizzativo, Angeli, Milano 1995 pag. 47
[7] A. D. Chandler, Strategia e struttura, cit. pag. 505
[8] R. Inglehart, La società postmoderna, Editori riuniti, Roma 1998 pag.48
[9] L. Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Einaudi, Torino 2003 pag. 75
[10] T. Peters, Liberation management, Sperling & Kupfer, Milano 1993 pag. 570
[11] A. O. Hirschman, Lealtà, defezione, protesta, Bompiani, Milano 1982 pag. 13
[12] M. Deaglio, prefazione a J.P. Womack, D.T. Jones e D. Roos, La macchina che ha cambiato il mondo, Rizzoli, Milano 1991 pag. XXII
[13] S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, LUISS, Roma 2019 pag. 111
[14]F. Bria ed E. Morozov, Ripensare la smart city, Codice, Torino 2018 pag. 125
[15] D. Acemoglu e J. A. Robinson, Perché le nazioni falliscono, il Saggiatore, Milano 2013
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