Pd, lo hijab non è questione privata
Lorella Zanardo
, da Il Fatto quotidiano, 15 giugno 2016
Alle elezioni comunali milanesi tra i candidati del Partito democratico si è presentata anche Sumaya Abdel Qader, sociologa musulmana di origine palestinese nata in Italia, che per scelta indossa lo hijab, quel velo che copre capo, collo e orecchie, considerato dai musulmani un simbolo di religione e femminilità. Il termine hijab significa “rendere invisibile, celare allo sguardo”. Da molti anni viaggio per studio e per interesse nel mondo islamico che amo e rispetto. Come attivista per i Diritti delle donne ho partecipato a convegni in Egitto e in Marocco, tra le poche donne occidentali invitate, con il pubblico composto da donne musulmane, alcune velate e alcune no, a dimostrazione del dibattito in corso in quei Paesi dove per alcune donne lo hijab, è una scelta, mentre per altre è un’imposizione maschile che non trova corrispondenza nel Corano.
Solo poche donne erano velate in Iraq nel 1996 quando girai il documentario L’Iraq tra le due guerre; sicuramente non lo erano le splendide insegnanti che tenevano aperte le scuole durante l’embargo e nemmeno le eroiche infermiere che facevano funzionare gli ospedali nonostante l’assoluta carenza di medicinali.
Non è velata la mia amica tunisina Kaouthar, sociologa, né la mia carissima amica egiziana Amani direttrice d’azienda, entrambe religiose. Non è velata nemmeno Umran di Istanbul che conosco da anni ma che ultimamente è molto preoccupata per come la laicissima Turchia di Atatürk – che aveva “liberato” le donne e concesso loro il voto nel 1934, dunque 12 anni prima che ottenessimo uguale diritto in Italia – sia stata sostituita dalla Turchia di Erdogan che lancia segnali inconfondibili sulla volontà di far tornare le donne a “compostezza e modestia”. E musulmana ma col capo scoperto è Maryam Ismail, antropologa italo-somala, anche lei militante nelle file del Pd.
“Il velo deve essere una libera scelta della donna”, ha dichiarato Sumaya Abdel Qader in una recente intervista a Repubblica.
Sul fatto che il velo sia una libera scelta, credo ci sia da riflettere. In nessun Paese al mondo, al di fuori del mondo musulmano, le donne “scelgono” di coprirsi né con lo hijab né tantomeno con il niqab o con il burqa: non in Cina, non in Australia, né in Europa. Il capo coperto e ancor più il volto coperto è una “scelta” all’interno di un sistema valoriale che “impone” direttamente o indirettamente alle donne di non rappresentare una tentazione per l’uomo e “premia” quelle che a questo sistema aderiscono.
Ben lo sappiamo noi donne italiane a quante “libertà di scelta” siamo state sottoposte per secoli. “Libere” di coprirci il capo con un velo; “libere” di restare illibate fino alle nozze; “libere” di non lavorare fuori casa; “libere” di accettare che un fratello coetaneo uscisse e noi restassimo in casa a guardare il mondo dalla finestra.
Apparentemente libere. Fondamentalmente obbligate ad accettare regole e imposizioni che noi non avevamo scelto, ma alle quali venivamo persuase ad aderire e dalle quali solo attraverso decenni di lotte per la conquista dei nostri diritti ci siamo emancipate.
Mi auguro che l’Italia si apra sempre più al confronto accogliendo donne e uomini provenienti da altri Paesi di diversi usi, costumi e religioni: accade già da tempo in molti altri Stati ed è un cambiamento che, se ben guidato, arricchisce profondamente la società.
Credo nel rispetto delle diversità e se una donna musulmana vorrà indossare lo hijab nella vita di tutti i giorni, una volta in occidente, ritengo debba poterlo indossare.
Ma credo fermamente al contempo che le conquiste ottenute con fatica ed enormi sacrifici vadano rispettate e onorate e che se si desidera occupare un posto nella gestione politica pubblica delle nostre città, lo si debba fare rispettando le lotte e le conquiste di noi donne italiane, onorandone anche i simboli più evidenti; come lo è il presentarsi, uomini e donne, a volto e a capo scoperto.
(16 giugno 2016)
A questi temi sono dedicati alcuni capitoli del libro di Paolo Flores d’Arcais "La guerra del Sacro – terrorismo, laicità e democrazia radicale", editore Cortina
MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.