Peccato originale: un problema umano, troppo umano

Mario Setta


Mario Setta (1936) ha frequentato teologia a Bologna. Ordinato sacerdote nel 1962 ha svolto attività pastorale a Roma come cappellano del lavoro nell’edilizia. Ha pubblicato “Cristo ha le mani sporche” (1967) sulla situazione degli operai a Roma, creando una casa di ospitalità per operai pendolari. Richiamato a Sulmona per dedicarsi alla zona di industrializzazione, è stato parroco a Badia di Sulmona. Laureato in Sociologia e Filosofia all’Università di Urbino, “sospeso a divinis”, ha insegnato Storia e Filosofia al Liceo Scientifico Statale “Fermi” di Sulmona, dove ha diretto il Laboratorio di Storia curando la pubblicazione delle seguenti opere: “E si divisero il pane che non c’era” (1995), “Il sentiero della libertà. Un libro della memoria con Carlo Azeglio Ciampi” (Laterza 2003), e le traduzioni delle memorie degli ex-prigionieri alleati del Campo dei prigionieri di guerra n. 78 a Sulmona. È cofondatore e primo presidente dell’associazione culturale “Il sentiero della libertà/Freedom Trail”, una Marcia Internazionale da Sulmona a Casoli, nata nel 2001 con la sollecitazione delle associazioni degli ex prigionieri di guerra alleati e il sostegno di Carlo Azeglio Ciampi che ne fu protagonista il 24 marzo 1944. Nominato Cavaliere della Repubblica nel 2003 dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, ha scritto un libro autobiografico dal titolo “Il volto scoperto” (2011) e in seguito un libro di critica teologico-poetica sul peccato originale dal titolo “HOMO, Elogio di Eva” (Qualevita, 2016) .



«Ma il Serpente disse alla Donna: “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che, quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male”. Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.» (Genesi 3, 4-7)

La Scrittura presenta due alberi: l’albero della vita e l’albero della conoscenza del bene e del male. Con le rispettive proibizioni. Per l’albero della conoscenza del bene e del male è scritto: "Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti" (Gen. 2, 16-17). Dopo questa proibizione fatta ad Adamo, il Signore crea gli animali e poi la donna: "Plasmò ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo… ma l’uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile. Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse: Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa. La si chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta" (Gen.2,19ss.).

Di fronte alla donna, Adamo resta affascinato. Trepida, si emoziona ed esprime poeticamente la sua soddisfazione. Nasce l’amore. La costola (in ebraico: tsela), con cui viene creata la donna, secondo molti interpreti, rappresenta il sesso maschile. Eva è quindi figlia-sorella-moglie di Adamo. La prima famiglia è, di fatto, una famiglia incestuosa, anche se solo in seguito l’incesto diventerà "tabù", "peccato". La narrazione biblica delle origini tende a legittimare la superiorità del maschio sulla femmina. Perfino nella terminologia, la parola donna sarà legata ad uomo: in ebraico: "’ishah", da ‘ish, uomo; come anche per l’inglese: "Wo-man", da man = uomo.

Entra in azione il Serpente, che rivolge la domanda alla donna: "È vero che Dio ha detto: non dovete mangiare di nessun albero del giardino?" (Gen. 3,1). A questa domanda accattivante, Eva risponde, precisando la proibizione: "Dei frutti degli alberi del giardino, noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete" (Gen.3, 2-3). Ma il serpente risponde, ribaltando il divieto: "Non morirete affatto. Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male" (Gen.3, 4-5). Eva vede che l’albero è bello, desiderabile. Quindi ne coglie il frutto, lo mangia e lo offre anche ad Adamo. In quel momento aprono gli occhi e scoprono la loro nudità.

Andando contro la proibizione, Adamo ed Eva imparano a conoscere il bene e il male. La tensione verso la conoscenza avviene su sollecitazione del serpente. Ascoltando il serpente, Eva ascolta se stessa, la sua intima natura, volta a scandagliare le profondità dell’animo umano.
Il gesto di Eva è in linea con la sua natura: l’affermazione della individualità umana. Nel momento della trasgressione all’ordine di un Dio-Padrone, Eva inizia la grande liberazione dalla sudditanza nei confronti della Divinità. Ribellandosi, la coppia Eva-Adamo si incammina verso la realizzazione umana completa, conformandosi all’immagine di Dio: "Ecco l’uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male" (Gen. 3, 21).

Erich Fromm scrive: “Questo primo atto di disobbedienza è l’inizio della storia umana, perché è l’inizio della libertà umana”. Non un peccato, quindi, ma il primo atto di liberazione. “È molto significativo – continua Fromm – che la Bibbia non definisca mai peccato l’atto di Adamo”. (Voi sarete come Dei, Ubaldini, Roma 1970).

Il serpente è metafora della conoscenza. Una figura dal significato enigmatico. Compare spesso anche in altri miti. A Delfi, in Grecia, fondata da Zeus, perché ritenuta il centro (ònfalo=ombelico) del mondo, vi si era nascosta la dea Terra (Ghé), protetta dal figlio, il serpente Pitone. Ad Atene, sul Partenone, la statua di Pallade, scolpita da Fidia, aveva come simbolo di protezione un serpente nello scudo. Nell’India dei Veda il dio Indra aveva la missione di uccidere Vrtra, un mostro in forma di serpente, che ostacolava il progresso umano.

Nelle teologie cristiane, queste parole presentano la più grande colpa, il peccato originale, commesso da Eva e subìto da tutte le generazioni. Una colpa che si tramanda di generazione in generazione e che riguarda tutto il genere umano.
Del concetto di “fede” già da tempo parecchi teologi hanno tentato di distinguerne due aspetti: la fede come elenco di verità dogmatiche (fides quae creditur), e la fede come tensione verso la Trascendenza (fides qua creditur). Purtroppo una simile distinzione non è ancora accettata dall’istituzione, che resta aggrappata alla fede espressa nelle parole del Credo. Un papa, che volesse rivedere o modificare qualche dogma, sarebbe ipso facto scomunicato. Fortunatamente, oggi, sembra esserci maggiore tolleranza e meno provvedimenti punitivi comminati dal diritto canonico.

La tematica del peccato originale è completamente assente nei Vangeli. Non viene mai citato né adombrato il concetto di redenzione. Se ne parla invece in vari passi delle lettere di S. Paolo (II Cor. 11.3; I Tim. 2.13; I Cor. 11, 7). Anche se il passo più significativo è nella lettera ai Romani (5,12). Ma è Agostino che svilupperà la concezione del peccato originale in maniera categorica tanto da diventare dogmatica, in quanto colpa non solo dei progenitori ma di tutto il genere umano, che solo il battesimo può eliminare. Per i bambini che muoiono senza battesimo c’è l’inferno, sia pure con una pena addolcita. Le parole di Agostino non permettono dubbi: “Si può perciò dire giustamente che i bambini che escono dal corpo senza il battesimo si troveranno nella dannazione, benché la più mite di tutte” (De peccatorum meritis et remissione et de baptismo parvulorum, I, 16.21).

Per Agostino il peccato originale è fondamentalmente la trasgressione, la disubbidienza all’ordine di Dio (colpa) e, come conseguenza, la pena della concupiscenza. “Quando dunque Adamo peccò non obbedendo a Dio, allora il suo corpo perse la grazia per la quale, pur essendo animale e mortale, obbediva completamente alla sua anima. Allora venne fuori quel movimento bestiale e vergognoso per gli uomini per il quale egli arrossì nella sua nudità” (De peccatorum meritis et remissione et de baptismo parvulorum, I, 16.21). La pena del peccato originale, per Agostino, resta la concupiscenza, la libido, come un retaggio pressoché impossibile da dominare. Appare, con evidenza lapalissiana, che Agostino, pur conoscendo di conoscenza biblica la donna, resta legato alla concezione maschilista del rapporto sessuale. Nato il 13 novembre del 354 ha un figlio nel 372, all’età di diciotto anni, da una donna che resterà sempre sconosciuta, e che chiamerà Adeodato. Arrivati a Milano, la compagna lo lascia per tornare in Africa. La madre, Monica, gli consiglia di prendersi una nuova ragazza, ma è troppo giovane e ne prende una più matura. Agostino non si sofferma a parlare di sessualità femminile, di orgasmo, come se la donna fosse solo l’oggetto di piacere per l’uomo, tanto da affermare: “quel piacere che è il più grande tra i piaceri del corpo” (De Civitate Dei, XIV,16). Nella sua opera autobiografica, “Le confessioni”, non cita mai i nomi delle sue donne. Un evidente misogino, anche se dichiarato santo e dottore della Chiesa. C’è anche chi parla di abbozzo agostiniano di psicologia della libido, trattandola come punizione, castigo di Dio per la colpa commessa. Bisognerà arrivare ai tempi nostri, alla psicanalisi e alla rivoluzione femminista (Psicoanalisi e femminismo di Juliet Mitchell), per tentare di capire la funzione della clitoride e della vagina nell’orgasmo femminile.

Con la ricerca psico-fisica del corpo umano, la leggenda del peccato originale tenderà a scomparire definitivamente. Contro la tesi di Agostino, già allora, si schierò il monaco della Britannia Pelagio e il suo discepolo Celestio. Nel 417 il papa Zosimo si dichiara favorevole alle tesi di Pelagio e Celestio, ma l’anno successivo, al concilio di Cartagine (418) che accoglie le tesi di Agostino, il papa ritratta, condividendo il documento antipelagiano.

Il caso più singolare di critica al peccato originale resta quello di Teilhard De Chardin, gesuita, scienziato, paleontologo, che lo affronta già nel 1920, tornandoci nel 1947 con uno scritto specifico, che fu subito censurato. E lo stesso Teilhard fu punito dalla sua comunità religiosa, i gesuiti, allontanato da Parigi e mandato in Cina. Teilhard De Chardin sostiene che “non esiste la minima traccia all’orizzonte, la minima cicatrice che indichi le rovine di un’età dell’oro o la nostra amputazione da un mondo migliore.” (Comment je crois, Seuil, Paris 1969).

Una recente analisi approfondita su Agostino e il peccato originale è quella di Luciano Cova, docente di Storia della filosofia medievale all’Università di Trieste, “Peccato originale, Agostino e il medioevo” (Il Mulino, Bologna 2014). Al capitolo terzo Cova esordisce con l’affermare: “Nascere colpevoli, rei ab exordio (De nuptiis et concupiscentia, I,33.56): qualunque sia stato il suo ruolo, come abbiamo visto controverso (cfr. cap.2, par. 1), nella genesi di questa idea in relazione al background patristico orientale e occidentale, Agostino certamente ne è perlomeno il grande sistematizzatore e da lui hanno preso avvio una precisa dottrina ma anche un modo di pensare che, attraverso il Medioevo latino e la Riforma protestante, ha influenzato profondamente la cultura europea” .

L’idea dogmatica del peccato originale sta alla base della struttura teologica, attraverso le tre tappe del processo naturale: – natura pura (in Paradiso); – natura decaduta (lapsa, dopo il peccato originale); – natura decaduta e riparata (lapsa reparata, con la salvezza operata dalla redenzione di Cristo). C’è una concezione pessimistica dell’Uomo alla base del “peccato originale”; espressione che oggi va sempre più trasformandosi in “peccato del mondo” (Ligier, Schoonenberg), secondo cui l’eredità del peccato non risale ad un’unica trasgressione, ma ad una massa indefinita di peccati, che interagiscono nel corso del tempo (cfr. André-Marie Dubarle, “Il peccato originale, prospettive teologiche”). In sintesi è la classica concezione dell’uomo naturaliter cattivo, a causa del male umano. Una concezione pessimistica e spregiativa, che permea da sempre la weltanschauung dell’uomo e del mondo.

Con questa visione si è creato un Cristianesimo imprigionato nelle strutture ecclesiastiche che offrono ai loro fedeli grazia e salvezza, mediante i sacramenti, tradendo in questo modo il messaggio universale di Cristo. Cristo si è rivolto agli uomini. Tutti, non ad alcuni soltanto. Il superamento dello scoglio del peccato originale minerebbe certamente la concezione della storia della salvezza, ma ridarebbe alla missione di Cristo il suo valore profondo e autentico: l’esemplarità umana. Cristo non è venuto per redimere da una colpa mai esistita, ma per elevare la natura umana al suo grado più alto. Cristo, modello universale di HOMO: “Homo Homini Deus”. La teologia sacramentaria non ha, oggettivamente, nessun fondamento evangelico, ma si riduce essenzialmente alla ritualità, ad una sociologia religiosa basata sui bisogni umani. Una teatralizzazione della vita, lontana dalle domande e risposte esistenziali.

La parola redenzione deriva dal verbo “redímere”, anche in latino “redímere” da red– (= di nuovo) ed “ímere” per “émere” (comprare). Significa quindi ricomprare ciò che è stato venduto. Nei Vangeli questo verbo non viene mai usato. Esiste però la parola “Redenzione” che si trova solo nel Vangelo di Luca in due passi: l’uno (2.38) in cui la profetessa Anna, durante la presentazione di Gesù-bambino al tempio,“si mise a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme”; l’altro, verso la fine (21.28), quando si parla di catastrofi cosmiche e manifestazione del figlio dell’uomo glorioso: “Quando cominceranno ad accadere queste cose, alzatevi e levate il capo, perché la vostra redenzione è vicina”.

Nel “Dizionario di teologia dommatica” a cura di Parente-Piolanti-Garofalo è scritto: «Redenzione significava anticamente riscatto, quindi liberazione d’uno schiavo o d’una cosa vincolata mediante un pagamento. […] L’uomo peccando ha offeso Dio e si è reso schiavo del peccato e del demonio che gliel’ha suggerito… Cristo Redentore si sostituisce a noi e ci redime con tutta la sua vita terrena, specialmente in forza della sua morte, sacrificio espiatorio, con efficacia fisico-morale. […] Cristo sborsa il suo sangue a Satana per liberare l’uomo dalla sua tirannia». (Parente-Piolanti-Garofalo, Dizionario di teologia Dogmatica, Studium, Roma)

La centralità del peccato originale nella struttura dogmatica del Cristianesimo appare come un principio fondamentale, impossibile da superare. Un ostacolo su cui ci si imbatte e si resta disarmati. Ed è strano come una simile invenzione, una falsità, che non ha fondamento se non mitologico, abbia potuto resistere fino ad oggi, senza sollevare dubbi.

Se si pensa ai miliardi di esseri umani vissuti prima della venuta di Cristo e ai miliardi che non lo hanno conosciuto e non sono stati battezzati, si dovrebbe dedurre che sono tutti dannati. Un Cristianesimo così disumano e anticristiano sembra proprio inconcepibile.

Fortunatamente l’interpretazione agostiniana risulta insostenibile dal punto di vista filologico ed esegetico; una ipoteca da cancellare, proponendo un Cristianesimo liberato dal dogma del peccato originale. Purtroppo, la concezione agostiniana è rimasta sostanzialmente immutata, passando dal concilio di Cartagine a quello di Orange (589) fino al Concilio di Trento (17 giugno 1546). Perfino il Concilio Vaticano II, pur evitando di trattare espressamente questioni dogmatiche, ne ribadisce la dottrina: “Quel che ci viene manifestato dalla Rivelazione divina, concorda con la stessa esperienza. Infatti se l’uomo guarda dentro al suo cuore si scopre anche inclinato al male e immerso in tante miserie…” (Gaudium et Spes, n.13).

Una serie di posizioni in contrasto con la linea dogmatica delle chiese-istituzioni sembra ora montare come un terremoto ideologico, che ribalta l’antica interpretazione per fare di Eva il modello dell’umanità, liberata dalle catene d’un Eden mai esistito. È noto come sia stato per primo Erich Fromm a parlare del gesto di Eva come gesto di libertà e con lui, Margherita Hack: “La colpa di Eva è stata quella di voler conoscere, sperimentare, indagare con le proprie forze le leggi che regolano l’universo, la terra, il proprio corpo, di rifiutare l’insegnamento calato dall’alto; in una parola Eva rappresenta la curiosità della scienza contro la passiva accettazione della fede”. E Paul Ricoeur: “Non si dirà mai abbastanza quanto male ha fatto alle anime, durante secoli di cristianesimo, l’interpretazione letterale della storia di Adamo”.

E ancora: “insulto alla vita” (Mancuso), “dottrina di cui dobbiamo assolutamente liberarci” (Delumeau), “qualcosa di perverso” (Maggi) “dottrina inesistente nel Vecchio Testamento” (Haag), “disobbedienza mai esistita” (Castillo), “dottrina devastante” (Fox), “priva di fondamento l’accusa di un’offesa a Dio” (Valerio).

Già Immanuel Kant, il grande filosofo tedesco, riteneva “sconveniente” l’idea che il male ci venga per eredità dai nostri progenitori. Anzi col gesto di Eva nasce la filosofia, l’amore del sapere. E Schelling scrive: “lo scopo ultimo della storia umana, tutta intera, è che tutte le realtà umane ritornino all’universale sovranità della ragione”

Lo storico cattolico, Jean Delumeau, scrive: « L’espressione “peccato originale” racchiude ancora troppo spesso il tanfo di una dottrina di cui dobbiamo assolutamente liberarci e che si è costituita partendo dall’identificazione, storicamente insostenibile, di Adamo con il primo uomo».

Per il teologo Vito Mancuso, la teologia si deve liberare dalla prigionia della storia. La narrazione del peccato originale non dovrebbe essere intesa come verità storica, ma come rappresentazione mitica, dal momento che il mito è più vero della storia. Il serpente è solo un simbolo: il simbolo dell’ambiguità, tra bene e male, tra intelligenza e astuzia. “Il serpente è dentro di noi”, scrive Mancuso e continua: “Il serpente è la vita, è questa irrefrenabile voglia di vivere… In molte lingue semitiche del tempo il serpente veniva chiamato Hawwah, come il nome della prima donna: Eva. Il serpente e la donna, pur essendo due personaggi distinti, si appartengono l’un l’altro, appartengono allo stesso ambito primordiale della vita… È lui, dopo tutto il vincitore: la sua impresa tentatrice è riuscita alla perfezione; anzi riesce ogni giorno”.
È evidente, razionalmente, che una simile posizione non possa essere ritenuta “ortodossa”come quella dei tanti teologi che hanno contestato la “storicità” del racconto delle origini, alla luce del fatto che la Commissione Biblica (30.6.1909), durante il pontificato di Pio X, condanna l’affermazione: Praedicta tria capita Geneseos contenere non rerum vere gestarum narrationes, quae scilicet obiectivae realitati et historicae veritati respondeant; sed vel fabulosa ex veterum populorum mythologiis et cosmogoniis deprompta et ab autore sacro, expurgata quovis politeismi errore, doctrinae monotheisticae accomodata. (Denzinger, Enchiridion Symbolorum: 102, 109a, 174, 175, 200, 316, 428, 787, 1309, 536).
Su questa linea di rigore dogmatico è stato condannato con la scomunica il teologo cattolico Tissa Balasuriya, sacerdote degli Oblati di Maria dello Sri Lanka. Il 5 gennaio 1997 su “L’Osservatore Romano” è apparsa la notizia della scomunica e il 24 gennaio dello stesso anno, l’allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, Joseph Ratzinger, affermava che la scomunica dipendeva dal fatto che il teologo Balasuriya sosteneva che “il peccato originale è stato inventato dal clero per poter esercitare potere sulle anime dei fedeli”.
Eppure lo stesso Ratzinger aveva sostenuto che era impensabile un Dio Misericordioso, che per “redimere” l’Umanità, avesse preteso il sacrificio cruento del Figlio. Una nuova riflessione teologica sul peccato originale diventava indispensabile.

Nel libro Mary and Human Liberation, Balasuriya scrive: “Il mito non deve essere preso alla lettera come se fosse storicamente reale…. Molto dipende dall’interpretazione data ad esso e al suo messaggio sulle realtà ultime. […] È necessario esercitare un giudizio critico sulla evoluzione del mito (o dal mito) all’interno dell’insegnamento religioso e, in un secondo tempo, perfino nel dogma stabilito dalla Chiesa cattolica. […] La storia di Adamo ed Eva è stata il fondamento di un’ideologia di dominazione maschile.”
Che, nei primi capitoli della Genesi, si sovrappongano diverse redazioni è stato da tempo evidenziato dagli esegeti ed è un dato incontrovertibile. Ma, prescindendo dall’esegesi, si può ritenere, sotto il profilo psicanalitico, che quella prima ribellione è stata anche la prima affermazione dell’autonomia umana.
Con il gusto dello humour anglosassone, Mark Twain ha scritto: “Mi accorsi che al principio mi ero ingannato sul conto di Eva. È meglio vivere fuori del Giardino con Lei che nel Giardino senza di Lei”. Eppure non è sufficiente. Non è ancora tutto. Conoscere non è ancora vivere, anche se ne è il primo passo. Socrate, ricordando la massima scritta sul tempio di Delfi “Conosci te stesso", affermava che "una vita senza esame non è degna di essere vissuta". La conoscenza deve scoprire il mistero della vita. Mistero nascosto nell’altro albero proibito, l’albero della vita, di cui nella Bibbia è scritto: "Ora egli non stenda più la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva sempre!" (Gen. 3,22). Per impedire tale violazione, Dio rafforza la sorveglianza: "Pose ad oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada folgorante." (Gen.3.24). A tutt’oggi nessuna Eva e nessun Adamo è stato capace di cogliere il frutto dell’Albero della vita. Scoprire il mistero dell’Albero della vita è scoprire il senso della vita: sconfiggere il male, il dolore, la morte.
“Noi non siamo nel peccato soltanto perché abbiamo mangiato dall’Albero della Conoscenza, ma anche perché non abbiamo mangiato dall’Albero della Vita. Peccaminoso è lo stato in cui ci troviamo, indipendentemente dalla colpa.” (Kafka, F., Aforismi di Zürau, Adelphi, Milano).

Secondo l’Apocalisse, la profezia si avvererà: "In mezzo alla piazza della città… si trova un albero della vita che dà dodici raccolti e produce frutti ogni mese; le foglie dell’albero servono a guarire le nazioni. E non vi sarà più maledizione… " (Apoc. 22,2-5).
Nietzsche dà al serpente un ruolo di importanza capitale per sciogliere l’enigma più difficile della sua filosofia: l’eterno ritorno dell’uguale. Sfidare il serpente significa accettare la vita, amare l’attimo presente per se stesso. Di fronte alla visione macabra d’un pastore col serpente in bocca, Zarathustra grida: “Mordi, staccagli il capo”. Il pastore morde e sputa lontano la testa del serpente, balzando in piedi. “Non più pastore, non più uomo – scrive Nietzsche – un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva. Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise…[…] Il resistere, il far fronte, al pensiero dell’Eterno Ritorno porta al mutamento decisivo dell’esistenza, porta alla trasformazione di ciò che è serio e pesante in leggerezza, nella sovrumana leggerezza della risata.”
Chissà che non sia giunto il tempo giusto, quel kairòs, in cui un vicario di Cristo possa rileggere e reinterpretare evangelicamente la Parola di Dio. Una Parola che affermi come Cristo, Figlio di Dio e Figlio dell’Uomo, si rivolga a tutti gli uomini, indistintamente, per la salvezza di tutti, battezzati o no, disposti ad accogliere il suo messaggio e la sua testimonianza per l’universale comunità umana. Una comunità chiamata ad elevare la propria natura al suo più alto grado. Sul suo esempio di vita: Cristo-Uomo, Cristianesimo-Umanesimo. Una vita fondata sull’Amore e che nell’Amore ha la sua unica legge universale, eterna: “Amatevi gli uni e gli altri”.

La rivoluzione femminista del ‘900 è stata in linea con il mito della donna-liberatrice. Si sono verificate anche gesti di esasperazione, dal momento che la donna non sembra tollerare le mezze misure. Basterà ricordare le molte opere scritte dalle femministe. Tra queste, una delle più stravaganti è stata scritta da Valerie Solanas, amica di Andy Warhol, col titolo: “S.C.U.M., manifesto per l’eliminazione dei maschi”.

Oggi, il panorama sembra completamente cambiato. L’essere è stato sconfitto dall’apparire. Ha vinto la donna-oggetto: donne omologate, imprigionate, schiavizzate dal mercato, ridotte a “veline” e “vallette” dalla cosiddetta rivoluzione mediatica. Ma se si offende la dignità della Donna, si distrugge la parte migliore dell’umanità.

Ho scritto un libro dal titolo “HOMO, Elogio di Eva” (Qualevita, 2016) in cui cerco di affrontare il dogma del peccato originale, tentando di dimostrarne la falsità e l’abnormità teologica. Un libro, che ho inviato a papa Francesco, che ha risposto tramite la Segreteria di Stato di averlo ricevuto e al vescovo diocesano Angelo Spina, che ha risposto con una cortese lettera autografa in cui scrive: “Rispetto le tue idee, che certamente non condivido. Io non ho una verità da possedere, ma semplicemente sono posseduto dalla verità che mi ha liberato, salvato dal mio peccato, non con discorsi ma con il suo sacrificio, con il suo sangue versato sulla croce, con la sua redenzione”.

Da questa corrispondenza non emerge nessuna condanna e nessuna minaccia di scomunica per il sottoscritto, per ora solo “sospeso a divinis”. Dalla risposta del vescovo Spina si desume che nella Chiesa-istituzione spira aria di tolleranza, di apertura alle concezioni più avanzate, quelle di una visione cristiana fondata sull’ottimismo, anche se ancora molto utopistica, in contrasto alla concezione pessimistica dell’uomo naturaliter malvagio.

(3 marzo 2020)





MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.