Pedofilia, don Cantini condannato dal tribunale religioso ma non dalla magistratura
Una notizia di qualche giorno fa è passata quasi sotto silenzio. Riguarda don Lelio Cantini, un parroco dell’arcidiocesi di Firenze, condannato, su ordine di Benedetto XVI, a due pene: la «sospensione a divinis» e la «dimora vigilata». Il motivo? È stato riconosciuto colpevole di «abuso plurimo e aggravato nei confronti di minori, delitto di sollecitazione a rapporti sessuali compiuto nei confronti di più persone in occasione della Confessione, abuso nell’esercizio della potestà ecclesiastica nella formazione delle coscienze». Così recita il dispositivo della sentenza messo a punto dalla Congregazione per la dottrina della fede, dopo un’indagine istruttoria eseguita da una sua apposita commissione. Dunque da un tribunale religioso, non statale, e che ha lavorato in applicazione non del diritto civile e penale italiano, ma del diritto canonico.
Ora, tra i problemi che emergono ne enunciamo alcuni.
– La sentenza accenna a reati plurimi e aggravati di pedofilia (una parola non a caso accuratamente evitata). Ma quali sono nella loro concretezza? Quanti sono? A danno di quanti minori sono stati commessi? E di minori di quale età e di quale sesso? Nulla di preciso emerge dalla sentenza pubblicata dalla stampa. Si sa per vie traverse che si è trattato di adolescenti dai dieci anni in su, forse circa una ventina, di ambedue i sessi, plagiati e stuprati in vari modi dal prete pedofilo. Ad “Annozero”, una signora fiorentina ha raccontato la sua storia orripilante di bambina costretta dal prete anche a rapporti orali, poi spinta ogni volta ad ammettere in confessione di essere una «puttana» per ottenere l’assoluzione. Pratica pedofila plurima che si è prolungata in segreto nelle sale parrocchiali per ben oltre 14 anni, dal 1973 al 1987 e dopo. La domanda è: poiché il prete e le vittime sono cittadini italiani, e poiché siamo in uno Stato laico di diritto, le motivazioni analitiche della sentenza ecclesiastica non dovrebbero essere di pubblico dominio, e comunque a disposizione di tutti coloro che ne fanno richiesta? E poi, data la gravità dei reati e l’obbligatorietà dell’azione penale prevista nel nostro ordinamento giuridico, non spetta alla magistratura ordinaria italiana intervenire con rapidità sul «caso», a tutela dei diritti delle vittime, e per punire in modo esemplare il colpevole?
– Il tribunale ecclesiastico ha ridotto il prete allo stato laicale: era un prete, e la Chiesa di cui era prete poteva spretarlo per indegnità morale, o per aver abusato del sacramento della confessione. Bisogna dire che don Cantini, il cui «caso» è esploso solo nel 2004, su denuncia dei parrocchiani, era stato già inquisito dall’arcivescovo di Firenze Ennio Antonelli, nel 2007, e condannato a pene di una mitezza sconcertante: non dire messa in pubblico e fare penitenza, recitando miserere e mea culpa per 5 anni. L’attuale sospensione a divinis è una pena più grave, ma sempre dello stesso ordine.
– La sentenza canonica di condanna, controfirmata da Benedetto XVI, implica però una seconda pena: la «dimora vigilata», o residenza coatta: il prete pedofilo non può abbandonare il Convitto ecclesiastico fiorentino, dove è ricoverato per motivi di salute, altrimenti verrebbe colpito da scomunica (nonostante i gravi reati, fa dunque ancora parte della comunione, o comunità cattolica). Domanda: può un tribunale religioso, non statale e non riconosciuto dallo Stato, applicare misure di restrizione della libertà personale ad un cittadino italiano (come don Cantini era e continua ad essere)? Non è questo un caso lampante di sovrapposizione della giurisdizione ecclesiastica a quella statale? E non lede tale sovrapposizione la sovranità e l’indipendenza dello Stato dalla Chiesa? A meno che non si supponga che il nostro personaggio sia l’incarnazione del «cavaliere dimezzato» di Calvino, o possa sdoppiarsi in due, in don Lelio da un lato e il signor Cantini dall’altro: don Lelio, sia pure non più don, rimane in Convitto, in dimora vigilata, a recitare preghiere di penitenza per i suoi peccati; il signor Cantini invece se ne esce, per andare in giro per le strade e i locali di Firenze alla ricerca di nuove avventure (cosa da ritenersi peraltro improbabile, dato che è oramai ultraottantenne e malato). Che le misure canoniche di restrizione della libertà del prete fiorentino siano ineffettuali, simboliche, astratte, non coinvolgendo nel controllo dei suoi movimenti polizia e carabinieri, di cui il papa, capo di Stato straniero, non dispone in Italia, non incide di una virgola sulla questione di principio.
La procura di Firenze, a quanto si legge, aveva aperto nel 2005 un fascicolo sul «caso», per accertare la verità fattuale. All’autore delle azioni criminose, oggi già accertate e sanzionate dalla Congregazione pontificia, non dovrebbe la magistratura italiana, pur nello spirito di clemenza doverosa per un uomo oramai anziano e malato, comminare le pene previste dal nostro codice penale? I laici e i democratici d’Italia confidano nell’opera degli organi giudiziari dello Stato. E attendono. Persuasi che l’autonomia e la laicità dello Stato vanno difese sempre, ovunque, e contro chiunque.
Compresi i preti (se delinquono) e la Chiesa (quando non sta al suo posto).
Michele Martelli
(23 ottobre 2008)
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