Pelosi: “Pasolini morto per un complotto”
di Claudio Marincola, da Il Messaggero, 23 Luglio 2008
«La prima volta che lo vidi fu al chiosco di Piazza dei Cinquecento. Fu lui ad avvicinarmi, io non sapevo chi fosse. Scese dalla macchina, entrò nel bar, mi offrì qualcosa da bere. Che si trattava di Pasolini me lo dissero soltanto dopo gli amici che stavano fuori e ci videro parlare. Ma lo sai che quello è uno famoso – mi dissero – lo sai che con quello se possono fa’ ’n sacco de soldi?».
L’idea di tendere allo scrittore un tranello nacque così, dieci giorni prima della mattanza, l’assassinio all’Idroscalo di Ostia la notte tra il 1° e il 2 novembre del 1975.
Inizia così il racconto di un complotto finito nel sangue. L’ennesimo pezzo di verità rivelata goccia a goccia, visto il numero di confessioni, ritrattazioni, dettagli, precisazioni, erogati gratis e più spesso a pagamento. Un complotto con un solo colpevole: Pino Pelosi.
Stavolta però Pino, detto “la rana”, ormai 50enne, sembra aver imboccato il percorso finale. Ha un lavoro, una situazione affettiva stabile, un tetto. E lui stesso vuole vederci chiaro sulla notte che cambiò la sua vita: «Capii che i fratelli Borsellino stavano tramando qualcosa ma non volli partecipare. “Voi fate come ve pare, non ne vojo sape’ niente”, gli dissi».
Pelosi è andato di recente a trovare la madre dei due fratelli. È tornato insomma sui luoghi della sua infanzia. Vuole scrivere un altro libro, il primo (“L’Angelo nero”) lo scrisse diversi anni fa ed è una sorta di autobiografia.
Pino ha raccontato la sua versione “definitiva” in presenza di un avvocato romano dopo aver ricostruito fatti accaduti 33 anni fa. Ha incontrato gli amici di ieri, quelli cresciuti all’ombra di palazzoni dell’Ina Casa.
Rovistato nei suoi vent’anni di corrispondenze carcerarie, illuminato le zone d’ombra. «La linea difensiva, l’idea di prendermi tutta la colpa, fu del mio avvocato di allora Rocco Mangia. Mi disse che ero minorenne e così sarei riuscito a ottenere una pena ridotta. Se c’era qualcos’altro dietro, io non lo so. Così come non so chi mi raggiunse all’Idroscalo».
La verità è una parola che nel caso-Pasolini si può pronunciare solo col beneficio dell’inventario. Al massimo ci si può avvicinare prendendo per buone le ultime parole di Pino, quelle alle quali si può dare un preciso riscontro. La notte dell’omicidio non era solo, come si scrisse chiaramente nella sentenza di primo grado del Tribunale dei minorenni di Roma presieduto da Alfred Carlo Moro, il fratello del presidente della Dc, e come lui stesso rivelò per la prima volta in tv a Franca Leusini. Fu seguito prima al ristorante “Biondo Tevere”, dalle parti della Basilica di San Paolo, e poi all’Idroscalo da una motocicletta e infine raggiunto da una macchina blu (qualcuno parlò di una 1100 targata Catania).Dopo essere salito a bordo dell’Alfa 2000 Gt metallizzata di Pasolini si fece riaccompagnare per dare agli amici la chiave della sua 850 coupé.
Un’auto ovviamente rubata e alla quale era stata cambiata la targa. «Con Pasolini ci dovevamo vedere già la sera prima ma lui passò in Piazza dei Cinquecento, abbassò il finestrino e mi disse che non poteva, che ci saremmo visti il giorno dopo». Tra gli amici di Pelosi, alcuni, come Claudio Seminara, Adolfo De Stefanis e Salvatore Deidda, risultarono del tutto estranei all’aggressione. Oggi hanno messo su famiglia, hanno vite del tutto normali e tornano malvolentieri a parlare di quella dannatissima notte che sfiorò le loro esistenze. Altri non ci sono più, inghiottiti dalla droga e dall’Aids, come i fratelli Franco e Giuseppe Borsellino, che già a quei tempi facevano uso di anfetamine e stimolanti. Oppure sono in carcere come Giuseppe Mastini, detto Johnny lo zingaro, che sta scontando l’ergastolo. Tutt’e tre, i due fratelli e Johnny, furono coinvolti nell’omicidio di Pasolini per essersene vantati in presenza di orecchie indiscrete. Un modo per accampare benerenze negli ambienti della malavita.
I primi due, che all’epoca avevano 15 e 16 anni, confessarono il presunto delitto ad un infiltrato dei carabinieri per convincerlo a recrutarli in un sequestro di persona. Finirono in carcere ma poi ritrattarono e tornarono liberi. In pratica si credette a loro e non al carabiniere, uno dei tanti misteri di un’inchiesta piena di buchi come ha documentato Marco Tullio Giordana nel film “Un delitto italiano”.
Johnny, che sta scontando due omicidi ed è già evaso tre volte, una delle quali dall’isola di Pianosa, è l’unico ancora in vita. Conobbe Pelosi nel carcere minorile di Casal del Marmo. Pino ha lo ha sempre scagionato, «lui non c’era, come devo ripeterlo?».
L’omicidio di una baby gang? Delitto politico premeditato? Le parole di Pelosi aprono nuovi scenari. Nei giorni trascorsi tra il primo incontro e l’ultimo con Pasolini sarebbe stato organizzato il complotto. Pelosi avrebbe fatto (involontariamente, lui dice) da esca. Va da sé che nell’ambiente delle borgate e delle periferie, e dunque del Tiburtino, all’epoca si poteva trovare di tutto. Il clima politico era incandescente. Il punto di incontro era una bisca camuffata da circolo monarchico. Le sedi di zona dell’Msi venivano attaccate a colpi di caterpillar. Gli studenti di destra e di sinistra cadevano colpiti a morte per le strade di Roma. E le verità scomode di Pasolini, intento a scrivere la bozza di “Petrolio”, stavano sullo stomaco a molti.
Per far luce sulla morte dello scrittore di Casarsa il Comune di Roma, in occasione del trentennale, dunque tre anni fa, si costituì “parte offesa” chiedendo la riapertura delle indagini. L’ex procuratore Italo Ormanni sentì Pelosi. Tutto finì lì. E nessuno in tutti questi anni ha pensato di effettuare nuove indagini sui corpi del reato custoditi in uno scatolone al Museo criminologico di Roma. La tavoletta di legno che servì per colpire il poeta, gli occhiali, l’anello, il pettinino, e soprattutto il plantare repertati senza alcuna protezione, maneggiati e rimaneggiati. Un mistero che sin dall’inizio doveva rimanere un mistero.
(23 luglio 2008)
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