Per il Papa il suicidio di Noa è eutanasia: ipse dixit

Carlo Troilo

Ora che si avvicina lo scadere dello “ultimatum” dato al Parlamento dalla Corte Costituzionale (dire il 24 settembre, con l’estate di mezzo, è come dire domani) perché legiferi sulla legalizzazione della eutanasia, il mondo clericale ha cominciato a sparare a palle incatenate per difendere “la sacralità della vita”.

Al Papa (che non perde occasione per demonizzare eutanasia ed aborto) fanno eco i Vescovi, con il loro quotidiano “Avvenire” ed i vari esponenti di un clericalismo che tanto più diviene aggressivo quanto più la società italiana diviene laica e le Chiese si vuotano.
L’ultima operazione di vero e proprio terrorismo ha riguardato la dolorosa vicenda di Ola, la diciassettenne olandese che ha scelto di lasciarsi morire. Negare che si è trattato di suicidio e non di eutanasia ha richiesto una buona dose di sfacciataggine. Riporto quanto dichiarato dai dirigenti della Associazione Coscioni, Filomena Gallo e Marco Cappato, perché smentisce questa falsità e al tempo stesso spiega che la legge in discussione (si fa per dire!) alla Camera non consente la richiesta di eutanasia per i minori. Hanno detto Cappato e Gallo:
“Nel 2018 le commissioni olandesi hanno rigettato la richiesta di eutanasia avanzata da Noa, tanto che lei dichiarò: “La domanda è stata rifiutata perché sono troppo giovane e avrei dovuto prima affrontare un percorso di recupero dal trauma psichico fino ad almeno 21 anni“;
Noa aveva interrotto nutrizione e idratazione, lasciandosi di fatto morire, possibilità contemplata anche in Italia dove qualsiasi persona che rifiuta nutrimento e idratazione non può essere costretta da alcuna autorità all’idratazione e nutrizione forzata, a meno di Trattamento Sanitario Obbligatorio su persona incapace di intendere e di volere.

È bene comunque ricordare – hanno aggiunto Gallo e Cappato – che le proposte di legge in discussione nel Parlamento italiano prevedono la possibilità di accesso al percorso eutanasico solo per le persone maggiorenni e portatrici di malattie fisiche terminali o inguaribili”.

Ma torno alla campagna contro “la morte degna”.
Solo un accenno (ma significativo) agli eccessi di un noto giornalista come Marcello Veneziani che su “Panorama” – dopo essersi chiesto se in Olanda non vi sia un nesso fra le tante libertà concesse e le origini protestanti di quel Paese (ovvio che c’è, beati loro!) – arriva a rilevare una analogia “fra le nuove prassi mortuarie e lo smaltimento dei rifiuti” (torna “la cultura dello scarto” tanto cara a Papa Bergoglio).
Mi soffermo invece sulla serie di articoli di Assuntina Morresi, editorialista del giornale dei Vescovi “Avvenire”, non a caso e per diversi anni consulente scientifica di uno degli esponenti politici con le più forti tendenze clericali come Maurizio Sacconi. Le rispondo in questa sede visto che il Direttore – in passato aperto al dialogo – non ha ritenuto di pubblicare una mia lettera di risposta alle tesi della Morresi. Quel che voglio contestare è la contrapposizione netta delle cure palliative alla eutanasia, come se le prime bastassero ad “eliminare” la volontà di morire di chiunque e in ogni caso, anche in presenza di sofferenze fisiche o psichiche intollerabili e senza alcuna speranza di guarigione. Nella lettera inviata ad “Avvenire” ricordavo il caso del suicidio di mio fratello Michele, malato terminale di leucemia, che decise – non avendo trovato un medico che lo aiutasse a morire – di cercare nel suicidio la sua “uscita di sicurezza”. Michele, che aveva una aspettativa di vita di un paio di settimane, non aveva bisogno di cure palliative perché non soffriva di dolori fisici, ma era un vecchio scapolo, timido e riservato, che teneva molto alla sua dignità e non accettava di perderla. Per questo, dopo un primo episodio di incontinenza verificatosi nella notte, e dopo che la sua badante aveva dovuto lavarlo, cambiarlo e mettergli un “pannolone”, scelse di farla finita: all’alba si alzò, aprì la finestra e si gettò dal quarto piano. Ma anche in situazioni meno atroci di quella di Michele, la Morresi è tassativa: “Quando l’offerta di cure palliative è adeguata, nessuno sceglie di farsi uccidere”. E già la scelta delle parole mi appare tendenziosa, dato che la richiesta dei disperati non è “di farsi uccidere” ma di “essere aiutati a morire”. Per non dire della disinvoltura con cui questa bioeticista ignora (salvo mi sia sfuggito qualche suo articolo) il fatto che in Italia si suicidano ogni anno circa 1.000 malati. E purtroppo il dato nuovo è che aumentano i suicidi di giovani, per i quali la motivazione del tragico gesto non è certamente la mancanza di cure palliative. Come non lo era per la diciassettenne olandese Noa, che ha deciso di lasciarsi morire di fame e di sete (“nell’indifferenza generale”, scrive la Morresi, che sembra vivere in un altro mondo).

Nei giorni scorsi la Morresi ha fatto un bilancio della applicazione della legge sulla eutanasia nel Belgio, tracciando un quadro terrificante della situazione. Citando un rapporto della commissione governativa che controlla l’applicazione della legge sulla eutanasia, la Morresi dice che i 2.357 casi di eutanasia verificatisi nel 2018 in Belgio – un paese che ha quasi 12 milioni di abitanti e 110 mila decessi l’anno – dimostrano che ormai l’eutanasia è diventata “un atto medico” al pari delle cure palliative e che la morte è stata “normalizzata”. Non senza rievocare lo spettro della “slippery road”: “Se l’eutanasia – si avventura a scrivere la Morresi – è il rimedio a sofferenze estreme, perché escluderne minori e malati psichici? E perché somministrarla solo a chi è capace di chiederla e non metterla a disposizione in generale, come per gli altri analgesici?” (avete letto bene: “gli altri analgesici”).

Torna dunque, negli incubi dei cattolici ultra, lo spettro di Mengele e di Hitler: e con riferimento ad un paese come il Belgio che (al pari della Olanda) ha un sistema di controlli rigidissimo sui criteri di concessione della eutanasia, tanto che in 15 anni dalla approvazione della legge non si è mai avuta notizia di alcun abuso o “cattiva pratica”, mentre è noto che in moltissimi casi l’eutanasia viene negata perché le motivazioni del richiedente sono apparse inadeguate alla commissione competente. Ma la Morresi mostra di non saperlo e scrive che “i malati sono in pericolo perché la somministrazione della eutanasia varia a seconda dell’orientamento dei medici e dei vari comitati etici e non delle condizioni cliniche dei richiedenti”.

Purtroppo, la Chiesa Cattolica e il Papa – che pure, su un diverso terreno, si è spinto a dire che “il sesso è un dono di Dio” (ma quale seguito darà a proposito del celibato dei preti?) – non riescono a rivedere, in alcun modo e in nessun caso, il dogma della sacralità della vita, anch’essa “dono di Dio”: ma un dono singolare, visto che chi lo ha ricevuto non può in alcun modo disporne. Superato anche il concetto del “partorirai con dolore”, resta questo residuo di ferocia nel cattolicesimo e soprattutto nel Vaticano, solo Stato, in Italia, che all’arrivo dei piemontesi non aveva ancora abolito la pena di morte: dovrai soffrire per morire. Speriamo che almeno le leggi dello Stato concedano un po’ di pietà a chi è giunto “alla soglia estrema”.

(17 giugno 2019)

 



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