Per l’Abruzzo un futuro aperto alla speranza
di Raffaele Garofalo, prete
Vivere la morte e resurrezione di Cristo in Abruzzo, quest’anno, non è stato un fatto liturgico rievocativo, vissuto per radicata tradizione, in cui il dolore della morte e la speranza della resurrezione dell’uomo si trasferiscono sulla figura di un Cristo consegnato alla storia, alla semplice commemorazione. I riti delle nostre chiese, al di là dei buoni sentimenti, difficilmente toccano in profondità il vissuto, entrano nel nostro quotidiano. Abbiamo imprigionato Cristo nei tabernacoli, nei sacramenti, nei sepolcri e impostiamo l’esistenza cristiana nello scandire lungo l’anno la teoria delle celebrazioni, delle cerimonie. Per questo, solo per questo, forse, “non possiamo non dirci cristiani”. Un cristianesimo “civile”, sociale. Eppure Cristo muore nelle violenze ripetute di ogni genere e nelle ingiustizie subite dagli uomini ma questo sembra affidato per lo più alle liturgie profane. Noi preti temiamo di associarci alle manifestazioni delle associazioni dei lavoratori per il problema occupazionale e delle morti bianche, scongiuriamo di ritrovarci accanto alle bandiere dei sindacati o ai cartelloni rivendicativi degli extracomunitari, dei clandestini. Preferiamo organizzare Via Crucis e riti, in proprio, forse per non farci nemici i governi di turno o perché Dio faccia piovere il lavoro dall’alto, come la manna, e ce ne attribuisca il merito. Cristo rivendicava i diritti degli uomini affrontando “chi” non li rispettava, la preghiera per lui era altra cosa che una richiesta interessata, avanzata verso l’Alto. Per secoli abbiamo scongiurato da Dio il pericolo delle calamità naturali e non solo, abbiamo percorso le strade implorando: “A peste, fame et bello, a flagello terrae motus, libera nos Domine !”. Dai pulpiti abbiamo tuonato che Dio “mandava il terremoto in Calabria perché le donne mostravano le gambe a Viareggio”. Ci siamo scaricati quasi del tutto di ogni responsabilità attribuibile all’uomo, a noi stessi. Abbiamo male interpretato il cristianesimo che parla di un Cristo vivo che può trovarsi “anche” nelle chiese e nei luoghi di culto ma che essenzialmente risiede nell’uomo emarginato, nel reietto di turno. Dopo l’albanese, nel nostro cattolico Paese, la demonizzazione tocca ora al rumeno, ai “dannati” che continuano a morire in mare nei viaggi della speranza (sui quali non piangiamo, capaci di piangere solo su noi stessi), a coloro per i quali abbiamo inventato il “reato di clandestinità”, il reato di miseria. Ci danno fastidio, non ne tolleriamo la presenza, non ci appartiene più nemmeno il pudore di dichiararci razzisti. Nelle situazioni di tragiche emergenze riscopriamo il cristianesimo di chi è capace di dare la vita per salvare gli altri: il vigile del fuoco morto d’infarto, la suora che col suo corpo fa da scudo a 5 bambini. Come ricordava Ernesto Balducci, più che mai attuali risuonano le parole dell’angelo alle donne: “Non cercatelo fra i sepolcri, Egli è vivo”. Cercheremo Dio in chi vive giornalmente la solidarietà verso il prossimo e in chi è costretto a riceverla. La passione per la vita dovrà indurci a recuperare i valori che stanno scomparendo, senza essere più schiavi della logica dell’avere, del produrre, dell’apparire, della subordinazione al potere che annienta le coscienze. I cristiani devono impegnarsi nella costruzione di una società in cui la vita sia al primo posto, non solo la vita dell’embrione o sul letto di una morte annunciata. Non si può continuare ad essere semplici portatori di un passato incomprensibile per le nuove generazioni, i giovani hanno bisogno di vedere negli adulti i portatori di vita, coloro che li formano allo spirito critico, che suscitano speranza, facciano loro credere che nella linea del bene l’impossibile è possibile. In un mare di corruzione e di volgarità non si può continuare a tenere gli occhi fissi al Gesù delle devozioni per regalare a buon prezzo, a noi e agli altri, la coscienza dell’essere buoni. E’ questa l’eredità che ci ha lasciato il religioso della Badia Fiesolana. “I luoghi di testimonianza della fede sono là dove si elaborano le condizioni perché la vita fiorisca, perché l’alleluja pasquale non sia un canto gregoriano dentro al tempio ma una nota di gioia che corre di coscienza in coscienza attraverso le generazioni. Questa gioia non dobbiamo rassegnarci a viverla dentro al rito per poi dimenticarlo, deve tradursi in stile di vita” (Ernesto Balducci).
Sarà questo soprattutto il senso della sospensione delle manifestazioni religiose di questa Pasqua abruzzese, non la sola paura del terremoto. Non si pregherà più Dio o S. Emidio che ci salvi dal sisma, si implorerà invece, a gran voce, il risveglio dell’onestà in uomini senza scrupoli che mettono a repentaglio la vita dei propri simili per la loro insaziabile sete di lucro. In Irpinia a S. Angelo dei Lombardi, a Balvano, si constatava che gli edifici crollati, compresa la villa ove lo stesso costruttore rimaneva vittima, rivelavano una tecnica di costruzione non rispettosa delle norme: le schegge di cemento si sbriciolavano tra le mani dei soccorritori. Ora lo si riscontra anche a L’Aquila. Tornando sui luoghi incidentati della Lucania, a distanza di quasi trent’anni dalla catastrofe, si è sentito riferire dagli abitanti del luogo che la “ricostruzione” è stata realizzata nel balletto di ditte che lavoravano in subappalto. Temono ora che, in caso di nuove scosse telluriche, le prime case soggette al crollo saranno quelle ricostruite. La tragedia dell’Aquila dovrà costituire una svolta e una sfida sul terreno di una ricostruzione in cui si imporranno il rispetto rigoroso delle regole e rigorosi controlli necessari ad impedire il ripetersi di catastrofi dovute all’avidità assassina di gente che ha venduto la propria anima.
Il terremoto di Lisbona del 1755 fece 30.000 vittime e fu occasione, per le menti del tempo, di contrastanti considerazioni sulla natura, sul significato delle calamità naturali che minacciano l’umanità lungo la sua storia. Voltaire evocava l’orrore della catastrofe, interpellando i filosofi che osavano sostenere che “tutto è bene” nel nostro mondo e si interrogava sull’esistenza del male che un Dio buono non dovrebbe permettere. Il filosofo rilevava la triste condizione dell’uomo e rifiutava di comprendere le vie della Provvidenza, riconoscendo all’uomo, come unica consolazione, la facoltà di “sperare”. La catastrofe di Lisbona aveva inferto un duro colpo ai sostenitori dell’ottimismo ad oltranza nel considerare l’ordine naturale. Al contrario Rousseau difendeva l’azione della Provvidenza dichiarando di sostenerla “fino all’ultimo respiro”: “La vedo, ci credo, la invoco, ci spero”. Nel pensiero di altri (Pope) la sofferenza e il male sono una spinta creatrice per il progresso umano e la verifica che l’uomo è capace di risorgere con le proprie forze e trovare rinnovate energie, vie nuove e migliori.
Di fronte al problema del male e del dolore l’umanità è destinata a restare sempre divisa. Rimane di vitale importanza tuttavia lasciarsi guidare dalla speranza di potersi “rigenerare”. Cristo risorto, liberato dal sepolcro, vuole essere il “capostipite della nuova umanità, germe di una nuova creazione”. Gli abruzzesi oggi esprimono il desiderio che “la Protezione Civile” non sia più affidata alla Divina Provvidenza; diventi, invece, una voce importante nei bila
nci delle amministrazioni e sempre la Provvidenza suggerisca alla Gelmini di restituire alle Province le risorse sottratte al bilancio della scuola, così si potrà ricominciare a mettere in sicurezza gli edifici che ospitano i nostri giovani, in memoria dei tanti loro coetanei periti per la speculazione criminale di costruttori senza scrupoli. Un attento osservatore ha visto un volontario raccogliere un crocifisso dalla terra martoriata e legarlo ad un albero con uno spago rimediato. Una simbologia aperta alla sensibilità di ognuno.
(16 aprile 2009)
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