“Per una Chiesa dalla parte degli oppressi”. Intervista a Beppe Manni, ex prete operaio modenese

Giuseppina Vitale

Beppe Manni, classe 1939, è uno dei protagonisti della vita lavorativa del Villaggio Artigiano di Modena Ovest [1]. Quest’ultimo, nato nel 1951, diventò negli anni settanta culla del fermento rinnovatore figlio del Concilio Vaticano II.
Alla fine degli anni Sessanta, alla parrocchia del Villaggio, si proposero come co-parroci un gruppo di due preti e un laico, Giuseppe Manni, Gianni Ferrari e Franco Richeldi, con l’intenzione di applicare le direttive del Concilio Vaticano II; negli anni seguenti si aggiunsero altri due preti: Sandro Vesce e Alberto Garau [2].
Beppe Manni, dopo anni di sacerdozio deciderà di sposarsi e dedicarsi all’insegnamento secondario, per trent’anni insegnerà italiano e latino in diversi licei della provincia di Modena.
Collabora, tutt’ora, con la Gazzetta di Modena e scrive libri sugli artigiani.

Quali furono le motivazioni di fondo che hanno spinto voi preti operai modenesi a questa scelta?
La nostra è stata, prevalentemente, una motivazione ecclesiale-religiosa nata dal Concilio e dalla lettura della Bibbia.
Le ragioni che ci hanno spinto a fare questa scelta vennero generate appunto dal vento conciliare: una chiesa povera e dei poveri, che portava ad una particolare attenzione e amore verso gli ultimi; tutti elementi supportati da citazioni evangeliche; una per tutte: “Sono venuto per evangelizzare i poveri” (Luca 4, 18).
Inizialmente non esistevano ancora ragioni politiche; queste sono subentrate successivamente; nei primi tempi ci interessava solo andare in mezzo alla gente, condividerne la vita e la quotidianità, non tanto per evangelizzarla o fare del proselitismo, quanto per un’esigenza di contatto e di testimonianza diretta. Se poi qualcuno era interessato alla fede, sceglieva di sua spontanea volontà di venire in chiesa.
L’ambiente dove noi abbiamo lavorato era composto prevalentemente da gente di estrazione comunista che non andava più in chiesa, per cui era necessario mettersi in una condizione di grande rispetto.
La frase che molto spesso gli operai dicevano era: “Se tutti i preti fossero come voi, anch’io andrei in chiesa”.
Altra motivazione era quella di avere come preti l’indipendenza economica per essere più liberi e recuperare una laicità e un’ individualità che attraverso il seminario prima e successivamente con il ministero era stata perduta. Per diventare uomini tra gli uomini!

Quali furono i vostri rapporti con il vescovo?
A Modena, abbiamo avuto una situazione fortunata: il vescovo, mons. Amici, era un vescovo conciliare che aveva capito la possibilità di fare nuove esperienze. Era aperto, ma nello stesso tempo non era tanto coraggioso cosicché non troncò alcun esperimento per poi mettersi in conflitto. Infatti, l’esperienza dei sacerdoti al lavoro non era condivisa da altri preti; abbiamo avuto più contrasti con i sacerdoti che non condividevano questa scelta che con il vescovo.
A Modena, ciò nonostante, negli anni Settanta esistevano una quindicina di preti operai e settanta comunità di base, sintomo di un acceso fermento.

Quale fu la vostra posizione al Referendum sul divorzio del ’74?
Noi eravamo per il “NO”. La causa che ha diviso il clero modenese in due parti è avvenuta proprio con il referendum. Prima ci eravamo battuti contro il concordato e per la libertà del voto; quando i vescovi hanno obbligato i cattolici a votare “SI’” al referendum, ci siamo opposti con forza e questo ha portato a delle conseguenze: a me ad esempio era stato vietato di tenere conferenze pubbliche in difesa del “NO”.
A Modena, ancora oggi ci sono dei preti segnati fortemente dalla loro scelta pubblica di allora di lasciare liberi i cristiani di votare secondo coscienza.

I preti operai modenesi come si ponevano, all’epoca, dinnanzi ad un partito cattolico forte come la DC?
In quei tempi abbiamo fatto una scelta di sinistra; abbiamo valutato la DC come il partito dei ‘padroni’ e della Chiesa. Abbiamo preso delle posizioni molto chiare in merito alla libertà di voto, che per noi indirettamente significava votare a sinistra. Anche se in quel tempo si era tutti molto radicali e si contrastava sia la DC che il PCI, per cui la nostra proposta era quella di andare oltre alla dialettica classica dei partiti e costruire qualcosa di nuovo. Le nostre scelte nascevano dalla lettura della Bibbia e da esigenze politiche. Abbiamo fondato oltre che una comunità cristiana innovativa, delle forme nuove di sindacato, abbiamo fatto dei doposcuola alternativi, stavamo veramente inventando una società diversa. La nostra era una teologia della povertà, negli anni abbiamo anche sposato la teologia della liberazione, anche se in Italia non ha trovato degli agganci molto forti perché il contesto era diverso rispetto a quello dei paesi poveri dove, per l’appunto, è nata.
In sostanza, abbiamo aderito ad un tipo di teologia molto più semplice, legata alla scelta dei poveri, allo stare dalla parte degli oppressi, per lottare contro le ingiustizie e le repressioni, etc.

A cosa serve un prete operaio oggi?
Oggi non servono i preti-sacerdoti come sono ‘strutturati’ attualmente. E’ necessario svecchiare questa figura e renderla autonoma dal clericalismo, una figura che lavori e si auto mantenga con delle professioni oneste, anche operaie. Io immagino così la figura del prete: un uomo che vive nella comunità, un testimone di fede, una persona adulta, maschio o femmina, eventualmente con una famiglia sua, che abbia un mestiere pulito. Scelto dalla comunità per essere loro pastore, accolto dal vescovo: solo così diventerà colui che sostiene, nella fede, la sua comunità.
Oggi c’è bisogno di discutere il ruolo del prete, del cardinale, del papa, di tutte quelle figure, insomma, che rievocano il potere del sacerdos dell’antico testamento.

Chi sono i poveri oggi?
I poveri sono gli immigrati, i precari, gli emarginati, i vecchi, i malati, le vittime della solitudine, etc. Il problema è che fin quando il prete vivrà l’attuale condizione di privilegio, che il suo essere parte di un clero gli consente, non potrà mai immedesimarsi nella gente, bisogna immergersi negli ambienti dell’emarginazione per poter agire attivamente nella società e mettere in pratica l’insegnamento evangelico dell’amore.

NOTE

[1] Negli anni Sessanta al Villaggio Artigiano di Modena Ovest c’erano moltissimi artigiani. Quel villaggio fu chiamato
così nel ’51 dal sindaco Alfeo Corassori, che lo progettò dando fiducia e opportunità di un lavoro sicuro a operai, perlopiù licenziati dalle officine modenesi negli anni Cinquanta.
I lavoratori che lo costruirono venivano da fabbriche modenesi ma erano fondamentalmente degli artigiani.
Nel ’60 alla periferia di Modena, su 50 biolche di terreno agricolo, 15 ettari tra la ferrovia e l’autodromo, erano nte 74 aziende.
(Beppe Manni, Un villaggio tra la ferrovia e la campagna. 30 storie di artigiani : racconti di invenzioni, di coraggio e di avventure nel Villaggio artigiano di Modena Ovest, Modena, Il Fiorino, 2006, p. 9).
[2] Ivi, p. 15.

(18 ottobre 2012)



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