Per una laicità radicale

Pierfranco Pellizzetti

In anteprima dal nuovo numero di "Critica Liberale" pubblichiamo la trascrizione saggistica dell’intervento di Pierfranco Pellizzetti all’edizione 2012 delle Giornate della Laicità di Reggio Emilia.

«I modelli della fede e dello scetticismo hanno molto a che fare con le pretese del potere e con la rivolta contro tali pretese»
Mary Douglas [1]

«In assenza di forti istituzioni di fiducia reciproca, di servizi affidabili forniti da un settore pubblico provvisto di finanziamenti adeguati, le persone cercheranno sostituti privati. La religione (come fede, comunità e dottrina) godrà di un certo rilancio, anche nell’Occidente laico»
Tony Judt [2]

Le condizioni materiali della laicità

Di regola il confronto tra credenti e miscredenti in sede politica (l’unica possibile, per convincimenti che scorrono lungo traiettorie altrimenti eccentriche) privilegia aspetti che un tempo si sarebbero definiti “sovrastrutturali” (i modelli di rappresentazione filosofici e giuridici). L’impostazione che qui viene proposta – invece – prende le mosse dalla “struttura” (la base economica [3], ossia gli ambiti concreti della vita umana) praticando a tale riguardo un approccio materialistico rivisitato in chiave liberale: non la marxiana “critica dei rapporti di produzione”, applicabile solo alla fase industrialista del Capitalismo, bensì la più generale “critica dei rapporti di dominio” come decostruzione e smascheramento delle strategie del Potere finalizzate all’eterna sottomissione quale subalternità interiorizzata da parte dei dominati.

Tale operazione (ovvio, a parere dello scrivente) si rende necessaria per dare spiegazione di un fenomeno attualmente in atto, diversamente incomprensibile: il percepibile rallentamento di una lunga deriva alla secolarizzazione che caratterizzava dagli albori del Moderno i processi evolutivi delle nostre società. Meglio, più che “lunga”, “lunghissima”.

Con questo si intende affermare come l’imporsi di una prospettiva che privilegia l’immanente a scapito del trascendente, la diffusa e radicata convinzione che è nel di qua il luogo dove si gioca la partita degli umani, nella fallacia di rimandare la liberazione dai vincoli presunti ineluttabili della propria specie a un ipotetico al di là salvifico e redentivo, discenda direttamente dalle trasformazioni avvenute e in corso nell’immensa placenta del sociale. Oggettivamente (e in questo caso l’avverbio “fatale” – per dirla con Lucio Colletti – ci sta tutto).

Insomma, emancipazione e laicizzazione/secolarizzazione sono sorelle germane.
Del resto, quale altro significato attribuire al superamento dell’antinomia agostiniana tra Civitas Dei e Civitas Diaboli che segna la fuoriuscita mentale dall’Età di Mezzo, dominata dalla primazia del teologico, se non quello della scoperta di hic et nunc come campo esclusivo dell’umano agire? La transizione all’antropocentrismo come progetto complessivo di redenzione dell’umanità concreta dai vincoli della sua stessa fattualità materiale, fisica. Al tempo stesso, il diritto alla ricerca della felicità affermato come rottura delle gabbie superstiziose, sorvegliate dai custodi inflessibili della fede ultramondana. Il «sive deus non daretur» di Grozio.

Le grandi rotture che hanno ritmato il crescendo che giunge fino alla società liberaldemocratica (le rivoluzioni inglese, americana e francese, poi le riforme rivoluzionarie novecentesche dello Stato Sociale e del Welfare) possono essere lette come riorientamento della freccia del tempo verso le cose del mondo. L’idea illuministica di futuro progettabile mediante l’uso pubblico della ragione, nel consapevole rifiuto di rimandi a ipotetici “dopo”, che conquistava consensi grazie ai miglioramenti delle condizioni di vita e sicurezza di sempre più larghi strati di popolazione; registrati e formalizzati dalla crescente inclusione nella cittadinanza.
Processo che ha raggiunto il suo punto più alto nel terzo quarto del XX secolo, tanto che Jürgen Habermas poteva giustamente commentare: «i diritti sociali eguali sono ‘le stecche di corsetto’ della cittadinanza democratica» [4].

Sicché – in questa parte del mondo che chiamiamo Occidente – tali condizioni migliorate di vita determinavano una visione ottimistica a supporto e puntello di un punto di vista progettuale orientato al costruttivismo sociale che – appunto – si potrebbe definire sommariamente “illuministico”. Questo anche perché «circa duecento anni fa – lo osservava Richard Rorty – cominciò a prendere piede in Europa l’idea che la verità fosse una costruzione, non una scoperta. La Rivoluzione francese aveva mostrato che l’intero vocabolario delle relazioni sociali e l’intera gamma delle istituzioni potevano essere sostituiti quasi da un giorno all’altro» [5].

L’Illuminismo sulla difensiva

Chi scrive non possiede le competenze necessarie per stabilire se “il progetto filosofico” dell’Illuminismo sia ancora valido. Qualcuno sostiene al riguardo che «la prima spallata alla fortezza filosofica illuminista è arrivata nel XX secolo quando lo scienziato tedesco Werner Heisemberg introdusse nel dibattito scientifico l’idea di indeterminatezza» [6].

Di certo “il progetto politico” dei Lumi resta tuttora vivo e vegeto. Di più: prezioso. Eppure oggi parrebbe il contrario.
1977. Nel discorso amburghese di accettazione del premio Lessing conferitogli poco prima che si suicidasse, Jean Améry, lo straordinario autore de Intellettuale ad Auschwitz, si chiedeva: «cosa è accaduto per fare dell’illuminismo un relitto storico-filosofico utile tutt’al più per i solerti e sterili studi dei ricercatori? Quale triste fraintendimento ha fatto sì che filosofi contemporanei azzardino ormai l’uso di concetti come progresso, umanità, ragione solo tra mortificanti virgolette?» [7]. E ciò nonostante che tutte le libertà di cui godiamo siano frutto dell’Illuminismo borghese; che dobbiamo ringraziare Montesquieu, Locke, Constant e Diderot, Feuerbach, Marx arrivando fino a Russell per la libertà critica di cui godiamo; nonostante – ancora – che senza l’interpretazione illuministico-scientifica del mondo saremmo privi di quelle conoscenze in grado di assicurarci un formidabile aiuto per confidare in noi stessi ed essere sicuri nel mondo.

Perché tutto questo? Perché l’esaurirsi (temporaneo?) di un progetto che diffondeva mentalità laica e secolare? Presto detto: il rapido virare delle coordinate del tempo verso l’insicurezza e l’esclusione per un numero crescente di donne e uomini, in non casuale sinergia con un radicale ribaltamento degli equilibri nella sfera che tutto avvolge: il Potere. La sensazione di “avere un grande futuro dietro le spalle”, in larga misura determinata dai maneggi delle plutocrazie per sciogliersi dai vincoli creati dai processi di civilizzazione democratica, costringe la ragionevolezza sulla difensiva.
La “società del rischio” come statistica e “dell’ansietà” come montante ossessione psicologica azzerano la convinzione in un avvenire progettabile; convogliano moltitudini impaurite a mettersi in processione, come al tempo delle pestilenze medievali, salmodiando formule rituali in attesa di salvazioni che giungano dal cielo.
La cornice di quel “ritorno di dio” che riappare nel dibattito pubblico.

Fermo restando che il soggetto divino ha ormai volti plurimi: può essere quello della religione tradizionale non meno che delle credenze economiche (il dio-mercato), come delle appartenenze difensive (le piccole patrie perimetrate o l’omologazione etnico-comunitaria).

Le tendenze involutive, che denunciamo singolarmente come pericoloso arretramento dalla società inclusiva tendenzialmente egualitaria in termini di crisi (del lavoro, della giustizia, della politica, dell’apertura al diverso…), vanno interpretate unitariamente come restaurazione di un antico ordine ger
archico che ora si promuove in quanto “unica via”, in quanto “naturale”. Con il solo elemento di novità che il privilegio è sancito esclusivamente dal censo, dalla possessività. Ed è su questo terreno – l’imposizione dell’ordine gerarchico – che si determina ancora una volta la saldatura tra spada e altare. Tra la potenza terrena e l’unzione divina.

Il segreto cristiano

Del resto, alleanza di dominio – quella tra Cesare e Dio – temperata in pratiche millenarie. Almeno per le religioni mediterranee del Libro. Nel nostro caso, quell’agenzia che trae le sue ragioni egemoniche nel monopolio della consolazione dal dolore chiamata Santa Romana Chiesa. La cogestione del potere da parte dell’istituzione ecclesiastica che trova le sue origini già nei suoi primi secoli di vita. Come scrive Louis Dumont: «risulta chiaro retrospettivamente come il cuore, il segreto del cristianesimo, considerato in tutto il suo sviluppo storico, stia in termini astratti nell’affermazione di una transizione effettiva tra l’aldilà e questo mondo, tra l’extramondano e l’intramondano. L’Incarnazione del Valore» [8].

Quale migliore riprova di tale alleanza implicita della sintonia tra la fase bellicista dell’Occidente e la riaffermazione delle sue “radici cristiane”? Ossia il vero significato dell’attuale “svolta postsecolare”, propugnata come disegno di fornire una corazza più rigida (e presunta invulnerabile) a un ordine democratico ritenuto troppo fiacco; per meglio attrezzarsi a quello “scontro di civiltà” creato in non trascurabile misura dalle paranoie della nostra civiltà, che si percepisce indebolita nella sua supremazia economica e culturale. Quale migliore aiuto di una predicazione che pretende di soppiantare con la compassione i valori laici di solidarietà e mutualismo, nella guerra civile scatenata dagli abbienti contro i sottoposti che punta allo smantellamento dei diritti del/nel lavoro e delle tutele sociali?

Nel suo più recente saggio Luciano Gallino ci fornisce le coordinate temporali di questo clamoroso allargamento della forbice sociale, con evidenti effetti di castalizzazione: «verso il 1980 ha avuto inizio in molti paesi – Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Italia, Germania – quella che alcuni hanno poi definito una contro-rivoluzione… Le classi dominanti si sono mobilitate e hanno cominciato loro a condurre una lotta di classe per recuperare il terreno perduto» [9]. Dunque, contenimento dei salari reali, condizioni di lavoro più rigide, erosione di investimenti pubblici e delle imposte… Retromarcia nell’allargamento della fascia dei ceti medi.

Un ritorno al passato con cause evidenti: la mancanza di contropoteri che contrastino le pulsioni repressive dell’avidità fattasi regime (in passato la pressione competitiva esterna tra Est e Ovest, la forza rivendicativa interna del lavoro organizzato) ammantata di oscurantismo (il pensiero unico come giustificazione ideologica dell’ordine vigente: dall’intoccabilità di una finanza deregolata come “migliore dei mondi possibili” e la sacralizzazione del denaro all’isteria del deficit statale trasformata in paura irrazionale di un Inferno terreno). Spiriti animali che possono essere tenuti a bada solo attraverso spinte al bilanciamento. Del resto – parliamoci chiaro – la tanto rimpianta/idealizzata Chiesa del Concilio Vaticano II sarebbe stata pensabile in assenza di marcati processi di laicizzazione/secolarizzazione che ne mettevano a repentaglio la stessa sopravvivenza?

Compagnons de route?

Se quanto detto ha un senso, allora la ripresa dell’opera disincantatrice è indissolubilmente correlata a un contestuale
riavvio di politiche radicate nella materialità del presente per la costruzione di un comune futuro. Nella speranza terrena di redenzione e liberazione collettiva.

Dunque, politique d’abord; a contrasto del Potere come tecnologia. Sapendo anche che la fisiologia di tale pratica democratica e demistificante si fonda sulla categoria amico/nemico. Terreno impervio, soprattutto oggi, nello smarrimento di una chiara visione delle linee che delimitano il campo di battaglia e degli schieramenti. Situazione che determina la ricerca di alleanze che riportano alla mente l’antico motto dei Fronti Popolari “pas d’ennemi à gauche”, la figura ambigua dei “compagnons de route”. E l’ansia dello scontro spinge a imbarcare un po’ tutti, a non scorgere chi sia davvero il soggetto con cui ci si allea.

Nel caso dei laici, due tipologie non troppo rappresentative, eppure ritenute molto accreditanti: preti di strada e teologi del dissenso. I tipi alla don Gallo, che restano nella Chiesa-istituzione, e quelli alla Franco Barbero, che ne sono fuoriusciti per cause varie. Attenzione: la nostra route è la stessa di questi presunti compagnons?
Forse i primi possono persino divertirci se ipotizzano “che dio è antifascista” o che “Gesù vota Rifondazione Comunista” (don Gallo dixit). Però, come non renderci conto che la loro presenza pittoresca accredita l’idea mendace di un pluralismo cattolico, consentendo alla gerarchia quel mimetismo su cui gioca le proprie partite di potere dal tempo in cui decise che Francesco d’Assisi non era un eretico ma un santo? Copertura a sinistra che efficientò la persecuzione dei veri eretici.

Si dice: ma i preti di strada fanno del bene (magari trascurando come talvolta tali personaggi si rivelino affetti da narcisismo della sindrome da martirio; che tanto asseconda la corriva bulimia di “tinte forti” insita nella comunicazione mediatica). Comunque, anche se le loro opere di carità ripropongono in versione informale la logica compassionevole cara alle ben più formali Dame di San Vincenzo, non toccano le cause profonde della sofferenza (mentre fungono da ammortizzatore del ritiro dello Stato laico dall’intervento pubblico nel campo dell’ingiustizia e del bisogno, che indebolisce una delle ragioni fondamentali della sua presa sociale e rafforza la critica distruttiva all’insegna dello Stato Minimo, perseguito dall’ideologia liberistica nel lavoro sporco di agente ideologico della finanziarizzazione del mondo).

Forse il dissenso teologico può dare una mano nell’attacco al clericalismo. Forse, ma a patto di riconoscere alla religione il ruolo di soggetto politico. Cedimento che sbaracca l’intero impianto critico/contestativo della laicizzazione/secolarizzazione.
Sia chiaro, nel suo privato ognuno creda un po’ quello che vuole. Persino che esista un dio-persona con cui dialogare attraverso il medium della fede. Si pensi pure che il valore dell’Occidente lo si difende brandendo i simboli cristiani (eresia mediorientale propugnata da un palestinese, se mai esistito storicamente). Ma l’inciampo primario da rimuovere resta la religione (ossia l’assunto purtuttavia connotativo di questi altri compagnons). Perché – secondo Christopher Hitchens – «quando si accetta l’esistenza di un creatore e di un piano superiore, accade poi che gli esseri umani siano ridotti a oggetti di un esperimento crudele… Ci sarebbe infatti una sorta di ‘dittatura celeste’ posta sopra di noi per controllare che la guarigione avvenga, una sorta di divina Corea del Nord. Avida e intransigente» [10].

James Joyce ebbe a dire che «non vi è eresia né filosofia aborrita dalla chiesa quanto l’essere umano». D
a qualunque chiesa, intesa come fede organizzata che diventa soggetto pubblico; magari dopo aver contestato i requisiti teologici dell’istituzione da cui ci si è allontanati mantenendo confisso nella mente lo stigma fideistico.

NOTE

[1] M. Douglas, Credere e pensare, Il Mulino, Bologna 1992 pag. 112
[2] T. Judt, Guasto è il mondo, Laterza, Bari 2011 pag.158
[3] R. Aron, Le tappe del pensiero sociologico, Mondadori, Milano 1972 pag. 149
[4] J. Habermas, La costellazione postnazionale, Feltrinelli, Milano 1999 pag. 20
[5] R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia, Laterza, Bari 1989 pag. 9
[6] J. Rifkin, L’età dell’accesso, Mondadori, Milano 2000 pag. 255
[7[ J. Améry, “L’Illuminismo come philosophia perennis”, MicroMega 5/2001
[8] L. Dumont, Saggi sull’individualismo, Adelphi, Milano 1993 pag. 67
[9] L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Bari 2012 pag. 11
[10] C. Hitchens, “La fede ci rende cattivi” la Repubblica 19 febbraio 2012

(21 maggio 2012)



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