Per un’educazione libertaria

Francesco Codello

Pubblichiamo l’ultimo di quattro saggi che completano online il sulla scuola in edicola e su iPad. Gli altri, già pubblicati, sono: "" di D. Romagnoli, P. Trama e M. L. Vanorio, "" di G. Petta, "" di Giovanni Accardo.

Nel mondo più di 400 scuole libertarie e democratiche offrono a migliaia di famiglie una concreta e reale alternativa al fallimento dei sistemi tradizionali di istruzione, gerarchici, burocratizzati e omologanti. Rimettendo al centro l’apprendimento (il bambino) rispetto all’insegnamento (l’adulto). Una panoramica su queste esperienze educative innovative. 

Una breve premessa storico-geografica

L’educazione libertaria, nella sua visione matura, trova le sue prime formulazioni nel pensiero di William Godwin (1756-1836), ma elementi significativi delle sue intuizioni, sono riconducibili sicuramente in occidente nella cultura socratica e post-socratica (cinismo e epicureismo in particolare), in oriente in alcuni tratti illuminanti del taoismo e del buddismo. In particolare in Europa, a partire dal processo di secolarizzazione prodotto dall’Illuminismo, con la nascita del pensiero socialista antiautoritario di Pierre Joseph Proudhon (1809-1865), questa idea educativa si è poi via via perfezionata all’interno del pensiero anarchico, attraverso le intuizioni sull’istruzione integrale di Michail Bakunin (1814-1876) e Petr Kropotkin (1842-1921), per concretizzarsi in numerose esperienze scolastiche ed educative in diversi paesi europei ed extraeuropei[1]. La più nota sperimentazione è sicuramente stata quella della “Escuela moderna” di Francisco Ferrer (1859-1909) a Barcellona nel 1901, che ha ispirato un vero e proprio movimento educativo e scolastico sia in Europa che nelle Americhe[2].

L’educazione libertaria insomma viene da lontano e soprattutto ha vissuto, nei primi anni del novecento, una varietà di esperienze concrete particolarmente rilevanti, strettamente collegate ai movimenti di emancipazione e di liberazione delle classi lavoratrici, nel solco di una tradizione socialista e internazionalista.

Un punto di passaggio tra queste esperienze storiche, sviluppatesi all’interno della storia dell’anarchismo, e le più moderne e contemporanee sperimentazioni educative, è rappresentato sicuramente dalla scuola di Jasnaja Poljana creata da Lev Tolstoj (1828-1910) in Russia nella seconda metà dell’ottocento[3].

Ma è a partire dalla scuola di Summerhill (tuttora attiva) in Inghilterra, fondata e diretta da Alexander Neill (1883-1973) nel 1921, che si può far risalire la nascita dei vari movimenti di scuole libere e antiautoritarie nei diversi continenti. Infatti oggi esperienze educative libertarie e democratiche offrono a migliaia di famiglie una concreta e reale alternativa ai sistemi di istruzione tradizionali[4].

Le scuole e le iniziative di istruzione popolare di impronta libertaria, che precedono la nascita di Summerhill, pur avendo profondamente innovato sia la didattica che l’organizzazione complessiva dell’apprendimento, conservavano ancora una visione non compiutamente libera dalla centralità del ruolo dell’adulto. Queste esperienze si erano caratterizzate da alcune priorità che possono essere così riassunte: sviluppo di un’istruzione integrale (importanza di manualità e riflessione teorica) e di una visione armonica della personalità dei bambini; rapporto egualitario tra docente e discente; trasmissione universale del sapere e priorità di un’educazione razionale e scientifica; coeducazione dei sessi. Queste caratteristiche erano fortemente in contrasto con le concezioni tradizionali dell’educazione borghese dell’epoca e quindi hanno rappresentato una dirompente rottura con i sistemi educativi e scolastici autoritari. La forza di questi principi, che trovavano applicazione all’interno di queste numerose scuole libertarie, ha aperto la strada alla nascita e allo sviluppo delle più moderne esperienze antiautoritarie, talvolta anche senza che i protagonisti delle prime fossero direttamente conosciuti da quelli delle successive. Considerando poi che all’inizio del ventesimo secolo vengono alla luce anche studi, ricerche, teorie nuove (come ad esempio quelle di John Dewey (1859-1952) e dell’attivismo pedagogico), possiamo sicuramente cogliere l’humus generale che ha permesso il fiorire di quelle scuole libertarie e democratiche che sono oggetto di questo articolo.

La crisi irreversibile dei sistemi scolastici

Un altro elemento che occorre tenere in considerazione, per cogliere l’importanza che queste sperimentazioni educative e scolastiche possono avere per una prospettiva di cambiamento radicale dell’organizzazione dell’apprendimento, è rappresentato dalla crisi che i sistemi di istruzione stanno attraversando in tutti i paesi sviluppati e come risultino obsoleti e inefficaci tutti i tentativi di riforma degli stessi che le varie politiche statali, sia europee che internazionali, continuano a mettere in atto.

Qui riassumo sinteticamente quanto già sviluppato altrove non essendo questo ragionamento centrale nell’economia del discorso che sto sviluppando[5].

Il processo di mercificazione della scuola e la estesa subordinazione dei sistemi di apprendimento a logiche economiche privatistiche e consumistiche, la invadente priorità assegnata a categorie ideologiche come velocità, parcellizzazione estrema dei saperi, competizione, flessibilità, adattabilità, sostanziatesi nella “pedagogia delle competenze” (Quadro europeo delle qualifiche e dei titoli) frutto delle Raccomandazioni emanate dal Parlamento europeo e dal Consiglio il 22 aprile del 2008, costituiscono alcune delle più evidenti interferenze delle politiche degli stati e dei sistemi di valutazione internazionali, nel condizionamento delle scelte scolastiche. Queste azioni rispondono a logiche di servilismo e di funzionalità della mano d’opera ai sistemi internazionali del mercato del lavoro, determinano i profili lavorativi funzionali a una globalizzazione di massa, definiscono un modello di cittadinanza poco attiva e molto poco responsabile. Ciò produce una sostanziale priorità assegnata all’apprendimento di metodologie piuttosto che allo sviluppo delle conoscenze. Infatti le scuole rispondono, in competizione con lo sviluppo invadente delle tecnologie virtuali, più a criteri di informazione frammentata, che a pratiche di sperimentazione e di sedimentazione delle conoscenze, favorendo il consumo intellettuale piuttosto che lo sviluppo di capacità autenticamente critiche. Sta compiendosi insomma una grande operazione culturale che si risolve essenzialmente in una sistematica e definita azione di adattamento delle individualità alle esigenze dell’ambiente in senso lato per sviluppare un nuovo modello comportamentale, trasformando il soggetto in oggetto. La Scuola insomma non è ormai più lo spazio e il tempo nel quale soggetti liberi praticano relazioni di apprendimento per diventare cittadini attivi e responsabili di una società autenticamente democratica, ma un complesso insieme di intrecci e di interessi burocratizzati che formano, plasmano, modellano i consumatori non solo di merci e prodotti ma anche di informazioni spacciate per conoscenze. Per queste e altre ragioni quella scuola della Repubblica così tanto evocata e perorata altro non è che il feticcio di se stessa. Per queste ragioni, un pensiero libero e onesto, non può non ricercare altre soluzioni che riprendano a ragionare e a provare concretamente a ridare alle parole e ai concetti che ne derivano un significato autentico e coerente.

Le risposte ideologiche e fallaci dell’homeschooling
e la necessità di fondare scuole pubbliche non statali

Quello che è importante chiarire fin da subito, e spiegare bene, è che quando parliamo di educazione libertaria e di scuole libertarie e democratiche stiamo sostenendo la centralità di esperienze collettive e non di relazioni esclusive e tantomeno ristrette all’interno della famiglia. Fin da sempre infatti una delle caratteristiche della critica libertaria all’educazione autoritaria è stata quella di denunciare quell’idea insana di proprietà dei figli da parte dei genitori sostenendo invece, coerentemente, che bambini e bambine non appartengono a nessuno, né ai genitori né allo Stato, ma alla loro vita, ai loro progetti di vita, riconoscendo a ciascuno, fin dalla tenera età, il diritto a sviluppare un proprio percorso autonomo e libero. Ciò però, criticando fortemente le concezioni di Rousseau, pensando sempre all’educazione come a una relazione ampia e diversificata, ricca di stimoli e suggestioni collettive e condivise. Una risposta che, a partire soprattutto dagli Stati Uniti, in questi anni si è venuta evidenziando, alla crisi, incontrovertibile, dei sistemi educativi e di istruzione, è stata quella che si definisce come home-schooling, vale a dire la privatizzazione estrema del rapporto genitori-figli. Questa forma di educazione e di istruzione mette ancora una volta al centro del processo evolutivo l’adulto-genitore e il suo diritto di decidere secondo le sue convinzioni esclusive, senza mediazioni e confronti con gli altri, della relazione educativa con i “propri” figli. Con l’obiettivo di sconfiggere l’autorità esclusiva dello Stato in termini di istruzione, si opta per quella esclusiva del genitore, esponendo il bambino e la bambina a influenze privatistiche di un adulto senza alcun controllo né confronto. In sostanza l’autorità (dominio) è solo spostata dallo Stato alla Famiglia.

Naturalmente viene qui sottolineato tutto ciò, considerando anche il fatto che una delle caratteristiche fondanti e pregnanti di un’educazione libertaria è quella relativa alla necessità che ogni adulto in relazione educativa, sviluppi sistematicamente un lavoro di introspezione e di autovalutazione del proprio ruolo. Infatti ciò che viene richiesto è soprattutto l’assunzione di una postura diversa, più lontana e quindi più critica, rispetto a una relazione che tenda ad assolutizzare la relazione, confondendo l’amore con il soffocamento. Questa presa di distanza, che è rispetto autentico e non certamente disinteresse, costituisce la condizione primaria per un cammino di liberazione educativa fatta di ascolto effettivo, di valorizzazione della diversità, di riconoscimento dell’altro da sé. Un passo a lato direi, richiesto all’educatore, per sfuggire quanto più possibile dagli stereotipi delle nostre presunte verità[6]. Tutto questo può avvenire solo nel confronto con gli altri, nella con-divisione, nella relazione reciproca e arricchente della diversità di talenti, eccellenze, difficoltà, sconfitte, ecc., e non certamente in tempi, spazi, contesti, angusti e deprivanti. Insomma è lo stare in relazione con gli altri che permette lo sviluppo della personalità di ognuno, non è data nessuna relazione educativa liberante nella privatizzazione dell’infanzia e dell’adolescenza.

Una possibile risposta dunque al fallimento dei sistemi scolastici che conosciamo non sta tanto in queste realtà di home-schooling, quanto piuttosto nel pensare e nel progettare una scuola pubblica (aperta a tutti e non confessionale) ma non statale (gestita cioè dalla comunità educante che realmente vi partecipa in modo realmente democratico) all’interno di un quadro più generale e sociale di riferimento. Purtroppo in Italia la storia della scuola è stata pesantemente condizionata da un dibattito tra scuola statale e privata che ha soffocato ogni possibile terza via e ha, di fatto, schierato ideologicamente i cittadini tra alternative che hanno ambedue fallito. Da qui nasce la necessità di affrontare questa questione in modo diverso, per poter finalmente discutere e confrontarsi con visioni differenti da quelle che erroneamente continuiamo a considerare in modo esclusivo ed esaustivo.

L’educazione libertaria nella pratica delle scuole antiautoritarie e democratiche

Esistono, attualmente, in tutti i continenti oltre quattrocento scuole consolidate (altre in avvio e magari non note o non censite) che praticano un’educazione e organizzano l’apprendimento secondo principi e metodi decisamente alternativi a quelli che governano le scuole tradizionali. Come si può facilmente comprendere le influenze culturali che le sostengono risentono inevitabilmente del contesto storico-geografico nel quale sono inserite[7]. Una scuola di New York ha caratteristiche diverse da una dell’India o del Brasile. Una esperienza di un paese europeo si differenzia da una israeliana come anche da una sud coreana o giapponese, ecc. Ma è possibile lo stesso individuare i tratti comuni che le ispirano e cogliere la portata innovativa di cui sono portatrici.

La prima considerazione, che occorre evidenziare, interessa due semplici presupposti (di fatto non più considerati nei sistemi tradizionali) che riguardano il processo di apprendimento: tutti gli esseri viventi possiedono dalla nascita una predisposizione naturale ad apprendere; la molla essenziale di tale apprendimento è costituita dalla motivazione. Rispetto alla prima accade che nelle nostre scuole tale forza viene progressivamente sostituita dall’organizzazione autoritaria del processo di istruzione e va progressivamente scemando con lo sviluppo dell’età e il progredire della frequenza scolastica; la seconda non viene sistematicamente coltivata ma progressivamente depauperata dall’imposizione di obiettivi esterni al soggetto sostituendo la sua natura intrinseca al soggetto con una estrinseca propria del sistema.

Questi due elementi costituiscono forse le principali cause interne del fallimento del sistema istruttivo. Nello stesso tempo la valorizzazione dei medesimi presupposti è alla base dell’organizzazione delle scuole democratiche e libertarie.

Insegnanti, genitori, educatori, studenti, di queste realtà così variegate si incontrano, annualmente in un paese diverso, per uno scambio di analisi, riflessioni, esperienze concrete, dando vita a una occasione di confronto molto partecipata e autogestita (I.D.E.C. International Democratic Education Conference)[8]. In uno di questi meeting, precisamente a Berlino nel 2005, siamo pervenuti a definire, in maniera molto sintetica ma efficace, la sintesi estrema del senso educativo a cui si ispirano queste realtà:

Crediamo che in qualsiasi contesto educativo, i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze abbiano il diritto di decidere individualmente, come, quando, che cosa, dove e con chi imparare e abbiano il diritto di condividere, in modo paritario, le scelte che riguardano i loro ambiti organizzati, in modo particolare le loro scuole, stabilendo, se ritenuto necessario, regole e sanzioni.

In queste poche frasi sono contenute le principali indicazioni circa le caratteristiche peculiari di questa proposta di cambiamento.

La molteplicità e la varietà dei curriculi

Già William Godwin denunciava l’insostenibilità di focalizzare l’organizzazione dell’apprendimento attorno a un unico e generale curricolo poiché è impossibile garantire le medesime condizioni di partenza e valutare le singole specificità e talenti uniformando i percorsi di apprendimento. La definizione di un profilo generalizzato di uscita, che le istituzioni scolastiche mettono come obiettivo del termine del percorso educativo, deve essere sostituita, e così avviene in queste scuole democratiche, da una concentrazione dell’azione su ogni singolo percorso individuale che tenga conto delle distinte caratteristiche di ognuno. In questo modo il curricolo uniformante e generalizzato viene sostituito da una molteplicità di percorsi e da una varietà di prospettive: ci potrà essere quindi un curricolo coerente con lo sviluppo delle tappe evolutive e dell’età, uno fondato sullo sviluppo degli interessi individuali e sulle curiosità personali, uno che intercetta e analizza gli assi portanti e trasversali delle singole discipline, e molti altri ancora.

Questa necessità di uscire da una logica uniformante e omologante, costruita attorno a un modello di istruzione gerarchico e burocratizzato, si coniuga con la convinzione di dover capovolgere la logica tradizionale dei sistemi scolastici che mette al centro l’insegnamento (cioè l’adulto) rispetto all’apprendimento (il bambino). Le scuole tradizionali sono concentrate esclusivamente, e/o prioritariamente, sulla centralità delle azioni di insegnamento, mentre le scuole democratiche capovolgono questa prospettiva, mettendo al centro i tempi, i modi, le esigenze dell’apprendimento, da cui devono discendere tutte le cadute organizzative e strutturali dell’organizzazione scolastica. Questa sarebbe la prima e vera riforma (a costo zero) di un sistema scolastico ormai asfittico, inefficace e produttore di selezione cosiddetta meritocratica.

Francisco Ferrer, Maria Montessori, John Dewey, John Holt, Alexander Neill, e molti altri ormai inascoltati pedagogisti, ci hanno lasciato pagine illuminanti attorno a questa questione, ma anche dalla cultura orientale possiamo attingere a sagge meditazioni su questo aspetto dell’educazione (Vinoba, Krishnamurti, ecc.). Gli studi di Howard Gardner sulle intelligenze multiple, quelli di Daniel Goleman sull’intelligenza emotiva e di Gregory Bateson sull’ecologia della mente (solo per citare alcuni contributi), se applicati coerentemente, non possono che confermare che la pratica educativa delle esperienze libertarie va in questa direzione e trasforma nei fatti l’impostazione curricolare tradizionale. Le scuole di Rebecca Wild a Quito, quella di José Pacheco in Portogallo, il Liceo Autogestito di Parigi o di Oslo, Summerhill o la Sands School inglesi, e molte altre, hanno lavorato molto attorno a questa prospettiva, confermandone la validità e la radicale mutazione di prospettiva.

Ma è stato Paul Goodman (1911-1972), con la sua idea di educazione incidentale, che per primo ha messo in luce quanto sia importante considerare la centralità di un apprendimento che nasca dall’incidente (vale a dire dall’occasione e dalla domanda) e che ne ha indicato alcune possibili alternative organizzative[9]. L’azione di veri riformatori libertari dovrebbe consistere secondo Goodman nello sviluppare funzionalità intrinseche e ridurre il potere estrinseco. Egli insiste su due principi particolarmente: educare i giovani sempre all’interno della loro libera scelta; la motivazione naturale all’apprendimento si esprime al meglio in termini di risposta al mondo reale[10]. Per queste ragioni i libertari sono contrari a un programma stabilito preventivamente dall’insegnante: se lo scopo è aiutare il ragazzo o la ragazza a diventare indipendenti prendendo parte a scelte reali allora è essenziale affidare l’iniziativa scolastica al discente. E ciò vale sia per cosa si impara sia per come lo si impara. Il programma viene dunque modellato sui bisogni e sugli interessi espressi dagli studenti e sviluppato nel corso del tempo necessario e, conseguentemente, l’orario scolastico giornaliero e settimanale si adatta, per quanto possibile, a queste istanze. Le false partenze che inevitabilmente si manifestano diventano, unitamente alla valorizzazione dell’errore, perfettamente legittime, perché è proprio così che si impara e soprattutto si acquisiscono conoscenze profonde e non superficiali.

Nelle scuole libertarie il programma non è concepito come un prodotto ma come un processo: l’importanza è assegnata più al fare esperienza degli individui nel gruppo piuttosto che alle conoscenze predefinite da trasmettere. In questo modo cosa è stato appreso emerge come risultato del come si è appreso. Il programma curricolare che si sviluppa, nelle esperienze di cui stiamo parlando, è il risultato di un processo di discussione e di confronto nel gruppo, divenendo questo stesso percorso parte qualificante di ciò che viene appreso. Questa insistenza sul processo e non sul prodotto è importante perché è proprio il processo che interessa, in quanto sviluppa la capacità del discente di sapere ciò che vuole, di saperlo esprimere e di attuarlo attraverso l’azione concreta e sperimentale. In questo quadro va da sé che la frequenza alle lezioni è lasciata libera e non obbligatoria. Qui esistono diverse opzioni che vengono sperimentate: scuole dove questa possibilità è totale, altre dove esistono delle mediazioni che prevedono parte di obbligatorietà e parte di opzionalità. Ciò che conta, nei diversi gradi di attuazione e di sperimentazione, è che il principio della libertà di scelta, rispetto alla frequenza, sia garantito in forme e tempi che sono nel singolo contesto praticabili e negoziabili. Inoltre l’idea, dominante nelle pedagogie tradizionali, della linearità del processo di conoscenza, viene qui sostituita da una pratica di circolarità a spirare che, partendo dalla domanda, via via si evolve e, attraverso il ruolo positivo dell’errore, ritorna a un livello di volta in volta più elevato a farsi conoscenza attiva e ricerca condivisa. In questo modo vi è un passaggio da un’area di non conoscenza a una di conoscenza, continuamente e sistematicamente, che favorisce un’idea di costruzione del sapere fondato sull’esperienza e non sulla trasmissione.

La molteplicità dei curricoli possibili dunque stimola un apprendimento pluralistico che si nutre con continuità in uno spazio che le scuole tradizionali considerano del “tempo perso”, perché avviene al di fuori delle strettoie di un controllato e unico curricolo[11]. Nelle scuole che si rifanno all’esempio della Sudbury School statunitense (modello diffuso ormai in diversi altri paesi) addirittura non ci sono lezioni e agli insegnanti della scuola non si richiede di proporre attività perché questo influenzerebbe gli studenti, i quali devono decidere da soli cosa vogliono fare. Alla Fundacion Educativa Pestalozzi di Quito l’ambiente è organizzato in modo che vi siano varie opportunità di apprendimento e di gioco tra le quali i bambini sono lasciati liberi di scegliere. La Sands School prevede un orario dettagliato delle lezioni che però sono volontarie, così come in altre scuole israeliane o neozelandesi, tedesche come la Kapriole di Friburgo (esempio di sperimentazione autorizzata dal ministero) o la Tokyo Shure giapponese. All
a Puerto Rican High School di Chicago, situata in un quartiere dove imperversa la guerra tra bande giovanili, gli studenti sono tenuti, una volta entrati a scuola, a frequentare le lezioni e i ragazzi e le ragazze apprezzano questa rigidità perché offre loro un senso di sicurezza che contrasta con la precarietà delle loro vite esterne.

Il posto dell’insegnante

Il ruolo dell’insegnante in questi ambiti educativi è certamente diverso da quello a cui siamo abituati nelle scuole tradizionali. Innanzitutto l’assunzione di una postura di profondo e autentico rispetto nei confronti dei bambini e delle bambine, dei ragazzi e delle ragazze, esige un lavoro di autoformazione e di confronto di gruppo notevole e profondo. Non ci si improvvisa insegnanti in questi contesti così dinamici e aperti, è indispensabile mettersi alla prova soprattutto con se stessi e accettare di essere valutati, cosa che avviene in tutte queste esperienze, direttamente dagli stessi alunni e studenti.

Dalla mia esperienza diretta in queste scuole posso affermare che questo giudizio viene responsabilmente espresso tenendo conto di alcuni elementi. Per prima cosa vi è una sorta di spontaneo ed empatico apprezzamento della reale e profonda sincerità del rispetto che è manifestato da parte dell’adulto. Questa considerazione è percepita immediatamente e misurata in termini di relazione empatica e non viene mai confusa con atteggiamenti falsi e costruiti di complicità, amicalità, liberalità. A essere valutata è la sincerità, così come la trasparenza, dei comportamenti adulti; ognuno è considerato per quanto è fino in fondo se stesso. La seconda opzione considerata è la preparazione professionale e la capacità di stare dentro la relazione di apprendimento e non sopra di essa: saper stimolare le continue domande piuttosto che essere inclini a testare le “giuste” risposte. Scoprire qual è l’interesse del bambino e aiutarlo a coltivarlo è, come ripeteva Neill, il compito vero e profondo dell’insegnante. L’essere adulto è una caratteristica che non va negata ma anzi valorizzata, tanto quanto quella dell’essere bambino che non va considerata come uno stato di inferiorità o di minorità. Si tratta di rapporti delicati, sottili, fragili, ma fondamentali in una relazione educativa. Da questo punto di vista va da sé che i titoli accademici non sono certo sufficienti per far si che un insegnante sia veramente tale, molto invece dipende da queste condizioni e soprattutto, nelle scuole democratiche, ciò che diventa importante è stare in situazione, misurarsi continuamente con nuove sfide, praticare questi principi coerentemente.

Lavorare in questi ambienti non è facile ma è sicuramente gratificante. L’autorità codificata e istituzionalizzata derivante dal ruolo gerarchico è sostituita veramente da un’autorevolezza che si afferma momento dopo momento attraverso un comportamento coerente e autenticamente rispettoso e amorevole. Il posto che l’insegnante occupa non è al centro del processo ma è complementare nel dare il proprio aiuto, la propria professionalità, al processo in corso senza introdurre scopi e nozioni estranee al gruppo stesso. La sua è una funzione di mèntore e di agevolatore del processo di apprendimento mettendo tutta la sua esperienza e tutte le sue conoscenze realmente al servizio degli interessi e delle domande dei discenti, senza mai sostituirsi o sovrapporsi a questa comune e condivisa ricerca. I ruoli quindi non sono rigidamente fissati ma tutti gli attori sono di volta in volta protagonisti e attivi ricercatori in una dinamica di apprendimento-insegnamento-apprendimento senza fine. D’altronde se la frequenza alle lezioni è libera, solo chi è in grado di rappresentare una figura rilevante e competente, oltre che rispettosa ovviamente, potrà trovare i posti occupati e non aule deserte.

La pratica della democrazia

La formulazione partecipata delle decisioni costituisce il cuore della democrazia che governa queste scuole. Se infatti l’obiettivo principale di questo tipo di educazione è quello di sviluppare in tutti l’autonomia, darsi delle regole e saperle responsabilmente rispettare diviene centrale e irrinunciabile. In tutte queste esperienze, con periodicità calzante e sistematica, si tengono dei veri e propri meeting nei quali tutti i partecipanti (a vario titolo presenti) all’attività della scuola, si riuniscono e paritariamente esprimono il loro voto su tutte le questioni che riguardano la vita quotidiana della loro realtà educativa. In qualche situazione si procede a maggioranza, in altre all’unanimità, secondo le sensibilità e il rispetto che deriva dal sentirsi parte attiva e protagonista della vita comunitaria. Assistere a queste riunioni sia con bambini piccoli[12] che con i più grandi, con adolescenti arrabbiati e confusi e alunni motivati e proiettati verso obiettivi ambiziosi, con adulti ormai formati con ruoli anche di responsabilità più generali e giovani che ricoprono ruoli di tutoraggio nei confronti dei più piccoli, è una vera lezione di democrazia. Queste occasioni di confronto e di presa di posizione costituiscono i momenti centrali dell’intera vita scolastica: la democrazia non viene insegnata stancamente e freddamente ma praticata sistematicamente e valutata con regolarità.

In questi spazi le regole diventano strumenti indispensabili della vita in comune e non imposizioni snaturate e pressioni gerarchicamente predeterminate. Regole e sanzioni (quando espressamente previste sempre decise assieme e sempre ispirate alla logica del riparare il danno piuttosto che moralmente a punire) sono varie, numerose, ma modificabili e modificate continuamente. Così nello sviluppo individuale dell’autonomia la relazione comunitaria acquista la concreta agibilità condivisa. Non c’è spazio per affermazioni egocentriche di adulti frustrati o bambini capricciosi perché questi atteggiamenti (che ovviamente si presentano soprattutto all’inizio della propria partecipazione a queste comunità) sono continuamente misurati e mediati dalla centralità della vita comune stessa. Ciascuno è incoraggiato in questo modo a esprimere la propria vocazione, il proprio talento, la propria sensibilità, senza discriminazioni di varia natura e origine. Naturalmente si manifestano anche insuccessi, conflitti, competizioni, che vengono però temperati da una modalità di confronto veramente democratica, suggerendo la considerazione che un percorso di questo tipo è lungo, faticoso, ma sicuramente fondativo di una vera democrazia che non si può in alcun modo coniugare con estensioni troppo grandi (ecco perché queste scuole quando raggiungono una dimensione che non permette concretamente questo confronto diretto e non mediato si scindono dando vita a un’altra esperienza simile). Il conflitto è naturale in comunità libere e quindi va non solo lasciato emergere ma anche gestito in modo diverso. Diviene pratica della democrazia anche accettare le sanzioni che la piccola comunità decide di erogare nei confronti della non osservanza della singola regola.

A Summerhill, ad esempio, in una delle due assemblee settimanali, ogni bambino/a può portare all’attenzione di tutti danni o soprusi vissuti e chiedere che il gruppo si pronunci direttamente. Colui che viene accusato ha tutti i diritti di esprimere la propria valutazione, di formulare le proprie considerazioni, ma quando l’assemblea si &egra
ve; espressa, sa che deve accettare quanto deciso. Questa non è una situazione infrequente e pertanto è accettata serenamente. In realtà di più grandi dimensioni, come a Hadera in Israele, esiste un vero e proprio comitato rappresentativo di tutti al quale è demandata l’eventuale decisione, dando spazio a tutte le opinioni e a tutte le giustificazioni che sono emerse. Ma assistendo a queste pratiche, ciò che rappresenta un vero salto di qualità rispetto all’idea di giustizia a cui siamo tristemente abituati, è proprio come l’atteggiamento culturale diffuso, dai bambini più piccoli agli adulti, sia sostanzialmente diverso. Non c’è sete di vendetta, non si vive persecuzione, non si assolutizza un’idea astratta di giustizia, ma sistematicamente, con serietà e disponibilità, si discute, si ragiona, ci si confronta, e soprattutto si rispettano le decisioni senza bisogno di repressione. Questo accade nella stragrande maggioranza dei casi ovviamente, non mancano anche in questo caso gli insuccessi ed è qui che può entrare in campo la figura del tutor, che può essere un compagno più grande o un adulto, scelto liberamente e non imposto ovviamente, che continua il dialogo con le varie componenti del conflitto testimoniando l’interesse dell’intera comunità per ognuno.

La pluralità delle metodologie didattiche e la valutazione costruttiva

La logica dei premi e delle punizioni appartiene a quella che abbiamo definito motivazione estrinseca che ha rivelato tutta la sua incapacità di stimolare, tranne in pochi e omologati casi di addestramento, un profondo apprendimento all’interno delle scuole tradizionali. Se lo scopo è quello di sviluppare la motivazione intrinseca, perché unica possibile garante di un apprendimento profondo e non superficiale, occorre concepire sia l’utilizzo di metodologie didattiche diverse che di una valutazione dei risultati ispirata e praticata in modo diverso. Nelle scuole libertarie le metodologie didattiche sono strettamente legate e coerenti con il progetto complessivo. Ciò significa che le tecniche operative e i metodi praticati nel processo di apprendimento non sono riconducibili a un’unica visione ma sono molteplici e variegati. Ciò innanzitutto perché, non dimentichiamo, la centralità è sempre il processo di apprendimento e quindi ogni singolo stile di acquisizione delle conoscenze, per cui sarebbe impossibile praticare una metodologia uniformante ed esaustiva. Metodo Montessori, attivismo pedagogico, tecniche Freinet, cooperative learning, didattica laboratoriale, ecc., sono di casa nelle pratiche quotidiane, ma sempre utilizzati in quanto coerenti con l’idea di fondo, che è sempre la domanda che può produrre un apprendimento consapevole e profondo, è sempre l’interesse che suscita lo studio personale e collettivo, è l’incidentalità il motore reale e attivo della ricerca. Entrando in ciascuna di queste esperienze questa varietà di mezzi e strumenti è subito visibile, le aule e le stanze che accolgono le varie attività sono modellate e strutturate in modo tale da permettere la pratica laboratoriale e non strutturate in maniera uniforme e standardizzata. Sono scuole queste dove non ci sono ostentazioni di grandi e costosi mezzi, di sussidi e tecnologie soffocanti, ma la percezione che si ha è sempre quella di una grande utilizzazione di innumerevoli occasioni e di variegati materiali spesso recuperati e riutilizzati. Sono veri e propri laboratori artigianali dove l’apprendere è il risultato del fare partecipe e stimolante, dove la riflessione teorica è sempre strettamente collegata a questo processo attivo e produttivo.

Coerentemente anche la valutazione assume dei connotati diversi da quelli a cui siamo tradizionalmente e generalmente abituati. In questi ultimi anni nuove e invasive tecniche valutative hanno trasformato ancor di più il senso autentico della valutazione stessa. Infatti ormai domina una filosofia comune centrata su un approccio quantitativo e fatta di misurazioni standardizzate (l’INVALSI ne è un esempio), completamente estranee dal contesto quotidiano dell’apprendimento e dell’insegnamento. Queste tecniche hanno trasformato l’intero sistema di istruzione diventandone il presupposto e non la conseguenza. Hanno la pretesa di misurare ciò che non è misurabile (come le competenze) e inducono a insegnare solo ciò che è misurabile e si ritiene tale: la qualità è fatta coincidere con la quantità[13].

Nelle scuole libertarie al posto del giudizio viene praticata e valorizzata l’osservazione e la registrazione del risultato mettendo al centro il processo rispetto al prodotto. Alla Sands School nel Devon in Inghilterra (solo per fare un esempio) ogni insegnante delinea un suo programma di lavoro con obiettivi semplici, chiari ed espliciti, concordati e discussi con gli allievi, ogni studente poi valuta il proprio percorso e i suoi risultati. Le rispettive valutazioni vengono sempre messe a confronto con la mediazione di un tutor (scelto da ogni ragazzo o ragazza) e qualora siano discordanti discusse e riviste assieme. Il programma e gli obiettivi poi sono ridefiniti e concordati sulla base di questi confronti in modo da poter testare sistematicamente lo stato del percorso e rimodellare le azioni seguenti. La logica della valutazione quindi viene capovolta e liberata dal giudizio morale sulla persona. Così anche l’insegnante è valutato nel suo operare e sono richieste continue modifiche al suo approccio. Se l’obiettivo non è perseguito significa che è troppo distante dalla reale situazione, oppure che la metodologia usata è insufficiente o sbagliata. Se lo scopo non è giudicare ma produrre apprendimento va da sé che la valutazione è strumentale e non definitiva. Tutto ciò sviluppa quel processo di autovalutazione continua che solidifica l’autonomia individuale e la responsabilizzazione di ciascuno e dell’intera comunità educante. L’apprendimento è costruzione sociale e non solo operazione individuale e l’intero contesto relazionale è spazio e luogo di una comprensione di qualità. Queste pratiche valutative sono funzionali al lavoro, non un rito da tribunale, servono all’apprendimento perché gli errori sono strategici e il riconoscerli, senza l’assillo del giudizio della penna rossa, è fondamentale. Qui gli studenti non nascondono le inesattezze all’insegnante, non hanno bisogno di copiare, di falsificare i loro risultati. Naturalmente tanti sono i materiali didattici autocorrettivi che sono prodotti e testati nelle pratiche quotidiane per favorire proprio questo processo di autonomia e responsabilità. La conformità della giusta risposta, tipica della scuola tradizionale, viene sostituita dalla domanda continua e mai illegittima perché nessuno attende qualcuno al varco della valutazione unidirezionale standardizzata.

Tutto perfetto? Aspetti critici e problemi aperti

Ovviamente la risposta alla domanda è no. Infatti tanti sono, per fortuna, i problemi ancora aperti, che sommariamente possono essere così elencati: queste esperienze sono ancora minoritarie e pertanto presentano vantaggi e svantaggi di questa situazione; i finanziamenti, tranne poche eccezioni come in Danimarca, in Nuova Zelanda, la scuola Amorin Lima di San Paolo in Brasile (ad esempio), sono sostanzialmente a carico delle famiglie e quindi presuppongono una vera scelta a priori e rischiano di escludere da queste possibilità altri ragazzi/e interessat
i (in tutte queste esperienze però esistono delle forme di sostegno e di solidarietà che in parte attenuano questo problema); non è ancora stata prodotta una generale valutazione dei risultati quantitativi dell’apprendimento in grado di dare una risposta più complessa a questo aspetto, ma esistono interviste, testimonianze, report, che evidenziano come accanto sicuramente a una migliore motivazione e a una qualità indubbiamente più profonda delle conoscenze, possa persistere il rischio che una certa dispersività possa caratterizzare i risultati letti con un’ottica tradizionale. Le due esperienze a noi più vicine, quella dei Saltafossi di Bologna e Kheter di Verona, i cui alunni sostengono annualmente gli esami in una scuola tradizionale, ci testimoniano risultati sempre positivi. Certamente la qualità dell’autonomia, dell’espressività, della creatività, della responsabilità, è eccellente. Poiché sicuramente quello di essere felici è un obiettivo fondamentale per ciascuno di noi, mi piace concludere ricordando quello che abitualmente Neill rispondeva alle tante domande che gli venivano rivolte intorno a questa ultima questione. Neill ripeteva che nella vita è meglio diventare uno spazzino felice che un primo ministro frustrato, e che la società da questa prospettiva ha solo da guadagnarci.

Brevi conclusioni

In questo articolo ovviamente non si è potuto dar conto di molti altri aspetti e anche quelli affrontati sono solo riassunti. Ciò che mi preme sottolineare è che veramente la logica va radicalmente cambiata nella prospettiva che educare è educare a essere (ciò che si è e si desidera diventare) e non a dover essere (ciò che qualcun altro a vario titolo pensa che ognuno di noi debba divenire), che il centro deve essere il bambino (l’apprendimento) e non l’adulto (l’insegnamento). Uno dei grandi maestri, l’ebreo polacco Janusz Korczak[14], protagonista di un’esperienza educativa libertaria nel ghetto di Varsavia, ci ricorda con la sua vita e la sua tragica morte, cosa significhi veramente rispettare i bambini e in nome di questo rispetto, ogni sincero educatore, ha il dovere di provarci.

NOTE

[1] Cfr.: F. Codello, La buona educazione. Esperienze libertarie e teorie anarchiche in Europa da Godwin a Neill, FrancoAngeli, Milano, 2005. Inoltre vedi anche: R. H. Haworth, Anarchist Pedagogies: Collective Actions, Theories, and Critical Reflections on Education, PM Press, Oakland, 2012; J. Suissa, Anarchism and Education, Routledge, London, 2012; M. P. Smith, Educare alla libertà, Elèuthera, Milano, 1990, J. Spring, L’educazione libertaria, Antistato, Milano, 1981; G. Chambat, Pédagogie et révolution, Libertalia, Imprimé en Italie, 2011.

[2] F. Ferrer, La scuola moderna, La Baronata, Lugano, 1980. Sull’attualità delle idee e delle pratiche della Escuela moderna di Ferrer vedi: D. Gribble, Good news for Francisco Ferrer. How anarchist ideals in education have survived around the world, in: J. Purkis and J. Bowen (edited by), Changing anarchism. Anarchist theory and practice in a global age, Manchester University Press, Manchester, 2012; S. Wagnon, Francisco Ferrer une éducation libertaire en héritage, ACL, Lyon, 2013.

[3] Cfr.: F. Codello, La buona educazione… , cit., pp. 380-417.

[4] Su Summerhill e Neill la bibliografia e la filmografia è ampia. Indispensabile comunque almeno citare l’opera dell’educatore inglese più conosciuta: I ragazzi felici di Summerhill, Red edizioni, Como, 2012. Per una panoramica generale delle esperienze di educazione libertaria e delle scuole democratiche che si sono sviluppate soprattutto a partire dagli anni sessanta del novecento vedi: R. Miller, Free Schools Free People, State of University of New York Press, Albany, 2002; Id., The Self-Organizing Revolution, Brandon, 2008; D. Gribble, Real Education. Varieties of Freedom, Lib Ed, Bristol, 1998; J. Shotton, No Master High or Low: Libertarian Education and Schooling, 1890-1990, Lib Ed, Bristol, 1993; J. Mintz, No Homework and Recess All Day, Bravura Books, Printed in USA, 2003; M. Hern (Edited by), Everywhere All the Time: A New Deschooling Reader, AK Press, Edinburgh, 2008; F. Codello, Vaso, creta o fiore?, La Baronata, Lugano, 2005.

[5] Rimando qui solo a due miei precedenti saggi di analisi del sistema scolastico contemporaneo: La pedagogia delle competenze e la meritocrazia, in: Libertaria, a. 13 n. 1-2; Milano, gennaio-giugno 2011; L’educazione libertaria alla prova dei fatti, in: L. Lanza (a cura di), L’anarchismo oggi. Un pensiero necessario, Mimesis, Milano-Udine, 2013.

[6] Un interessante testo che esemplifica bene la critica alla concezione adulto-centrica imperante nell’educazione contemporanea è quello di Stefano Laffi, La congiura contro i giovani, Feltrinelli, Milano, 2014.

[7] Un interessante articolo che evidenzia sinteticamente la varietà di pratiche e la complessità delle ispirazioni che presiedono a queste scuole è: Miller R., A Map of the Alternative Education Landscape, in: Paths of Learning, Usa, n. 20, Spring 2004.

[8] Esistono poi anche organizzazioni in diversi paesi o continenti come ad esempio l’EUDEC (European Democratic Education Comunity).

[9] Cfr.: P. Goodman, Summerhill, esperienza di educazione incidentale, in: E. Becchi (a cura di), Summerhill in discussione, Franco Angeli, Milano, 1975. Vedi inoltre dello stesso autore la bella antologia: Individuo e comunità, Eleuthera, Milano, 1995.

[10] Le scuole libertarie sono strutturalmente aperte sia negli spazi che nelle modalità organizzative alle influenze che provengono dall’esterno, esse condividono il loro sistema di apprendimento con le suggestioni, gli stimoli, le provocazione che la città, la campagna, le occasioni sociali e culturali offrono, filtrandone in modo critico tutte le indicazioni. Infiniti sono gli esempi che si possono ricavare dalla letteratura che esiste su queste scuole. Segnalo qui solo: F. Codello – I. Stella, Liberi di imparare, Terra Nuova Edizioni, Firenze, 2011. Un importante contributo a un uso diverso dell’ambiente nel processo di istruzione e nelle dinamiche educative ci deriva da due testi di Colin Ward: Il bambino e la città, L’ancora del Mediterraneo, Napoli, 2000; Talking Schools, Freedom Press, London, 1995.

[11] Per approfondire questi aspetti è interessante leggere il testo di Yaacov Hecht, fondatore in Israele della scuola di Hadera e direttore dell’Istituto per l’Educazione Democratica di Tel Aviv: Democratic Education. A beginning of a Story, Printed in Israel, 2010. Israele conta ormai oltre una ventina di scuole democratiche che sono attive in tutto il territorio interessando sia arabi che ebrei laici e religiosi e rappresentano un movimento attivo anche sul fronte pacifista e solidarista.

[12] L’atmosfera quasi sacra ma vivace e calda dell’assemblea della Park School inglese, frequentata da bambini in età di scuola dell’infanzia e primaria, sarebbe in grado di stupire e impressionare qualunque visitatore e capace di fargli cogliere veramente che cosa significa vivere la democrazia e quanto lontana sia la democrazia finta ed interpretata come gioco di ruoli che ta
lvolta, neanche tanto, si sperimenta nelle scuole italiane.

[13] Per un primo approccio critico a queste questioni vedi l’interessante fascicolo a ciò dedicato della rivista “Gli asini” (n. 18, Roma, ottobre-novembre 2013) dal titolo: Valutazione e meritocrazia.

[14] Korczak J., Il diritto del bambino al rispetto, Luni Editrice, Milano, 1999; Id., Come amare il bambino, Luni Editrice, Milano, 1996.

(8 settembre 2014)



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