Perché è improponibile un Concilio, tanto meno Vaticano
Luigi De Paoli
Nel 2012 molti cattolici rievocano con nostalgia i 50 anni dall’apertura del Concilio Vaticano II, voluto da Papa Giovanni XXIII quale inizio di un “aggiornamento”. La ricorrenza merita di essere celebrata, dato che essa segna una fase evolutiva della Chiesa cattolica, che: 1) non si auto-definisce più “società perfetta e diseguale”, ma “popolo di Dio”; 2) dichiara che l’uguaglianza e la libertà degli uomini non è più contraria alla ragione, contraddicendo la “verità” asserita da Pio VI nel 1791; 3) parla una lingua liturgica che è quella del luogo, non più quella degli aristocratici (latino); 4) predilge un tono pastorale e dialogico, non più basato sulla scomunica; 5) stabilisce che la salvezza non include solo i ”battezzati”, ma tutti coloro che sono animati da buona volontà.
Una delle conseguenze più importanti della “primavera conciliare” è stata la nascita e lo sviluppo di correnti teologiche e di gruppi laicali che reclamavano piena libertà di ricerca. Tutto ciò allarmava le forze conservatrici, le quali obligavano il nuovo papa, Paolo VI, a chiudere precipitosamente il Concilio, anche per sottarrre ai vescovi temi più scottanti, quali quelli legati alla sessualità, alla “pillola” e al celibato dei preti.
L’opposizione alle conclusioni conciliari si rinvigorisce con la nomina del nuovo papa, il polacco Giovanni Paolo II (1978), che, pur elogiando il Concilio, non tarda a svotarlo delle sue novità fondamentali, tra cui quella della “collegialità episcopale”. Per non lasciare dubbi sulla volontà di riportare al Medio Evo le lancette della storia, il papa emette un Codice di Diritto Canonico, privo di qualsiasi avallo ecclesiale, nel quale sancisce che il potere legislativo, esecutivo e giudiziario non può essere condiviso con i vescovi, ma deve restare concentrato nella persona del Vicario di Cristo. Il quale è anche l’amministratore unico dei beni economici e immobiliari della Chiesa. Essendo la fonte suprema della dottrina, può emanare encicliche e un voluminoso Catechismo, quale sigillo di verità indiscutibili.
Di fronte a questa auto-esaltazione del papato, ci si sarebbe aspettato che il miliardo di cattolici, ispirati dalle conclusioni dei Padri Conciliari, si sarebbero mossi per respingere tale ribaltamento. E, invece, nulla. Lo stesso dicasi quando Giovanni Paolo II si rifiuta di affrontare lo scandalo dei preti pedofili, l’esodo crescente dei fedeli dai sacramenti e lo svuotamento dei seminari. Data la portata di questi fatti sorge spontanea la domanda: come si può ragionevolmente sperare che un cambiamento profondo possa scaturire da un Concilio se, a distanza di cinquant’anni, fedeli, ministri e pastori continuano a sottomettersi ad un “padrone assoluto”, che tutto decide insindacabilmente, dalla liturgia, alla dottrina, alla diplomazia? Oltre tutto questa condotta è in aperta violazione del mandato evangelico, secondo cui “il più grande deve essere il servitore degli altri”. Ma se la Gerarchia non assolve a tale compito, anzi fa il contrario, esigendo ai suoi fedeli una filiale sottomissione, non è ipotizzabile che i Concili possano aiutare a costruire una fraternità coerente con il messaggio di Gesù. Se anche il Concilio Vaticano II, pur essendo stato gestito in modo democratico, è stato così platealmente contraddetto, non sarà il caso di pensare che i Concili siano irrimediabilmente viziati da una malformazione congenita?
Il Concilio ha una matrice imperiale, non ecclesiale
E’ da tutti riconosciuto che tanto il Vecchio come il Nuovo Testamento non fanno mai riferimento a Concili. I primi Cristiani ignorano tale terminologia. Per tre secoli le variegate comunità cristiane non mostrano alcun interesse nel comporre questioni dottrinali che, pur essendo vivaci, sono lasciate alla libera discussione delle varie correnti filosofico-teologiche. Più pregnanti sono i problemi sollevati dai neofiti provenienti dal paganesimo o dal giudaismo, o da quanti vengono meno agli impegni battesimali. Fin dal primo incontro di Gerusalemme, le incertezze e i contrasti tendono ad essere risolti tramite “compromessi”, utili a smorzare le intemperanze. Quando scoppiano tensioni laceranti, pastori e fedeli fanno ricorso a “sinodi” (syn=insieme; odòs=cammino), a conferma che la volontà comune è quella di “camminare insieme”, non di trovare una “riconciliazione” tra idee disincarnate.
Per comprendere la genesi malformante dei Concili, è giocoforza ricordare che chi ha avuto l’idea di indire il primo Concilio della storia del Cristianesimo è Costantino, un imperatore pagano, adoratore del Dio Sole. Allo scopo di interrompere gli scontri tra sostenitori (Atanasio) e negatori (Ario) della divinità di Gesù, nel 325 riunisce nel proprio palazzo di Nicea 300 vescovi orientali e tre delegati del vescovo di Roma. Costoro non decidono l’agenda della riunione, né possono discutere in piena libertà, essendo sotto la costante vigilanza di ispettori dell’imperatore, il quale fissa loro il compito di trovare una formula che sia in linea con le proprie mire: “Un Dio, un imperatore, un impero, una Chiesa, una fede”. I vescovi che respingono il “Credo” finale sono costretti a prendere la via dell’esilio. E’ la conferma che il Concilio deve assolvere, non alla composizione fraterna dei conflitti come prevede il Vangelo, ma agli interessi dell’imperatore, senza escludere modalità autoritarie e violente.
Il Concilio segna la divisione tra il popolo e la casta episcopale
Dopo Nicea tutti i Concili si distinguono come spazio destinato a discussioni di tipo logico-razionale-religioso, accessibili esclusivamente a maschi, celibi e vescovi. Da tali assemblee sono escluse le donne, dato che esse potrebbero introdurre sentimenti attinenti alla cura delle persone e della natura. La ragione per cui Costantino sceglie di avere come referenti i vescovi, non i teologi, è coerente con le istanze dell’impero romano, che ha bisogno di una organizzazione religiosa che sia alternativa al decadente sacerdozio pagano e dotata di un ethos amoroso, capace di accomunare popoli divisi da rivalità nazionalistiche e permanentemente minacciati da invasioni “barbariche. Dopo Nicea si accentua la scissione tra i semplici battezzati, considerati come gregge ignorante e sottomesso, e la casta sacerdotale, l’unica abilitatata a interpretare le Scritture, a stabilire riti, norme etiche e alleanze con il potere secolare. Quando l’imperatore Teodosio, nel 380, proclama il Cristianesimo “religione di Stato”, i vescovi diventano anche “funzionari” dell’impero, sovvenzionati con stipendi, beni immobiliari e chiese. Cessano di essere perseguitati e, sovente, si trasformano in persecutori di pagani ed eretici.
I Concili: una struttura “scismogena”
Fin dal primo Concilio, i dibattiti più infuocati vertono su sottigliezze teologico-lessicali, che, avendo la pretesa di stabilire verità divine, non sopportano mediazioni o compromessi. A Nicea si comincia a stabilire se ha ragione Ario, che sostiene che Cristo ha una natura sim
ile a quella del Padre (homoiusius), oppure identica, o consustanziale (homoousios). Il perdente Ario è scomunicato e i vescovi che lo sostengono sono dichiarati “decaduti”.
Successivamente l’accanimento teologico-metafisico passa dai dittonghi (iu/ou) alle preposizioni di/in. Una fazione sostiene che Cristo sia composto di due nature, mentre l’altra ritiene che in lui coesistano due nature, senza separazione né divisione. L’imperatore, per porre fine alla lotta fratricida e alla violenza di fanatici cristiani, armati di mazze e spade, convoca il Concilio di Calcedonia (451), dove la seconda tesi viene imposta in tutto l’impero. Questa prevaricazione imperiale produce, però, un ennesimo scisma: le Chiese Copta d’Egitto, Giacobinita di Siria, Etiope e Armena si distaccano definitivamente da quella Cattolica.
Nel settimo secolo la frattura tra i cristiani prende spunto dalla rivalità sulla congiunzione “e” (et/que, in latino). La formula “Credo nello Spirito Santo che procede dal Padre”, sottoscritta a Nicea, viene unilateralmente modificata nel Concilio “locale” di Toledo (633) in “procede dal Padre e dal Figlio” (Filioque). Tale variazione è avallata dal re di Spagna e, successivamente da Carlo Magno. Il vero scopo di quest’ultimo è provocare l’impero bizantino e affermare la propria candidatura al titolo di imperatore del Sacro Romano Impero. Quando il papa Benedetto VIII approva la decisione dell’imperatore Enrico II, che impone nel mondo germanico la formula alterata del Concilio di Nicea (il Filioque), la separazione della Chiesa bizantina da quella romana (1054) diventa insanabile e insanguinata da Crociate, stragi e saccheggi. Ragione per cui nel secondo millennio non si celebrano più Concili “ecumenici”.
Il Concilio “cattolico” di Firenze (1215) serve, soprattutto, a condannare le eresie dei Catari, dei Valdesi e degli Albigesi, che i principi cristiani sono tenuti a punire per “lesa maestà divina”. Decisamente atipico è il Concilio di Costanza, convocato, nel 1414, dall’imperatore tedesco, Sigismondo, per porre fine ad una dilaniante competizione tra ben tre papi, ciascuno dei quali ritiene illeggitima l’elezione degli altri due. La proposta dell’imperatore è vincente, perché pone come condizione per lo sviluppo del Concilio che i tre “papi” si dimettano.
Con Lutero si apre un nuovo scisma tra la Chiesa cattolica e le nascenti Chiese Protestanti. Il Concilio di Trento (1545-1563), non solo non riesce a favorire una conciliazione, ma approfondisce il solco. Divampano guerre fratricide tra Cattolici e Protestanti, che scuotono l’Europa per 30 anni (1618-48). Dopo il fallimento di Trento nessun papa si azzarda a convocare un Concilio. Ci prova, dopo 306 anni, Pio IX nel 1869. Ma deve chiuderlo precipitosamente, dopo aver proclamato il dogma della propria “infallibilità”. Anche questo Concilio (Vaticano I), avversato da Ortodossi e Protestanti, finisce con una spaccatura interna: 55 vescovi escono dall’aula per manifestare platealmente la propria opposizione al pontefice, sedicente infallibile.
I Concili sono incompatibili con lo Spirito Democratico
Se i Concili potevano avere senso in società monarchiche, costituiscono una aperta contraddizione in quelle democratiche, nelle quali il potere è gestito e condiviso dal popolo entro i limiti costituzionali che esso stabilisce. E’ un paradosso, se non uno scandalo, che la democrazia abbia messo radici nell’Occidente cristiano, ma non nella Chiesa cattolica e nella maggioranza delle Chiese cristiane, dove il popolo dei fedeli non ha alcuna voce nelle decisioni che riguardano la dottrina, i sacramenti, il diritto e l’organizzazione pastorale. Il fatto è tanto più imbarazzante se si pensa che il miliardo di Cattolici vive quotidianamente in sistemi partecipativi, in cui è normale criticare superiori, leggi e procedure, mentre accetta di essere degradato a semi-robot nella vita ecclesiale e nei riti. (1)
Questa condotta “schizofrenica” ha rilevanti conseguenze, sia in campo politico-economico che ecologico. Da una parte le gerarchie ecclesiastiche e i fedeli predicano che uomini e donne non solo sono uguali in dignità, ma sono anche “figli di Dio, dotati di qualità e potenzialità trascendenti. Contemporaneamente votano maggioritariamente per partiti e governi conservatori, che, per proteggere gli interessi delle classi benestanti e colte, abbandonano nell’indigenza e nell’arretratezza culturale la maggioranza del popolo. Non è un caso che le ingiustizie economiche e l’estensione dei latifondi assumano dimensioni scandalose proprio nelle nazioni cattoliche.
In campo ecologico la contraddizione è clamorosa: i cristiani sono noti per inneggiare al creato come opera divina sacra e intangibile, per cui ogni tentativo di interrompere o neutralizzare una gravidanza è peccato mortale. D’altra parte non battono ciglio quando le statistiche mondiali mostrano che essi vivono in nazioni che si segnalano per essere quelle che inquinano, avvelenano e saccheggiano la Madre Terra più di qualsiasi altra religione o popolo.
Alla luce di queste sintetiche considerazioni appare, quindi, improponibile qualsiasi ipotesi di “Concilio”, dato che esso è storicamente e teologicamente orientato in senso “scismogeno”, poiché promuove e mantiene una contrapposizione tra ortodossi ed eretici, capi e sudditi, maestri e allievi, padri e figli, uomini e donne. Tutto ciò è incompatibile con lo “Spirito Santo” della Democrazia, che invita tutti a sentirsi e a trattarsi come “fratelli”, che condividono alla pari la conoscenza e i beni della Creazione. Come se non bastasse, ogni Concilio si scontra con la testimonianza di Gesù, che ha chiaramente optato per una comunità aperta a tutti, siano essi indigenti, bambini, donne o emarginati. In maniera inoppugnabile egli contesta l’ordinamento tradizionale, per cui i suoi discepoli non possono pensare di attribuire, né a se stessi né ad altri, il titolo o il ruolo di “Maestro”, di “Capo” o di “Padre” (Mt 23, 8-10). Anche per questo è improponibile un Concilio in Vaticano, sede dell’assolutismo papale e dell’intransigenza secolare verso le altre confessioni cristiane.
La vita è un modello di auto-organizzazione
Se i veri discepoli del Falegname-guaritore-profeta hanno la missione d’instaurare rapporti di giustizia e di amore universale, è logico che essi debbano ripensare anche la propria organizzazione ecclesiale, a partire non da matrici confessionali o bibliche ma dalla dinamica della vita. Ancora una volta è il Nazareno ad avvertire i suoi ascoltatori che essi sono chiamati a ispirarsi al software dei “gigli dei campi” e degli “uccelli dell’aria”, non a quello dei sacerdoti del tempio o dei dottori della legge. La ragione è semplice: miliardi di specie di cellule, microbi, piante ed animali sono il prodotto di una rete che si sostiene attraverso la comunicazione, la collaborazione e l’aiuto mutuo. Da due miliardi di anni, fanno evolvere la vita, mantenendo la propria individualità e un costant
e collegamento con tutti i subsistemi. Per questo non sentono il bisogno di rapinare, accumulare beni, o dare ordini. Non hanno presidenti, gerarchi o supervisori. Essi si distanziano dai sistemi meccanici e gerarchici perché sono in grado di auto-generare la vita e di auto-mantenersi con il ricambio e lo scambio continuo tra i componenti.
La prospettiva dell’auto-organizzazione è familiare nelle scienze fisico-bio-sociali, ma è pressocché assente nelle discipline teologiche e nella predicazione cristiana, ancorata ad una visione creazionista e anti-darwinista, secondo la quale Dio non solo dà alla luce il mondo, ma lo ordina e lo sorveglia amorevolmente, in modo che esso obbedisca ad un suo disegno predeterminato. Questa cosmovisione è figlia di una logica padronale-autoritaria-imperiale, per cui tutto è nella mani del capo supremo, che stabilisce progetti, percorsi e traguardi, senza dover consultare nessuno. Se Chiese cristiane e Concili sono impantanati in strutture gerarchico-meccanicistiche è proprio perché mantengono una rappresentazione inconscia di Dio quale soggetto totalitario e anti-democratico, unico stratega dell’evoluzione, irrispettuoso delle facoltà di tutti i viventi. Quest’ultimi, come dimostra la scienza, sono equipaggiati con sofisticate strutture sensoriali, metaboliche, neuronali e generative che permettono loro di integrare due processi opposti: l’ordine interno e il caos, senza i quali non potrebbero evolvere creativamente. In tal forma il sistema della vita si mantiene intelligentemente stabile, pur essendo perturbato da eventi non programmati. Grazie ad una “criticità auto-organizzata”, tutte le parti, pur essendo interdipendenti, godono di una loro autonomia, che permette una costante differenziazione e una serie ascendente di specializzazioni di tessuti e di diversità di organi e di specie, tanto animali che vegetali.
Con le nuove protesi telematiche e lo sviluppo dei social network, l’autoorganizzazione s’incammina ad essere una realtà planetaria. Miliardi di cittadini del mondo, con un click sul computer o sul telefono, possono pensare di configurare la loro vita senza “capi, maestri o padri”, seguendo l’esempio dei sistemi viventi.
Questa realistica previsione rappresenta una sfida a Chiese e Concili che continuano ad essere sostanzialmente tele-comandati, in opposizione ad una creazione che, come insegnano “i gigli dei campi e gli uccelli dell’aria”, ha scelto – da tempo immemorabile – la strada imprevedibile dell’auto-organizzazione. E’ auspicabile che questa prospettiva ispiri nuove forme di aggregazione dei cristiani quali testimoni del Regno di Dio, dove la giustizia e la solidarietà sono impresse nel grande tempio della vita, in cui gli umani hanno come fratelli il “vento” e il “lupo”, e come sorelle “l’acqua” e la “morte”.
NOTE
(1) Queste tematiche sono oggetto di un approfondimento nel mio libro “Psicoanalisi del Cristianesimo”, edito da Di Girolamo Editore e reperibile nel sito www.tevere.org
(4 ottobre 2012)
MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.