Perché il razzismo. Qualche riflessione
Michele Martelli
Migliaia di manifestanti in marcia su Washington, altre migliaia per le strade delle principali città statunitensi, europee, italiane, al grido «No Justice No Peace». Il movimento antirazzista seguito all’assassinio di George Floyd sta scuotendo l’America e l’Occidente, come il Covid, forse più del Covid (a Bristol, in Gran Bretagna, è stata simbolicamente buttata giù dai manifestanti neri e affondata nelle acque del golfo la statua del più grande mercante schiavista inglese del Seicento, Edward Colsten). Ma se il Coronavirus è l’effetto del nostro disastroso rapporto tecno-consumistico con la natura, con gli eco-sistemi naturali, il razzismo invece è l’inevitabile «effetto» storico del Potere (= kratos, Macht, forza+dominio, politicamente organizzato, istituzionalizzato, legalizzato), o, meglio, di quello che lo storico tedesco antinazista Gerhard Ritter chiamava «Dämonie», il satanismo, «il volto demoniaco del Potere» (l’altro «volto» è l’ethos, la funzione etica dello Stato, finalizzata alla garanzia della libertà, dell’eguaglianza, della sicurezza e del bene pubblico). Satanismo da riferirsi non solo al nazismo, o al nazi-fascismo, ma al «lato oscuro», infernale del Potere in sé, visto nella totalità dei suoi aspetti: politico, militare, giuridico, economico, culturale.
Qualche rapido cenno alla nostra storia lontana e vicina non guasta. Anzi. Ci aiuta forse a capire meglio le tre principali fonti storiche del razzismo, ossia la guerra, il colonialismo, la proprietà, tre fattori strettamente e variamente intrecciati. Tutte implicano l’opposizione ideologica civiltà/barbarie, superiore/inferiore, identità/alterità.
La prima fonte storica del razzismo è lo schiavismo, conseguenza soprattutto della guerra, della violenza bellica. Tra le sue prime codificazioni scritte, come noto, è il famoso Codice del re babilonese Hammurabi (1792-1750 a.C.): un Idealtipo politico-giuridico-economico dove la società è divisa in tre classi: a) i «liberi», nobili e possidenti, titolari dell’uso delle armi; b) i «semiliberi», cioè liberi ma non possidenti e non armati; c) gli «schiavi», né liberi né possidenti, merce oggetto di compra-vendita. La classe «superiore» è ovviamente la prima, costituita dall’aristocrazia proprietaria e guerriera di fronte a cui l’«altro» è in primo luogo il «nemico», lo straniero, il diversamente pensante e parlante, il «barbaro» (in altri contesti storici il non-greco, il non-romano, il non-europeo, ecc.). Idealtipo non tanto antico e proto-storico, se pensiamo che, detto per inciso, il «Nuovo Ordine» di Hitler prevedeva un’Europa tripartita tra la razza bianca ariana, superiore, dominante, le stirpi latine, intermedie, e i popoli slavi est-orientali, da asservire o sterminare. (Una curiosità etimologica: il latino alto-medioevale «sclavus», schiavo, deriva dal nome dei popoli est-orientali secolarmente oggetto di conquista e asservimento da parte dei bellicosi popoli limitrofi). In ogni caso, per Hammurabi solo chi apparteneva alla nobiltà meritava il nome e la qualifica di «uomo» (per contro, lo schiavo era assimilato alla bestia).
Un ordinamento politico-sociale che troviamo in tutta l’antichità, dagli Imperi assiro-babilonesi a quello egiziano, dalla Città-Stato greca all’Impero persiano o romano. La causa originaria della caduta in schiavitù era innanzitutto la cattura in guerra, e secondariamente l’indebitamento: si diventava schiavo per legge se debitore insolvente e, ancor più, se prigioniero di guerra (captivus, dicevano gli antichi romani, onde il significato morale negativo di «cattivo»). L’ideologia giustificazionista faceva il resto: de-umanizzava lo schiavo, lo degradava a «strumento animato» (Aristotele); occultando della schiavitù le radici storiche (la guerra, il danaro, la proprietà), e cosi trasformandola, col tempo, in una condizione naturale, biologica, sub-umana, animalesca («schiavi per natura», per nascita: schiavi perché «nati» da schiavi, come cavalli da cavalli e asini da asini). Ancora Nietzsche, a fine Ottocento, parlava di «schiavismo» (Versklavung) e di «razza di signori e di schiavi», sentenziando nel contempo: «mai rendere eguale l’ineguale». Da ricordare che la schiavitù, in varie forme e gradi, è ammessa nella Bibbia ebraica, nel Nuovo Testamento e nel Corano. E che quindi ha anche una giustificazione teologica. Nella stele di Hammurabi, conservato al Louvre, il re babilonese, diversamente precorrendo Mosé, e, ovviamente, Cristo e Maometto, riceve la Legge da Šamaš, il Dio Sole. Per dire che la Legge imposta è sacra e inviolabile.
La seconda fonte storica del razzismo è il colonialismo moderno, sui cui si innesta lo schiavismo nero (Black Slavery) statunitense, che in questi giorni Joe Biden ha battezzato il «peccato originale che tuttora macchia e deturpa gli Usa», e a Noam Chomsky ha fatto dire che «l’America è fondata sulla schiavitù» («Il Manifesto», 7 giugno 2020). Mi riferisco alla conquista delle Americhe, all’Asiento, alla tratta dei neri, comprati a prezzi irrisori nei Regni islamici schiavisti o catturati e deportati come schiavi dalle coste atlantiche dell’Africa nelle colonie spagnole del Nuovo mondo (su questo tema, così come sul genocidio degli Indios, rinvio, sotto il riguardo storico, fattuale, alla scioccante Brevissima relazione della distruzione delle Indie, del 1552, di Bartolomè de Las Casas, Mondadori, 1992, e, sotto quello filosofico, antropologico, a La conquista dell’America. Il problema dell’«altro», di Tzvetan Todorov, Einaudi, 1984).
Negli Stati Uniti la schiavitù dei neri o afroamericani, utilizzati nelle piantagioni di cotone, caffè, ecc. degli Stati del Sud, risale al 1619 (400 anni fa). Da allora una serie di Leggi scritte, supportate da consuetudini fortemente radicate, ne codificano la legittimità, riconosciuta, entro certi limiti e condizioni, anche dalla Costituzione americana del 1788. Fino al XIII Emendamento, promulgato quasi un secolo dopo, nel 1865, da Abraham Lincoln, che ne sanzionava l’abolizione ufficiale, dopo un lungo, intricato violento conflitto politico, economico e ideologico tra schiavisti e antischiavisti, che aveva portato alla sanguinosa Guerra di secessione del 1861-64.
Solo col XV Emendamento, approvato nel 1870, gli afroamericani conquistano finalmente, almeno sul piano formale, il diritto di voto, ma il conflitto tra abolizionisti e antiabolizionisti procede ancora per lungo tempo, a zig zag, a livello federale e locale, tra ribellioni dei neri represse nel sangue dall’apparato statale e le feroci attività terroristiche del Ku Klux Klan e altre società criminali semi-segrete, specializzate nel lingiaggio dei neri. Due i punti fondamentali del loro «Credo» ideologico-religioso, saccheggiato in questi giorni nelle sue infelici esternazioni dal Presidente Trump, e che si ritrovano quasi simili anche nella dottrina nazista, in gran parte debitrice di Arthur Gobineau e del suo Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane, 1853-54, testo presto molto diffuso sin dall’Ottocento nella cultura
anglo-statunitense, oltre che tedesca, e alla base di ogni forma di razzismo biologico «[pseudo]scientifico». I due punti in questione sono: il suprematismo bianco (superiorità «per natura» della razza bianca sulle altre razze inferiori) e l’antiegualitarismo («l’eguaglianza va bandita per sempre», perché socialmente e politicamente «pericolosa»): li riassume l’acronimo WASP (White Anglo-Saxon Protestant).
Solo un secolo dopo, nel 1965, fu approvato il Civil Rights Act, a coronamento del Movimento per i diritti civili dei neri, il cui eroe-simbolo fu Martin Luther King. Il brutale omicidio di George Floyd, che ha originato le manifestazioni odierne, prova che il suo «sogno» di riscatto e di eguaglianza («I have a dream») è ancora, in gran parte, un sogno.
La terza fonte storica del razzismo è il potere economico, la contraddizione tra chi ce l’ha e chi ne è privo, tra classi e nazioni ricche e povere, e che, presente in tutte le società storiche, a cominciare da quella babilonese del Codice di Hammurabi, ha assunto nell’Occidente capitalistico moderno, fondato sull’«individualismo proprietario» e sull’oppressione coloniale, e ancor più nell’odierna epoca di neoliberismo globalizzato, dimensioni sempre più gigantesche e tragiche. Su di essa si declina ogni altra forma di diseguaglianza sociale: di condizioni materiali, di lavoro, di genere, di appartenenza etnica e religiosa, o relativa alla sanità, all’istruzione, al tenore di vita, ai consumi, ecc. Logiche di esclusione, divisive, discriminatrici, che hanno nel razzismo la loro suprema giustificazione e motivazione.
Gli Stati Uniti, in positivo e in negativo, ne sono un modello esemplare. Da un lato il paese più ricco, opulento e pieno di opportunità al mondo, della libertà delle donne, del più ampio pluralismo multietnico e multireligioso, e così via, dall’altro il paese della povertà relativa più alta al mondo (l’1% più ricco detiene il 40% della ricchezza nazionale), della religione civile nazional-imperiale del Manifest Destiny (o del «God bless America»), della violenza antiabortista, della segregazione dei neri, dell’odio contro le minoranze etniche, ecc. – Contraddizioni reali, oggettive che, quasi superfluo notarlo, stridono col Primo articolo della Dichiarazione di indipendenza americana del 1776, che anticipa quella francese del 1789, per cui «Tutti gli uomini sono creati uguali», tutti dotati «dei diritti inalienabili alla Vita, alla Libertà e al perseguimento della Felicità».
Se di questi tre tratti principali è fatto, ovunque e sempre, ma ancor più ai giorni nostri, il cosiddetto «volto demoniaco del Potere», lo slogan antirazzista «No Justice No Peace» gridato oggi nelle piazze di mezzo mondo chiama invece e invoca, restando nella metafora teologica, l’altro volto del Potere, opposto, luminoso, virtuoso, costituzionalmente democratico, finalizzato alla garanzia di giustizia e libertà, per tutti e per ciascuno. Poiché negli Usa e dovunque, il Potere, la sua organizzazione, le sue finalità, le sue leggi sono umane, irriducibilmente umane, opera nostra e solo nostra e non di un presunto Dio/Sole, o Creatore del sole, dipende da noi, dalle nostre idee, scelte e azioni, se poi prevale l’uno o l’altro dei due volti di questo Giano bifronte.
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