Perché l’Europa si fa beffare da Viktor Orbán

Francesca De Benedetti


Se non fosse la Storia, ma soltanto una storia, “la sfacciata Ungheria e la timida Europa” avrebbe toni da commedia brillante o farsa. Il protagonista cattivo Viktor Orbán sorprenderebbe tutti con la sua genialità, la destrezza che rende difficile disinnescarlo e che vivacizza il racconto. Ma la Storia non concede semplificazioni, e soprattutto qui si scivola nel tragico, visto che c’è pur sempre una Europa che si lascia beffare. Vediamo come e perché: partiamo da Budapest.

“Non ho tempo per occuparmi delle vostre fantasie!” scrive il primo ministro ungherese Orbán, il 3 aprile, in una lettera rivolta al segretario del Partito Popolare Europeo Antonio López-Istúriz White; sono i giorni in cui la famiglia popolare europea fa fatica a gestire l’imbarazzo per la scalata del suo membro ungherese ai “pieni poteri”. Lunedì 30 marzo infatti il parlamento di Budapest ha appena consegnato, con 138 voti a favore e 53 contro, un vero e proprio assegno in bianco al premier: con l’alibi dell’emergenza da coronavirus, lui potrà governare a colpi di decreto, e soprattutto potrà farlo per un tempo indefinito. Sappia il lettore che nel 2015 il governo ungherese dichiarò lo “stato di crisi per immigrazione di massa”; e quello stato di crisi è stato protratto anche quando la media di ingressi illegali giornalieri è diventata prossima allo zero. C’è di più: il provvedimento votato il 30 marzo contiene una parte insidiosa per la libertà di informazione (e di opposizione); chiunque osi turbare la verità ufficiale con notizie ritenute false oppure allarmiste rischia la prigione.

La mossa di Orbán per i pieni poteri raccoglie il plauso di alcuni (tra i nostrani, il leader leghista Matteo Salvini esulta, Giorgia Meloni per FdI ricorda che “il premier è stato scelto dagli ungheresi”); ma soprattutto scandalizza una vasta fetta dell’opinione pubblica europea. Così alcuni leader di partito che fanno parte del PPE sottoscrivono una richiesta di espulsione di Fidesz – la formazione politica di Orbán – dalla famiglia popolare d’Europa. Già da tempo, del resto, il PPE si barcamena con la “sospensione” del partito ungherese, che si protrae nel tempo senza però mai trasformarsi in una vera cacciata. La scalata ai “pieni poteri” ora smuove ad ogni modo una fetta del gruppo: a vergare una lettera con richiesta di espulsione di Fidesz ci sono il primo ministro greco Mitsotakis, i conservatori di Belgio e Lussemburgo, un folto gruppo di leader scandinavi; ma, attenzione, non Silvio Berlusconi per Forza Italia, né tantomeno alcun leader di partito tedesco; non la CDU, non la CSU.

“Davvero avete tempo per star dietro a queste cose?” ribatte quindi, il 3 aprile, Orbán nella sua lettera di replica al PPE. “La vostra discussione, in piena pandemia, è un lusso che non mi posso concedere”. Nel frattempo, questo stesso primo ministro che si dichiara a corto di tempo, inaugura la fase dei “pieni poteri” con due proposte sul tavolo che di virale hanno ben poco: la prima è una provocazione ai liberali e alla comunità LGBT, perché disconosce altri generi se non il “sesso alla nascita”, e polarizza lo scontro interno al Paese, oltre a “distrarre” l’opposizione dalle mancanze del governo nella gestione della crisi sanitaria. L’altra mossa è di respiro geopolitico: consiste nel secretare i dettagli dell’accordo stipulato con la Cina per la nuova linea ferroviaria Belgrado-Budapest; il “corridoio tra Pechino e l’Europa” è pure un giro d’affari da due miliardi, in cui l’85% dei prestiti è cinese, mentre sul fronte ungherese gestisce l’affare Lőrinc Mészáros, amico stretto del premier, e diventato in poco tempo uno degli uomini d’affari più ricchi del Paese.

La schermaglia fra i Popolari è solo la ciliegina sulla torta: la svolta ungherese, si sa, non fa discutere soltanto una famiglia politica. L’Europarlamento, che già nel 2018 approvò il “Rapporto Sargentini”, si dice preoccupato e chiede alla Commissione come intenda procedere; lo sdegno generale lievita. Tra i membri dell’Unione il disagio di non prender posizione comincia a pesare, anche agli occhi dell’opinione pubblica. Così tra alcuni Stati a inizio aprile prende piede l’idea di una dichiarazione congiunta: nero su bianco, che non si dica che non hanno fatto nulla; una dozzina di Paesi, tra cui stavolta anche l’Italia e la Germania, e pure la Francia, e il Belgio, la Danimarca, l’Irlanda, scrivono che “le misure straordinarie sono legittime se servono a proteggere i cittadini, vanno limitate al necessario e devono essere temporanee; preoccupano i rischi di violazione della democrazia e dello Stato di diritto, della libertà di espressione o di stampa”. Le allusioni sono chiare, ma rimangono tali: mai viene citata esplicitamente l’Ungheria. Ci si limita a invocare “una iniziativa di monitoraggio della Commissione” e l’interessamento del Consiglio dell’Ue. L’iniziativa fa proseliti, le sottoscrizioni lievitano a 17, i Paesi Baltici aderiscono. E poi, il genio: sottoscrive anche l’Ungheria; il governo di Budapest rilancia l’appello.

È il coup de théâtre, il “trollaggio diplomatico” di Orbán, la beffa. Ma a leggerla bene, questa storia de “la sfacciata Ungheria e la timida Europa” riserva sorprese più radicali, prima che il sipario cali. La mossa ungherese è meno sconvolgente di quel che può sembrare, e viceversa la timidezza europea è più radicata di quanto si possa pensare. Péter Techet, giornalista e storico ungherese che ora vive, scrive e fa ricerca in Germania, mi dice che “per quanto la mossa di fine marzo possa essere un ulteriore, importante passo formale verso un’Ungheria più autocratica, non andrebbe dimenticato che nella sostanza questa trasformazione è in atto dal 2010: da allora Orbán governa senza controllo effettivo né contrappesi (perché tutto, compresi i media, sconta il peso del suo potere). La svolta emergenziale è interessante sul piano della legge più che su quello politico e storico, per i quali poco cambia”.

Del resto sono molto lontani i tempi in cui un giovane Orbán invocava l’uscita delle truppe sovietiche e parlava con ammirazione della democrazia liberale; democrazia liberale che ormai da anni sfregia nei fatti e pure a parole, come quando disse che “una democrazia non ha bisogno di essere anche liberale per rimanere tale” e che “va infranta la visione liberale della società”. C’è da chiedersi allora – se l’Ungheria è sfacciata da tanto tempo e non da oggi – come mai l’Europa sia così timida. Perché, il PPE non abbia mai sanzionato Fidesz in modo efficace e definitivo; e come mai CDU e CSU – oltre che Berlusconi, al quale Orbán guarda con ammirazione dagli anni ‘90 e che rimane un interlocutore e intermediario privilegiato coi popolari – non abbiano firmato quell’ultima lettera. Il punto è che i rapporti tra Orbán e l’Europa (ma anche: tra Budapest e Berlino) sono molto più fitti e reciproci di quel che la polarizzazione del discorso mostra.

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Vale la pena ricordare che, nonostante l’opposizione tra “populisti” ed “europeisti” abbia dominato il dibattito alle ultime europee, Ursula von der Leyen è stata eletta con l’appoggio sia del Pis polacco che di Fidesz; e Orbán ha più volte incontrato la presidente. All’esordio della nuova commissione, l’autorevole e liberale Margrethe Vestager non ha nascosto che bisognasse governare con “maggioranze variabili”, convalidando l’interlocuzione con quel mondo. Gli scandali – arrivati fino al New York Times – circa la gestione clientelare dei fondi agricoli europei da parte del premier ungherese non hanno scalfito la sua posizione ben salda dentro l’Unione. La sospensione dal PPE non si è mai trasformata in espulsione perché, al netto di una fetta di conservatori scandinavi, belgi o lussemburghesi, il resto della famiglia politica non intende vedersi “dimagrita” dalla perdita di un partito di governo come quello ungherese, che – in caso di uscita – potrebbe coinvolgere altri in una soluzione alternativa.

E soprattutto, la Germania non intende alienarsi l’Ungheria: tra i due Paesi, l’interlocuzione economica è fortissima. Interdipendenza asimmetrica: se è vero che Berlino è il partner forte, è vero pure che di Budapest non farebbe a meno. L’Ungheria e il cosiddetto blocco di Visegrad, a maggior ragione ora che il Regno Unito scivola via dall’Unione, rappresenta un fondamentale sbocco per l’esportazione tedesca. C’è di più: “Le grandi imprese automobilistiche tedesche come Audi, Mercedes o Bmw possono godere in Ungheria di vantaggi fiscali e di un basso costo del lavoro” spiega Techet, che vive al confine tra le due realtà, in quanto ungherese ma tedesco d’adozione; sempre lui mi racconta che prima del voto del 2018, un centinaio di imprenditori tedeschi, interpellati dal giornale economico Wirtschaftswoche, si dissero “completamente soddisfatti con Orbán”. In sintesi: il leader ungherese sarà pure il bad boy d’Europa, ma alla prova dei fatti tanto ribelle non è, perché con i partner europei continua a interloquire e a fare affari; viceversa, l’Europa sarà pure timida, ma quello che sembra rossore di guance è più che altro mancanza di volontà politica.

(6 aprile 2020)





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