A Ginevra è stata di recente confermata con un referendum la legge sulla laicità che vieta ai funzionari pubblici di esibire simboli religiosi nell’esercizio delle loro funzioni. Una norma di buon senso eppure fortemente contrastata dalle forze politiche di sinistra che, annebbiate da un malinteso multiculturalismo, hanno perso completamente la barra della laicità e dei diritti.
Col 55,05% dei voti favorevoli, attraverso un referendum domenica 10 febbraio Ginevra ha dato la propria benedizione alla nuova legge sulla laicità (LLE 11764), voluta e approvata nel maggio del 2018 dal Consiglio di Stato. Dopo due anni di approfondimenti e studi da parte della Commissione dei diritti dell’uomo e sotto l’impulso in particolare del magistrato e consigliere liberale Pierre Maudet, gli 11 articoli che compongono questa legge si ripromettono di aggiornare e ricontestualizzare la precedente normativa che Ginevra aveva adottato agli inizi del ‘900 e rivisto l’ultima volta nel 2012.
La legge del 2018 si staglia sul panorama multiculturale svizzero attuale con l’obiettivo chiaro e netto di osteggiare la sempre più forte diffusione di fenomeni in contrasto col convivere democratico, quali radicalismo, fanatismo, proselitismo e comunitarismo religioso.
In modo particolare, questa legge rappresenta un passo importante proprio nel processo di secolarizzazione della Svizzera stessa, la cui carta costituzionale (vale la pena ricordarlo) si apre ancora con l’originario motto risalente al 1848: “Au nom de Dieu tout-poussant”, retaggio di un passato calvinista mai realmente dimenticato. Se, da un lato, la Costituzione federale della Confederazione svizzera enuncia esplicitamente principi come la libertà di coscienza e di culto, dall’altro, quella stessa carta non impone una neutralità religiosa che altre democrazie nel continente europeo hanno ritenuto necessario implementare (prima fra tutte la Francia), lasciando di fatto aperta la possibilità ai singoli cantoni di determinare la propria religione “ufficiale”. Non stupirà dunque constatare che tra tutti i 26 cantoni svizzeri, le sole Ginevra e Neuchâtel rimarcano in Costituzione la propria natura “laica”.
Come enunciato in testa al progetto di legge, gli obiettivi dell’LLE 11764 sono i seguenti: 1) proteggere la libertà di coscienza, di credenza e non credenza; 2) preservare la pace religiosa; 3) definire la cornice appropriata alle relazioni tre le autorità e le organizzazioni religiose.
Gli articoli 2 e 3 definiscono la “neutralità religiosa dello Stato” e rimarcano il seguente principio: “Lo Stato è laico. Esso osserva una neutralità religiosa. Non finanzia né sponsorizza alcuna organizzazione religiosa.” Sulla falsariga di questi primi tre articoli, i restanti 8 precisano come questa laicità “teorica” si possa e debba concretamente esplicitare.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non tutte queste norme hanno entusiasmato i sedicenti progressisti seduti nel ramo sinistro del parlamento ginevrino.
Alcune di esse, in particolare l’articolo 6 e 7, hanno dato aria all’ennesima tromba “islamofobica”, suonata in perfetta sincronia dai soliti rappresentati delle comunità religiose e, come da copione un po’ più stonati, anche dai membri del Partito Socialista, dei Verdi e di Ensemble à gauche. Ad essere contestate sono le misure che impongono una rinnovata neutralità religiosa, obbligando i funzionari in contatto col pubblico e gli eletti dei consigli cantonali e municipali a non ostentare alcun simbolo religioso durante l’esercizio delle proprie funzioni. Dunque: via le grosse croci appese al collo, via kippah e via pure i veli… ma mentre per quel che riguarda i primi due casi, la sinistra ginevrina non sembra aver lamentato alcun attentato alla libertà religiosa (con buona pace dei vari cattolici ed ebrei ortodossi in città), un gran baccano si è creato intorno alla tanto vessata questione del velo islamico. Tra le varie voci, il socialista Cyril Mizrahi ha rimarcato sprezzante quanto questa nuova legge sulla laicità, al contrario della precedente del 2012, tenda ad “imporre la laicità a tutti”, rappresentando una “negazione del fenomeno religioso” tout court. Come se “negare il fenomeno religioso” ed “imporre la laicità” in quello stesso spazio pubblico in cui cittadini si recano per ricevere dei servizi da parte dello Stato (comuni, scuole ecc.), rappresentasse un fatto antidemocratico e liberticida. La socialista Carole-Anne Kast ha rincarato la dose con queste preoccupanti parole: “Se passerà la legge, sarò costretta a separarmi da cinque donne che indossano il velo. (…) Queste donne aiutano i bambini a scuola o si prendono cura di loro dopo la scuola. Cosa dirò ai genitori?”
Tra le fila di una certa sinistra dal laicismo a giorni alterni si dà ormai per scontato che quelle donne non potranno che scegliere di tenersi il velo; si dà ormai per consumato lo scontro tra laicità e comunitarismo e nel farlo la si dà vinta di fatto a quell’idea razzista, bigotta e coloniale che vuole rappresentare le donne musulmane come appartenenti ad una comunità religiosa incapace di trasformarsi, evolvere e mettersi in discussione.
Quello che sembra non venire colto da coloro i quali continuano a confondere i diritti degli individui con i diritti delle comunità è che, al contrario di alcune pratiche comunitariste sul corpo delle donne realmente violente, l’esercizio della laicità richiesto ai rappresentati pubblici in questa nuova legge non ha un carattere invasivo, non amputa e non recide, non lede in alcun modo la persona, né tanto meno priva l’individuo della libertà di professare il proprio culto. La rimozione di un velo o di un kippah dalla testa di chi rappresenta lo Stato è meramente temporanea e segue questo basilare principio: vi è il diritto del cittadino a vedersi garantita una neutralità religiosa nello spazio pubblico che precede ed è prioritario rispetto al diritto dei singoli funzionari pubblici e rappresentati delle istituzioni di vestirsi come diavolo gli pare.
Una questione seria ed incredibilmente attuale si apre dunque di fronte a noi: perché lasciare ai soli fedeli religiosi la possibilità di ostentare i propri simboli mentre quella stessa libertà non viene concessa, per esempio, ai tifosi di una squadra di calcio o ai membri di un club di poker? Perché i crocefissi sui muri delle scuole sì e gli educatori con le magliette da hooligan o i berretti con visiera di protezione no? All’interno di un contesto laico, perché la religione continua ad avere dei canali preferenziali rispetto ad altri accorpamenti tra individui di natura culturale, sportiva o artistica?
Stupisce che la nuova e rinnovata neutralità che questa legge sulla laicità chiede ai funzionari pubblici e agli eletti di rispettare sia interpretata da più voci sedicenti laiche e progressiste come un’offesa e un attacco nei confronti delle congregazioni religiose ed in modo particolare di quella musulmana. A coloro che in nome del multiculturalismo si dichiarano indignati di fronte ad un presunto torto fatto a una minoranza religiosa (senza rendersi conto che questa restrizione vale anche per gli appartenenti ai culti di maggioranza) ricordo che non vi sarebbe alcun torto se un privilegio ingiustificato non fosse stato precedentemente concesso.
Sabine Tiguemounine, deputata municipale dei Verdi, l’unica politica fino a questo momento ad indossare lo hijab in consiglio a Meyrin ha dichiarato al quotidiano svizzero Le Libre: “La gente mi conosce come quella lì!”, facendo riferimento al proprio copricapo. Ora che la nuova legge sulla laicità è definitivamente passata, sarebbe interessante capire se l’agenda politica che ha portato Sabine Tiguemounine a sedere tra i banchi dei Verdi sia o meno prioritaria e/o in contraddizione rispetto alla propria personale rivendicazione d’appartenenza ad una comunità religiosa. Delle due l’una: si può sposare la laicità senza indugio, mettendo da parte anche la propria fede e i dettami che essa impone per spirito di servizio, o si può fare come fanno i sindaci leghisti in Italia che, invocando una fantomatica libertà di coscienza, decidono di contravvenire alla legge, non celebrando per esempio le unioni di fatto, perché in contrasto con i propri “valori religiosi”.
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