“Personal Shopper” di Olivier Assayas

Giona A. Nazzaro

Fra i registi francesi Olivier Assayas è un’eccezione. Se superficialmente potrebbe assomigliare alla quintessenza dell’autore transalpino, a uno sguardo ravvicinato ci si rende conto che il suo cinema ha accettato la sfida della complessità e della contaminazione che a partire dagli anni Ottanta ne ha investito le strutture produttive e non solo.

Sin dalle pagine dei Cahiers du cinéma, quando scrivendo ha avvicinato la rivista alle trasformazioni che il cinema dell’epoca stava affrontando, puntando su autori come John Carpenter e Wes Craven, concorrendo in maniera determinante a rivelare l’universo sommerso del cinema di Hong Kong, Assayas ha sempre avuto la consapevolezza che lo sguardo è molteplice. Non unico e immutabile. Ed è proprio questa sua straordinaria libertà nel confrontarsi con i linguaggi al di fuori del cinema, e soprattutto quelli al di fuori del cinema francese d’autore, ha fatto sì che fra lui e una parte piccola ma bellicosa di critica transalpina si sia nel corso del tempo consumata una frattura decisa.

A osservare la lunga e complessa parabola del regista ci si rende conto che sin dai suoi primi film una delle preoccupazioni maggiori è stata quella di dar corpo all’invisibile. Ripercorrendo la sua filmografia non si può non notare come questa problematica del non visibile abbia conferito forma a lavori come Irma Vep (l’immagine e la sua realtà, la sua astrazione, la sua creazione), Demonlover (la danza fra l’immagine e l’agitarsi dei pixel e degli algoritmi), Le nuvole di Sils Maria (l’attrice e la sua immagine) e, arretrando nel tempo, la pagina bianca della scomparsa di Virginie Ledoyen alla fine de L’eau froide.

Senza cedere alla tentazione di volere costringere il percorso del regista in una gabbia autoriale non si può non notare come questo “scrittore di cinema”, come lui stesso si definisce, abbia inseguito lucidamente un suo percorso aprendosi però alle sfide dell’immagine e del cinema. D’altronde Assayas è uno dei pochi autori (se non forse l’unico…) il quale ricordando i suoi esordi ci tiene a specificare che “anche il montaggio del suono si faceva sulla pellicola”.

Con Personal Shopper, secondo capitolo della sua collaborazione con Kristen Stewart, attrice che si può affermare senza timore d’essere smentiti essere stata letteralmente “scoperta” da Assayas, il regista compone un poema visivo ambient sullo spazio (d)e(i) fantasmi. La protagonista, corpo interpersonale di un’altra, corpo che esiste per un’altra, ossessionata dal processo di elaborazione del lutto per morte del fratello, è anche una sensitiva che avverte la presenza di attività ectoplasmiche. La sequenza iniziale, magnifica nel reinventare una dimensione gotica inattuale, lontanissima dalla verosimiglianza fotorealistica del cinema contemporaneo, evidenzia subito il fulcro drammatico del film: il confronto fra un’immagine dichiaratamente falsa e l’immagine di una diva che si offre come segno per altri corpi.

Tutto Personal Shopper esiste in questi interstizi del visibile, oscillando sul principio di indeterminazione, interrogando cosa in ultima analisi dia vita a un’immagine. Nonostante si tratti di un film dall’impianto teorico fortissimo che interroga direttamente lo spazio del cinema e lo sguardo, il film scorre via come una sensualissima ghost story che avrebbe potuto scrivere Henry James.

Assayas il quale ha dichiarato a Kristen Stewart di non essere interessato alla sua presenza di diva né al suo lavoro di attrice, ma alla sua persona, a lei in quanto presenza, ottiene dall’attrice un’interpretazione di commovente intensità. Basti pensare al lungo momento rivettiano dello scambio infinito di sms e come la Stewart riesca a conservare la sua centralità nel quadro pur riducendo al minimo il suo “lavoro visibile”.

Personal Shopper, al pari della sua magnifica protagonista, va osservato e scovato proprio nei momenti in cui all’apparenza si ritrae per coglierne il movimento più autentico e visionario. Olivier Assayas è senz’altro, fra i registi francesi ma non solo, quello che più di tutti si è messo in gioco interrogandosi su cosa (continui a) significa(re) fare del cinema oggi.

Personal Shopper è un lucido film misterioso che dispiega davanti agli occhi dello spettatore le possibilità dell’immagine del cinema per evocare le immagini che non abbiamo (ancora) visto (l’unica cosa per la quale vale ancora la pena di fare cinema…). Una riuscita assoluta e l’ennesima conferma di un talento inquieto di audacia sempre più rara.

(14 aprile 2017)



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