Petrini: “I giovani contro l’emergenza climatica? È un nuovo Sessantotto”
Giacomo Russo Spena
intervista a Carlo Petrini
“Non siamo parlando di un nuovo movimento ecologista o ambientalista: questa è la politica del futuro rispetto al genere umano. Suona strano constatare come il mondo progressista non intercetti il grido di questi giovani”. Carlo Petrini, storico fondatore di Slow Food, aderisce a Fridays For Future, la mobilitazione globale contro l’emergenza climatica indetta per venerdì 15 marzo e lanciata dalla sedicenne svedese Greta Thunberg. Una protesta nuova irrompe nello scenario internazionale. E Petrini – che da anni assegna un ruolo strategico al suolo e alla sua funzione fondamentale per la produzione di cibo, per il paesaggio, per l’assetto idrogeologico del territorio, per l’economia, per le comunità, per la bellezza e la cultura del nostro Paese – intravede in questa mobilitazione un enorme potenziale. Da non sottovalutare.
Questi giovani chiedono ai governanti di abbattere del 50 per cento le emissioni di gas serra rispetto all’epoca preindustriale del 2030 e raggiungere poi lo zero di emissioni nel 2050. Cosa ne pensa?
Siamo davanti a un fenomeno storico di grande rilevanza: parliamo di un movimento di proporzioni inimmaginabili che è destinato a lasciare un forte segno sia, appunto, per le dimensioni che per i contenuti unificanti. Molti anni fa, nel 1968, i giovani scelsero di lottare contro l’autoritarismo e al fianco della classe operaia. Questo fenomeno, invece, è partito in maniera autonoma grazie alla testimonianza di una giovane svedese ma ha avuto la capacità di diffondersi repentinamente. È figlio dei nostri tempi e di una comunicazione digitale che amplifica i messaggi e li diffonde.
Mi sta dicendo che, secondo lei, siamo di fronte ad un nuovo Sessantotto che si focalizza, in primis, sulle questioni ambientali e climatiche?
È proprio così, la sensibilità di questi giovani è strettamente collegata al loro futuro e alla loro esistenza. Alcuni studiosi ritengono che siamo entrati nella nuova era dell’antropocene dove i comportamenti del genere umano incidono fortemente sul clima, sull’ecosistema e sulla fertilità dei suoli. Stiamo distruggendo il pianeta. Poche settimane fa, la FAO ha dichiarato che la perdita della biodiversità rischia di compromettere le esigenze alimentari dei viventi. Ecco allora che i giovani fanno sentire la propria voce.
Quando nel mondo avvengono alluvioni, nubifragi o monsoni si parla dell’eccezionalità dell’evento e dell’impotenza dell’uomo rispetto a questi fattori, quasi come fossero ineluttabili. I cittadini vedono l’emergenza climatica – a differenza del lavoro, ad esempio – come una questione lontana da loro, non trova?
Ed invece è una cosa vicinissima che coinvolge tutti. La questione del cambiamento climatico è determinata da scelte politiche nefaste e da un modello di sviluppo autodistruttivo che ha generato fenomeni come l’effetto serra e il conseguente surriscaldamento del pianeta. Per ogni grado di temperatura che aumenta sulla Terra, le coltivazioni si spostano di 150 km a nord e di 200 metri di altitudine. Questo cambio di coltivazioni genera degli sconquassi di tipo paesaggistico e produttivo.
Qualche esempio?
La vite si sta diffondendo in Inghilterra dove, di fatto, non è mai esistita. Per contro, nella nostra Sicilia si stanno piantando le banane! In una parte del mondo assistiamo alla perdita di frutti e verdure e all’acquisizione di altre tipologie di ortaggi. Le sembra normale? Nell’Africa subsahariana c’è l’aumento della desertificazione: ad oggi milioni di ettari sono diventati aridi. Noi, come Slow Food, abbiamo il progetto di “Terra madre”, una rete che abbiamo costruito negli anni: una comunità di pastori in Kenya ha perso i loro greggi perché gli animali non possono più alimentarsi. E non c’è soluzione. Ne consegue che queste popolazioni, in mancanza di futuro, saranno destinate ad emigrare pur di fuggire da tale disagio. Ecco allora che scopriamo che persino le migrazioni sono collegate al cambiamento climatico.
I giovani sono i primi che lo stanno capendo…
Nella genesi del movimento è lampante il dato generazionale: i ragazzi, per primi, hanno colto la necessità di una rottura con le politiche per un discorso di futuro e sopravvivenza. Noi, più adulti, stiamo consegnando ai giovani d’oggi un mondo in dissoluzione che tra cinquant’anni potrebbe implodere per le contraddizioni climatiche, ambientali e sociali. Ecco perché il grido, di valenza politica, di questi giovani.
In Italia è meno sentita questa mobilitazione – e più in generale sono meno sentite le questioni ecologiste/ambientali – rispetto al resto d’Europa. Come mai?
In Italia c’è una grande mobilitazione democratica contro il razzismo. Abbiamo avuto anche più di un milione e mezzo di persone in fila per le primarie del Pd ma se analizziamo i dati vediamo che l’80 per cento dei votanti ha più di cinquant’anni. È una situazione assurda: da una parte c’è un mondo progressista che chiede alcune istanze, dall’altra parte una moltitudine impressionante di giovani, e di comitati studenteschi, da ogni parte del mondo, che ci parlano di giustizia ambientale e di altre tematiche non toccate dalla sfera progressista. Siamo ad un gap non solo generazionale ma anche contenutistico.
Mi scusi, in realtà, Nicola Zingaretti, nuovo segretario Pd, nel suo primo discorso ha menzionato il nome di Greta Thunberg.
È un bene che Zingaretti parli della protesta di Greta ma non capisce che questi giovani reclamano un cambio di paradigma rispetto al modello economico-finanziario incentrato su un tipo di sviluppo che distrugge il pianeta. È questo l’elemento che tale movimento pone davanti non solo al Pd ma a tutta la politica: dare una semplice adesione alla giornata di venerdì non ha alcun significato se poi non si sostengono nuove politiche economiche, sociali ed ambientali.
Possiamo dire che nessun partito italiano, né PD né M5S né la sinistra cosiddetta radicale, ha capito fino in fondo la portata della mobilitazione del 15 marzo né della battaglia di Greta?
Ne prendo atto, oggi non c’è ancora la coscienza di cosa sarà questo movimento. Qui si parla di una mobilitazione internazionale con un’uniformità di messaggi rispetto a culture diverse tra loro. Questi giovani toccano due questioni che nel 1968 non si potevano proprio immaginare. La prima: un’implementazione demografica di proporzioni incredibili, direi bibliche. Nel 1968 eravamo 3 miliardi e mezzo, oggi siamo 7 miliardi e mezzo e nel 2050 saremo a 9 o 10 miliardi. Nella storia dell’umanità, un’implementazione in maniera così intensa non c’è mai stata. Il secondo elemento: il disastro ambientale nel 1968 si poteva percepire, ora è tangibile e lapalissiano. Allora, davanti a queste cose non c’è dubbio che la mobilitazione dei giovani sia più avanti della politica ufficiale. L’unico che ha preso parola su questi temi – è assurdo ma è così – si chiama Papa Francesco: ha ripetuto più volte che questa economia sta distruggendo il pianeta e che va ripensata dalle fondamenta.
Si può aderire al Fridays for Future e, contemporaneamente, essere favorevol
i alla tratta Torino-Lione?
È chiaramente una contraddizione, il Tav rappresenta in toto quel modello sviluppista che sta annientando la nostra Terra: è l’emblema di un sistema che non funziona. Fin dall’inizio ho espresso dubbi su quest’opera ma…
Avrà mica cambiato idea sul Tav?
Teoricamente resto contrario, però il Paese si trova in una condizione difficile perché ha sottoscritto dei patti internazionali e sono anche iniziati i lavori. È più complicato di quanto si pensi fermare adesso l’opera. Non si dovevano siglare, prima, certi accordi.
Nel 1986 ha iniziato l’avventura di Slow Food, professando la difesa della biodiversità, solidarietà alimentare e parlando di cibo ultracompatibile, cultura materiale. Veniva guardato come un nostalgico eppure adesso mi sembrano tutti temi di attualità. Si è tolto qualche sassolino dalla scarpa?
Quelle istanze di difesa della biodiversità e del patrimonio agroalimentare che, appunto, un tempo venivano viste come istanze nostalgiche rispetto a un modello di produzione intensiva, e globalizzata, sono man mano diventate l’esemplificazione di una politica diversa rispetto non solo alla biodiversità ma anche alla produzione agricola e all’economia.
Si spieghi meglio…
La monocoltura di intere aree – con l’utilizzo smodato di additivi chimici – sta distruggendo gli ecosistemi mentre con una diversificazione produttiva è appurato che si produce di più e con una logica di maggior rispetto dei territori e dell’economia locale. Sostanzialmente, la difesa di un determinato alimento rappresenta sia un elemento di identità culturale che, nello stesso tempo, un modello di economia opposto alla produzione intensiva e globalizzata. Si presta, così, maggiore attenzione all’ambiente, alla biodiversità – con meno CO2 nell’aria – e all’annoso tema della distribuzione del reddito rendendolo più diffuso e meno concentrato nelle mani dei soliti pochi.
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