Piazza Fontana, la paura della verità e il dovere della memoria

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Cara Micromega,

E’ arrivato nelle sale, da qualche giorno, Romanzo di una strage, l’ultima fatica di Marco Tullio Giordana. E’ il primo film sulla strage di Piazza Fontana, bravi tutti gli attori e lo stesso regista, ma occorre qualche riflessione in più, al di là del film. L’opera traspone sul grande schermo un’Italia molto lontana nel tempo e, tuttavia, ci ammonisce anche sul rischio della perdita della memoria. Il film ha già scatenato le solite polemiche, in parte ideologiche e, in parte, frutto della propria soggettività culturale. E’ il caso, ad esempio, di Giuliano Ferrara che, con la sua nota raffinatezza di pensiero, scrive su Il Foglio Quotidiano del 30 marzo: “Io ho sessant’anni. I 43 anni che ho vissuto da quando scoppiò la bomba, allora ero diciassettenne, li guardo come una cosa seria ma, come posso dire?, meno impegnativa. Sopra tutto, sono sconvolto e a questo punto anche ossessionato dalla nostra percezione del tempo, di un analogo segmento temporale che sta alle mie e nostre spalle, ma che ritorna sempre nella stessa forma, sempre con gli stessi stilemi, sempre con le stesse emozioni autentiche o simulate, sempre con gli stessi automatismi o tic, una – scusate – rottura di coglioni mai vista.”

Io, invece, di anni ne avevo circa tre quando ci fu quell’attentato (il primo di una lunga serie…) e sono ‘sconvolto’ non dal film, ma dalle banalità che affiorano sui media ogni volta che qualcuno ripropone una meditazione su fatti della nostra storia recente, fatti non proprio risalenti alla caduta dell’Impero romano d’Occidente, essendo molto, molto più vicini alla nostra vita contemporanea. Fra queste banalità c’è sicuramente quella tendenza a rimestare tutto in modo da far passare nella coscienza collettiva l’assenza di responsabilità individuali e collettive in relazione alle stragi, in particolare. Non è così, l’assenza di condanne penali non vuol dire che la verità non sia emersa con evidenza dopo decenni di processi, altalenanti fra condanne all’ergastolo e successive assoluzioni. La verità sulla strage nella Banca Nazionale dell’Agricoltura è chiara e netta per coloro – come chi scrive – che hanno letto, senza furori ideologici né di destra e né di sinistra o di centro, una parte rilevante degli atti processuali, atti che confermano la matrice politica nera dell’attentato e la natura degli ambienti in cui esso è maturato, ivi comprese le sue finalità.

Il film di Giordana merita comunque di essere visto, nonostante il suo grave limite affiorante nella conclusione, attraverso le parole del funzionario di polizia Luigi Calabresi (nell’ottima interpretazione di Valerio Mastandrea): la tesi delle due borse piene di esplosivo – una portata nella banca dagli anarchici, sebbene da un ‘infiltrato’, che non avrebbe dovuto far vittime ed un’altra fascista che, invece, avrebbe dovuto farne, per la scelta di un orario in cui il pubblico era ancora presente – è risibile per la sua distanza siderale dalla realtà. Non c’è, né c’è mai stata, alcuna responsabilità degli ambienti anarchici in quella tragedia, non esiste alcun dato processuale in questo senso. Non meraviglia, d’altro canto, questa propensione, tipicamente italiana, per la doppia o tripla verità, da ricercare in ogni angolo, anche remoto, della vita associata; in altre parole, l’orrido gusto di inventare tesi pseudo-storiografiche in apparenza originali, singolari, eccentriche e brillanti, poiché tutto ciò, in fondo, fa pur sempre presa sui tanti, ignari della materia, naturalmente. E, invece, la verità è una soltanto, seppur complessa. C’è un momento particolarmente alto del film: quello in cui l’attrice che interpreta la vedova Pinelli – donna di altissima dignità ed elevatissimo spessore etico, un esempio di vita per chiunque – rispondendo ad una domanda, postale dal giudice in relazione ad una determinata circostanza, afferma a voce alta: “…Perchè io non ho paura della verità…”.

E’ il nostro Paese, al contrario, ad aver paura della Verità, rifugiandosi, ancora dopo oltre 40 anni dal quel 12 dicembre 1969, in quella ambigua stratificazione culturale, acquisita nel patrimonio genetico profondo che segna l’identità italiana e che riporta alla mente il Cosi è (se vi pare) di Luigi Pirandello: “Io sono si’ la figlia della Signora Frola – e la seconda moglie del Signor Ponza – si’; e per me nessuna! Nessuna! Io sono colei che mi si crede”, affermava la signora Ponza, recando con sé un velo nero che le occultava il volto e rinviando dunque agli astanti la decisione di credere ciò che meglio ritenessero opportuno.

Alla tesi di Giuliano Ferrara, riassunta nell’elegante “Che palle la strage di Stato”, titolo del suo articolo di cui ho riportato una parte, preferisco il grande regista spagnolo Luis Buñuel, il quale affermava: "La nostra memoria è la nostra coerenza, la nostra ragione, il nostro sentimento, persino il nostro agire. Senza di essa, noi siam nulla".

Nicola Viola

(13 aprile 2012)



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