Pietà per i ‘morti viventi’. Alzheimer e diritto all’eutanasia
Mentre finalmente la Camera mette all’ordine del giorno i temi delle scelte di fine vita, occorre prendere in considerazione anche la proposta di includere fra gli “aventi diritto” a morire con dignità non solo i malati terminali ma anche altre categorie, a partire da quanti soffrono di varie forme di demenza senile.
di Carlo Troilo
Se questo è un uomo
Sono andato a trovare Paolo (un nome fittizio per ragioni di discrezione) nel pensionato di cui è ospite. Conosco Paolo dai primi anni Sessanta: un uomo colto, appassionato soprattutto di storia moderna; un alto funzionario dello Stato, noto per la sua rettitudine; un amante dello sport (il mare, il tennis, il footing); una persona riservata e pudica; felicemente sposato ma senza figli.
Circa cinque anni il destino ha cominciato ad accanirsi su di lui e su sua moglie Francesca (anche questo è un nome fittizio). Lei è stata colpita da una forma grave di linfoma. Lui, nello stesso periodo, ha cominciato ad avvertire i primi sintomi di quello che in breve tempo è divenuto un caso conclamato di Alzheimer. Lei ha lottato con molto coraggio, subendo diversi cicli di pesante chemioterapia, ma alla fine ha ceduto. Se ne è andata all’improvviso, senza soffrire, ma proprio quando sembrava stesse migliorando. Lui è rimasto solo, a 79 anni. I familiari hanno cercato di farsene carico ma hanno dovuto prendere atto della impossibilità della impresa e cercare una soluzione esterna, trovandola in uno dei migliori pensionati specializzati.
Ora Paolo è lì, con una trentina di altri “morti viventi”. Vederli è angoscioso. Mi ha colpito soprattutto una signora, molto anziana, che passa l’intera giornata tenendo in grembo una vecchia bambola: le parla, la rimprovera, la accarezza, la sculaccia. Sarebbe grand guignol descrivere gli altri ospiti, soprattutto quelli più giovani. Perciò parlo solo di Paolo e della sua “vita” quotidiana.
La mattina il personale lo tira su dal letto (Paolo non collabora minimamente; con i suoi 85 chili sollevarlo è un’impresa), lo lava e lo rade, gli cambia il pannolone, gli fa fare colazione e poi lo porta in una grande sala comune in cui un volonteroso ragazzo assicura agli ospiti un paio d’ore di “intrattenimento”. Per lo più, canta canzoni che erano di moda quando gli ospiti del pensionato erano giovani, cercando di risvegliare qualche ricordo nelle loro menti spente. Poi il pranzo (quasi tutti devono essere imboccati), un paio d’ore di riposo, altre tre ore di intrattenimento, cena alle 19 e tutti a dormire (con l’aiuto, suppongo, di qualche efficace forma di sedazione).
Come gli altri familiari e amici che quotidianamente vanno a trovarlo, cerco di parlare con Paolo. Non sono affatto sicuro che mi riconosca, né che capisca quel che gli dico. Solo una volta, all’inizio del ricovero, ha chiesto di sua moglie e ha mostrato di credere a chi gli ha risposto che era ricoverata per qualche giorno in ospedale. Non risponde, non parla. Qualche volta, se qualcosa lo innervosisce, dice solo rabbiosamente una parola oscena, lui che non ha mai detto parolacce ed anzi si infastidiva quando qualcuno lo faceva. Muto, ti guarda con degli occhi che definiresti spenti, se non vi fosse nel suo sguardo qualcosa che assomiglia ad una infinita tristezza.
Le analisi mediche che ha fatto dopo il ricovero hanno confermato che le sue condizioni generali sono ottime. Dunque Paolo potrebbe vivere in questa situazione ancora per molti anni.
Ed io mi chiedo, come Primo Levi nel suo capolavoro sui campi di sterminio, “se questo è un uomo”.
Alzheimer e diritto alla eutanasia
Ho raccontato questa mia esperienza personale perché penso – mentre finalmente la Camera dei Deputati, per merito soprattutto della lunga battaglia della Associazione Luca Coscioni, mette all’ordine del giorno i temi delle scelte di fine vita ed inizia a discuterne – che sia giusto prendere in considerazione anche temi che certamente richiederanno tempi lunghi di valutazione e dibattito, come la mia proposta di includere fra gli “aventi diritto” alla eutanasia non solo i malati terminali ma anche altre categorie di malati, a partire da quanti soffrono di varie forme di demenza senile. Del resto, i tempi dei diritti umani, in Italia, sono sempre lunghi e sempre difficili le battaglie: Loris Fortuna, “padre” del divorzio, presentò la prima proposta di legge sulla eutanasia nel 1985. E noi saremmo felici se in questa Legislatura venisse varato almeno il testamento biologico.
Le leggi sulla eutanasia – sia quelle già in vigore in alcuni paesi sia quelle “in fieri” – per definire gli “aventi diritto” alla “buona morte” individuano criteri abbastanza omogenei: in sostanza, malati terminali e persone che possono sopravvivere solo con l’ausilio di macchinari, o per le caratteristiche della loro malattia (Welby) o perché in stato vegetativo permanente ( Englaro).
Vi è però un’altra categoria di malati che solo raramente sono stati presi in considerazione come possibili “aventi diritto” alla eutanasia: i malati di Alzheimer (la malattia prende il nome da Alois Alzheimer, neurologo tedesco che per la prima volta nel 1907 ne descrisse i sintomi e gli aspetti neuropatologici).
L’aumento di questa categoria di malati è legato all’invecchiamento della popolazione (la demenza di Alzheimer oggi colpisce circa il 5% delle persone con più di 60 anni). Si tratta di un fenomeno mondiale, che sintetizzo con dati non recentissimi, per cui la realtà di oggi è certamente diventata peggiore.
Nel mondo. Secondo le stime, gli over 60 passeranno dai circa 765,45 milioni attuali a oltre 1 miliardo e 400 milioni nel 2030, più che raddoppiando in meno di un quarto di secolo. Ho trovato terrificante la notizia, data da Daniel Perry, uno dei più celebri ricercatori statunitensi, secondo cui tra pochi anni negli USA sarà colpita da Alzheimer una popolazione uguagliabile a quella dell’Australia, cioè 18 milioni di americani.
In Europa. L’invecchiamento demografico dell’Unione Europea (a 27 paesi) è un fenomeno epocale. La popolazione anziana nella UE sarà in continua crescita, con la quota di popolazione di età compresa tra 65 e oltre che passerà dal 17,1% del 2008 al 30,0% del 2060, e quella di età compresa tra 80 e oltre dal 4,4% al 12,1% nel corso dello stesso periodo.
In Italia. Il 20% dei cittadini ha più di 65 anni; nel 2030 – secondo le stime dell’Ufficio statistico della Ue – gli over 65 saranno 14,4 milioni, cioè il 26,5% della popolazione, e nel 2045 la percentuale salirà addirittura al 30 per cento, con circa 65mila nuovi casi di demenze senili l’anno. L’Italia è il Paese più longevo d’Europa, con 13,4 milioni gli ultrasessantenni, pari al 22% della popolazione). I malati di Alzheimer sono 600.000. I costi diretti dell’assistenza in Italia (costo medio annuo per paziente pari a 70.587 euro) ammontano a oltre 11 miliardi di euro, di cui il 73% a carico delle famiglie. Sommando altre forme di malattie senili (fra cui il Parkinson) si giunge ad un totale di quasi un milione di demenze.
Le dimensioni di questo fenomeno e le sofferenze che questa malattia provoca dovrebbero indurre a porsi il problema se i malati di Alzheimer (o di malattie dello stesso tipo e gravità) non possano entrare a far parte degli “aventi diritto” alla eutanasia.
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dash; e ne sono pienamente consapevole – il salto culturale da fare non è facile, perché al terrore, sempre più diffuso, di finire la propria vita in quelle condizioni, non fa riscontro, fino ad oggi, una proposta coerente con quel terrore, e cioè la possibilità di dire: “No, in quelle condizioni io non voglio finire, e perciò dico fin d’ora, essendo nel pieno delle mia facoltà mentali, che se dovessi essere colpito da quella malattia vorrei essere aiutato a morire con dignità”. La dignità è infatti la chiave per poter portare avanti questo discorso: ad essa fa riferimento l’articolo 32 della Costituzione quando afferma che nessuna legge può andare contro “il rispetto della persona umana”.
In conclusione, ritengo non solo legittimo ma doveroso affrontare questo grande problema dei malati di Alzheimer, facendone un tema di riflessione a tutti i livelli: con gli amici, nelle associazioni culturali, sui giornali, nei partiti. Non rassegniamoci all’idea di un esercito di morti viventi. Facciamo crescere una nuova cultura di quella che Welby chiamò “una morte opportuna”. Cominciamo noi stessi – in attesa dei tempi lunghissimi del legislatore – a lasciare disposizioni precise per la malaugurata eventualità di cadere vittime dell’Alzheimer. E magari organizziamoci anche per tempo per un ultimo viaggio in Svizzera o per dotarci di un “kit” che ci consenta di sfuggire alla ferocia delle leggi, come i partigiani che portavano con sé una pasticca di cianuro per non cadere vivi nelle mani dei torturatori nazisti o “repubblichini”.
(7 gennaio 2017)
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