Piranesi e il sogno impossibile

Mariasole Garacci

Il 4 ottobre 1720 nasceva a Venezia Giambattista Piranesi. Un’importante mostra all’Istituto Centrale per la Grafica a Roma, che detiene le matrici originali dei suoi opera omnia, celebra i trecento anni di questo artista grandioso e paradossale.
Giambattista Piranesi diceva di se stesso, tra il serio e il faceto, di avere in capo tante e così grandiose idee che se il Signore gli avesse ordinato il progetto di un nuovo universo, avrebbe avuto la temerità di intraprenderlo senza battere ciglio. A quale entità superiore egli precisamente si riferisse, del resto, non potremmo affermare, dal momento che in punto di morte chiese che gli venisse portato un volume di Tito Livio, mostrando il quale ai presenti affermò: “In questo solo ho fede”. Due aneddoti dai quali si può partire per cercare di descrivere una personalità difficile da contenere in una sola categoria: grande artista, sbalorditivo incisore, archeologo, imprenditore, designer, massone. “Piranesiano” si potrebbe usare come aggettivo di un’attitudine intellettuale che abbia carattere di ambiziosa grandezza e di rovello continuo, accompagnati da furore incontentabile, idealismo e una buona dose di impervietà d’animo. Violento e testardo contro ogni evidenza (pretendeva che l’arte greca fosse derivata da quella romana, dando luogo a fluviali polemiche letterarie), geniale e innovativo archeologo autodidatta (le sue interpretazioni degli antichi monumenti condotte su rigorosa verifica autoptica e confronto con le fonti anticipano di secoli la disciplina moderna), Piranesi fu un allucinato creatore di mondi che nel XX secolo trova paragone (e talvolta epigoni dichiarati) in Fritz Lang, Maurits Cornelis Escher, Philip Dick, Christopher Nolan, Archizoom.
Oggetto della sua utopia fu Roma stessa. Quella antica e quella futura, fuse in una visione ideologica e rivoluzionaria le cui braci allora giacevano sotto la città papalina, tardo-barocca e stracciona, come oggi giacciono, quasi spente ed esaurite dalla messa a profitto del turismo e della speculazione edilizia, sotto la stratificazione di piani regolatori dall’Unità d’Italia a Mafia Capitale. Quella Roma che si materializza come uno spettro di polvere nei desolati spazi interstiziali tra un palazzo umbertino e una riqualificazione veltroniana, dove una vegetazione da terzo paesaggio cresce in mezzo a materiali edili abbandonati a ridosso di lacerti di opus caementicium. Quella delle grandi vestigia antiche e moderne, un impero di travertino alla cui magniloquenza siamo forse assuefatti, ma che Piranesi, scaltro artefice nelle sue Vedute di Roma (realizzate dalla metà degli anni Quaranta fino alla morte) di quel consumo di sightseeing e must see raccontato da Marco D’Eramo ne Il selfie del mondo, è capace di farci riscoprire, vedere ancora in modo inusitato: un mago che padroneggia la formula per ricreare, ogni volta, quello shock of recognition provato da un occhio vergine davanti al Colosseo o alle Mura Aureliane.

Provato anche da Goethe, per esempio, varcata per la prima volta Porta del Popolo: “…si può dir davvero che abbia inizio una nuova vita quando si vedono coi propri occhi tante cose che in parte già si conoscevano minutamente in ispirito. Tutti i sogni della mia gioventù li vedo ora vivere; le prime incisioni di cui mi ricordo (mio padre aveva appeso ai muri d’un vestibolo le vedute di Roma) le vedo nella realtà, e tutto ciò che conoscevo già da lungo tempo, ritratto in quadri e disegni, inciso su rame o su legno, riprodotto in gesso o in sughero, tutto è ora davanti a me; ovunque vado, scopro in un mondo nuove cose che mi son note; tutto è come me l’ero figurato, e al tempo stesso tutto è nuovo[1].

Non troppo diversamente, in fondo, dal vestibolo della casa paterna di Goethe, non c’è quasi ingresso di studio legale, hotel, casa borghese della capitale che, almeno fino a qualche anno fa, non avesse appesa a una parete la stampa originale o la riproduzione di una veduta di Piranesi, fosse quella della basilica di Santa Maria Maggiore, di Piazza Navona, o del Colosseo. Ma la vasta produzione di vedute romane, per le quali Piranesi è più noto e apprezzato, è solo una parte minoritaria della sua opera e, per così dire, la più commerciale, da cui egli trasse l’autorevolezza e il sostegno economico necessari per attendere alla sua missione, la resurrezione di Roma attraverso opere incise innovative come i quattro volumi de Le Antichità Romane (1756) o Il Campo Marzio dell’Antica Roma (1762). Innovative, intanto, per l’inedito rapporto tra immagine e parola, tra figura e didascalia, uniti in un perentorio apparato dimostrativo; e per la proposta, per molti dei monumenti presi in considerazione, di una sorta di dossier dettagliato (raffigurazione attuale del soggetto, seguita da tavole di dettaglio con ricostruzioni in pianta e alzato, materiali connessi, tecniche) tale da far somigliare l’andamento di quegli apparati o sistemi che erano le sue pubblicazioni a un ipertesto. Uno studio condotto con metodologia scientifica, dunque, che in un misterioso connubio tra lucida esattezza, pathos e invenzione, però, sollecita una comprensione anche emotiva della grandezza antica, uno stato psicologico che abilmente Piranesi utilizza come strumento persuasivo delle sue tesi. Da qui, un’altra delle invenzioni del veneziano: aver aggiunto al nostro stesso modo di percorrere la città un’ulteriore dimensione percettiva e spazio-temporale da cui difficilmente si torna indietro una volta che ci si sia immersi nella sua visione.

La ricostruzione di Roma antica, come si diceva, trova nell’antico un modello talmente forte da sorvolare il presente e unirsi direttamente al futuro. Si usa spesso, a proposito di Piranesi, il termine “utopia”, ma forse si dovrebbe più esattamente parlare di “ucronia”: una storia alternativa, la cui progressione inizia a divergere da quella che conosciamo nel momento simbolico catturato in alcune raffigurazioni. E’ il caso, per esempio, di una sorprendente Veduta dell’Arco di Gallieno[2] nel tomo I delle già citate Antichità Romane. Qui Piranesi libera la Porta Esquilina, dedicata all’imperatore romano nel III secolo, della medievale chiesa dei santi Vito e Modesto tutt’oggi esistente e degli umili edifici che sorgevano a ridosso dell’arco, e da questo punto di vista, come colti nel cono di un radar, ci mostra disposti in successione prospettica le rovine del retrostante Ninfeo di Alessandro (noto anche come “Trofei di Mario”, oggetto di una dettagliata monografia tecnica pubblicata da Piranesi nel 1761 con il titolo Le rovine del Castello dell’Acqua Giulia presso Sant’Eusebio e falsamente detto dell’Acqua Marcia[3]), Porta San Lorenzo (su cui si incrociavano Aqua Marcia, Aqua Tepula e Aqua Iulia), Porta Maggiore con l’attico caratterizzato dal passaggio dell’Aqua Claudia e dell’Anio Novus (a sua volta da Piranesi spogliata delle superfetazioni abitative cresciute a ridosso del monumento che invece si possono osservare in un’altra veduta nella stessa opera) e la diagonale di un acquedotto che egli interpreta come gli archi neroniani che si approvvigionavano dallo stesso acquedotto Claudio. Ma, sebbene lo sgombro paesaggio in cui si stagliano questi monumenti, spogliato di ogni traccia contemporanea, possa a tutta prima indurci a un paragone con quelle guide di Roma antica oggi in vendita nelle librerie dei musei, in cui sullo scorcio attuale di un monumento si sovrappone una pagina di plastica trasparente con la ricostruzione grafica del suo aspetto originario, in realtà ciò che Piranesi ha materializzato in questa veduta è un vertiginoso paradosso, un’eterotopia, un momento storico e un luogo mai esistiti in questo modo (almeno nella dimensione dell’universo in cui viviamo): vediamo i monumenti nel loro realistico stato di conservazione alla metà del XVIII secolo, ma in una frequenza di luce onirica, marziana, in cui del molteplice e progressivo fascio temporale che li ha erosi non si rileva lo sviluppo e lo stratificarsi moderno della città.

Un altro esempio: la Scenographia Campi Martii nel già citato Campo Marzio dell’Antica Roma, in cui Piranesi mostra, insistendo con questo espediente, i monumenti antichi dell’area allo stato attuale di rovina ma isolati in uno spazio deserto da cui sono rimosse le costruzioni moderne, seguita dall’ipotesi ricostruttiva proposta nella vertiginosa Ichnographiam Campi Martii antiquae urbis, un tessuto composto per addizioni e potenzialmente estendibile all’infinito. Non una mappa di Roma antica, né di Roma moderna, ma un’immagine che sembra suggerire la negazione della città reale, per far posto a una ideale. Da questa ucronia Piranesi torna a prendere le mosse per una Roma nuova, in questo caso davvero utopistica, come quella evocata nelle immaginarie visioni architettoniche di Prima Parte di Architetture e Prospettive inventate (1743), di Opere Varie I (1750) e Opere Varie II (post 1761), tra cui figura la Pianta di ampio magnifico Collegio, un’ipnotica struttura isotopa in cui “l’indipendenza delle parti e il loro montaggio non seguono altra legge che quella della pura continuità”[4]. La valenza etica del lavoro di Piranesi e la sua vocazione rivoluzionaria, del resto, sono dichiarate proprio nel frontespizio del I tomo delle Antichità Romane:
AEVO SUO POSTERIS ET UTILITATE PUBLICAE
E, più avanti, nelle sue Lettere di Giustificazione (1757):

L’assuefazione, in cui sono di esaminare i residui della grandezza Romana, e di cercare ne’ Libri di que’ fieri Repubblicani i loro usi, costumi, e spirito, mi ha data questa nobile idea della libertà […]

In tale ideale ricercato nell’antico, alla bionda visione a volo d’uccello del Campo Marzio, alla scenografia del Pantheon colpito diagonalmente dalla luce mattutina, all’iperbolico affastellamento di lapidi, are e mausolei in un assolato bivio tra via Appia e via Ardeatina, alle colossali e abbacinanti fondamenta del Mausoleo di Adriano, fa pendant il mondo infero, orrendo e fumoso delle Carceri di Piranesi, uscite nel 1750 e nel 1761. Incubo sadiano ambientato in uno spazio dilatato e incoerente, visitando il quale temiamo di restare catturati nelle sue molteplici direzioni e prospettive, e di riconoscerci con orrore nelle figure contorte di quei prigionieri piegati da terribili supplizi. Interpretate come figurazione romantica dell’inconscio, le Carceri affascinarono Walpole, De Quincey, Coleridge, Poe, e furono accomunate alle “pitture nere” di Goya da Marguerite Yourcenar[5]. La quale, del resto, in una Veduta del Canopo di Villa Adriana riconosceva “il genio quasi medianico di Piranesi” che della razionalità romana sapeva cogliere, forse per assonanza personale, il lato oscuro e riposto. Ma, come precisò il compianto Maurizio Calvesi (a cui si deve, tra l’altro, una prima ricognizione[6] dei rovesci delle matrici di Giambattista Piranesi e la scoperta, insieme ad Augusta Monferini, dell’enigmatica Caduta di Fetonte incisa sul verso delle vedute della Basilica di Santa Maria Maggiore e Piazza di Monte Cavallo), gli studi archeologici condotti da Piranesi sono frutto di un pensiero e di una lettura storica legati all’Illuminismo e in particolare a Vico e a Montesquieu, nonché espressione di una visione che nella filologia di tecniche, modi e intenti dell’architettura romana individua le basi per la costruzione di una città futura attraverso un più esteso recupero delle virtù civili antiche[7]. Dunque le Carceri, uscite nell’arco di anni in cui Montesquieu pubblica Lo spirito delle leggi (1748) e Beccaria Dei delitti e delle pene (1761), raffigurerebbero, piuttosto, la certezza e l’imparzialità di un sistema legislativo virtuoso, di contro all’arbitrio di un potere assoluto padrone incontrollato delle vite degli uomini; e l’eterna inamovibilità di quelle strutture sotterranee, le solide e profonde fondamenta di un sistema politico e sociale fondato sulla legge e la giustizia. Osservando le Carceri si può riconoscere, infatti, un’evocazione degli angusti ambienti del Carcere Mamertino, ai piedi del Tabularium, e delle antiche scale Gemoniae, da riferire alla lettura storica di un primato romano non solo nell’architettura, ma anche nel diritto e nelle istituzioni politiche.

La mostra all’Istituto Centrale per la Grafica, che ha sede nel Palazzo Poli a Fontana di Trevi e resterà aperta fino al 31 gennaio 2021, è particolarmente importante e autorevole perché corona un lungo e meticoloso lavoro di ricerca diagnostica sulle matrici (e sulle stampe che da esse vengono tratte), nonché un profondo legame con la vita e le opere di Giambattista Piranesi. L’Istituto, che conserva una collezione di ventiquattromila opere dal XVI secolo all’epoca contemporanea, detiene infatti tutte le matrici calcografiche incise dall’artista veneziano e la sua bottega in oltre trent’anni di attività. Acquistato per volere di Papa Gregorio XVI nel dicembre del 1838 presso l’editore parigino Firmin Didot (la famiglia Piranesi aveva dovuto riparare in Francia per motivi politici), questo fondo è composto da 1191 soggetti (964 autografi, altri incisi dal figlio Francesco o comunque entrati a far parte della Calcografia Piranesi). Del 2010 è il primo volume del catalogo generale delle matrici incise (che riguardava gli anni tra il 1743 e il 1753) pubblicato nell’ambito del decennale Progetto Piranesi che prevedeva la pubblicazione di tutte le lastre autografe dell’artista[8]. L’Istituto possiede, inoltre, l’intera raccolta delle stampe tratte da esse.

Ampio spazio nella mostra sarà dedicato alle preziosissime matrici (lavorate ad acquaforte, bulino, puntasecca) oggetto autentico della creazione grafica, del gesto incisorio e dell’alchemico processo della morsura ad acido: il luogo in cui germina, per così dire, l’opera d’arte che verrà poi trasmessa su supporto cartaceo; ma saranno offerte all’osservazione anche le stampe, i disegni, dipinti e modelli archeologici in rapporto con l’opera dell’artista. La mostra, articolata in diverse sezioni, esplorerà i Capricci e le Carceri, le architetture fantastiche del primo periodo romano, le Antichità Romane e il Campo Marzio, l’attività di designer (Piranesi disegnò e produsse camini, vasi e candelabri), le Vedute di Roma e le Vedute di Paestum. Inoltre, nelle sale al piano terra del palazzo, una sezione sarà dedicata alla tecnica incisoria piranesiana, analizzata con le metodologie e gli strumenti messi a punto dal Laboratorio Diagnostico per le Matrici dell’Istituto e attraverso il metodo fotografico RTI (Reflectance Transformation Imaging), applicato alle matrici delle Carceri grazie alla collaborazione con il Dipartimento di Storia, Disegno e Restauro dell’architettura dell’Università La Sapienza di Roma. Sempre al piano terra, saranno esposte alcune opere che hanno avuto la loro genesi nelle collezioni dell’Istituto, realizzate da Gianluca Campigotto, Mario Cresci, Daniele Pignatelli, Michelangelo Pistoletto, Ninì Santoro. Filippo Sassoli, invece, ha realizzato il disegno della locandina, una rielaborazione della bottega di Piranesi a Strada Felice, mentre una graphic novel del fumettista Ratigher vedrà il veneziano protagonista di una storia ambientata nel suo amato Colosseo. La mostra è a cura di Maria Cristina Misiti, dirigente dell’Istituto Centrale per la Grafica, e di Giovanna Scaloni, storica dell’arte dell’Istituto, con la collaborazione di Civita Mostre e Musei; l’allestimento è di Paolo Martellotti. L’esposizione è stata realizzata grazie al sostegno della Tchoban Foundation di Berlino, che alle celebrazioni del trecentenario della nascita di Piranesi dedica a sua volta una mostra, allestita nell’attiguo Palazzo della Calcografia, intitolata L’impronta del futuro. Il destino della città di Piranesi.

Piranesi. Sognare il sogno impossibile
Istituto centrale per la grafica, Palazzo Poli alla Fontana di Trevi
15 ottobre 2020 – 31 gennaio 2021
Orario: da martedì a domenica, 10.00 – 19.00 (ultimo ingresso 18.30)
Ingresso solo su prenotazione all’indirizzo ic-gr.cerimoniale@beniculturali.it

Ingresso contingentato (max 20 persone). Si raccomanda di rispettare l’orario del p
roprio turno con la massima puntualità, nel rispetto delle disposizioni anticovid, per effettuare la misurazione della temperatura corporea e la registrazione del nominativo presso il punto accoglienza.


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NOTE

[1] Lettera del 1 novembre 1786; Johann Wolfgang von Goethe, Viaggio in Italia, ed. it. cons. Mondadori 2004, p. 138 (corsivo mio)

[2] Mariasole Garacci in Giambattista Piranesi. Matrici incise 1756-1757, a cura di Ginevra Mariani, ed. Mazzotta, 2014, p. 140

[3] Piranesi rifiuta giustamente l’opinione dei contemporanei che questa fontana fosse alimentata dall’Acqua Marcia, e ne stabilisce la fonte di alimentazione dall’Acqua Giulia in base a una serie di ragione minuziosamente esposte nella sua opera del 1761. La sua convincente deduzione fu a lungo considerata corretta e solo da poco si è rivelata errata, essendo stato accertato, con moderni metodi di indagine che mancavano al nostro archeologo-incisore, che si tratta in realtà di una derivazione dell’acquedotto Claudio (Giovanna Grumo in Giambattista Piranesi. Matrici incise 1761-1765, ed. Mazzotta 2017, pag. 107 e ss.

[4] Manfredo Tafuri, La sfera e il labirinto. Avanguardie e architettura da Piranesi agli anni ’70, ed. Einaudi, 1980

[5] Marguerite Yourcenar, Le cervaeu noir de Piranése, in Sous bénéfice d’inventaire, ed. Gallimard, 1962

[6] La ricerca portò alla scoperta di 103 rami con il verso inciso, schedati e pubblicati nell’edizione italiana di Henri Focillon, Giovanni Battista Piranesi, Bologna, 1967. Questo importante studio è stato poi ampliato e completato da Ciro Salinitro in occasione dei restauri effettuati nel Laboratorio diagnostico per le matrici dell’Istituto Nazionale per la Grafica, e pubblicati in Giambattista Piranesi. Matrici incise 1756-1757, ed. Mazzotta, 2014

[7] Maurizio Calvesi in op.cit.

[8] Ginevra Mariani (a cura di), Giambattista Piranesi. Matrici incise 1743-1753, ed. Mazzotta, 2010



(14 ottobre 2020)




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