Più laici, più liberi: una mappa mondiale (senza l’Italia)
Cinzia Sciuto
Il parlamento belga ha approvato una norma che consente l’accesso all’eutanasia anche ai minorenni. Un ulteriore passo in avanti del paese che, insieme all’Olanda, è sempre stato all’avanguardia sui temi del fine vita. Ma dalla ‘Carta della laicità’, fatta affiggere di recente in tutte le scuole francesi dal ministro dell’Istruzione transalpino Vincent Peillon, all’iniziativa politica in difesa dei matrimoni gay intrapresa dal presidente Obama, sono molti i passi che si fanno – all’estero – in tema di laicità.
, da MicroMega 9/2013
Sono ormai almeno un paio d’anni che in Italia i temi cosiddetti eticamente sensibili sono scomparsi dalla scena pubblica. Considerati troppo «divisivi», non si prestano alle più o meno larghe intese che governano il nostro paese dal novembre 2011, a sostegno prima del governo tecnico di Monti e oggi di quello iperpolitico Letta-Alfano. Lo scorso luglio Mariastella Gelmini, durante la discussione del disegno di legge contro l’omofobia (che alla fine è stato approvato alla Camera e attende attualmente di essere discusso in Senato), ha persino chiesto una «moratoria» sui temi etici per non disturbare il clima di pacificazione indispensabile all’operazione Letta-Napolitano. E mentre da noi si mette la sordina su temi evidentemente considerati di second’ordine, nel resto del mondo occidentale si discute di questioni che nel nostro paese suonerebbero semplicemente oscene, e che come tali vengono trattate, lasciandole letteralmente fuori dalla scena politica. Ecco una piccola selezione di esempi sull’avanzata della laicità – e con essa dei diritti civili – in Europa e oltreoceano.
Il quarto principio della Rivoluzione francese: laïcité
Non si può non partire dalla Francia, che ha elaborato un proprio modello fondato non solo sul principio della neutralità dello Stato nei confronti delle confessioni religiose ma anche sulla laicità come valore fondante e condiviso della Repubblica. Come ha spiegato Vincent Peillon, attuale ministro dell’Istruzione francese, in un dialogo con Gloria Origgi pubblicato su MicroMega 1/2013, «la laicità in Francia non è solo neutralità: è molto di più. Non è solo tolleranza: è un corpus di valori che bisogna insegnare ai cittadini». E per far questo Peillon ha recentemente presentato una «Carta della laicità», che ha fatto affiggere in tutte le scuole della Repubblica, in cui si ribadisce che la laicità è uno dei valori fondanti della Repubblica francese e che la scuola è attivamente impegnata nella sua promozione. Un manifesto in quindici punti, secondo il quale la laicità va insegnata a scuola perché è un baluardo per la libertà di coscienza dei singoli, protegge dal proselitismo consentendo ai ragazzi di formarsi una propria autonoma opinione, promuove il rispetto reciproco e il ripudio della violenza.
Che la laicità in Francia sia un valore «positivo», pieno di contenuti, bisognoso di essere alimentato, e non mera neutralità, è dimostrato anche dalla proposta di legge, già approvata al Senato, che vuole istituire la Festa della laicità, da celebrare il 9 dicembre, giorno in cui, nel 1905, venne approvata la storica legge di separazione tra Stato e Chiesa.
L’ultima grande novità in Francia è la recente legge sui matrimoni gay, entrata in vigore da pochi mesi. La sua approvazione è stata preceduta da un dibattito molto aspro, con manifestazioni del Front national di Marine Le Pen e dei movimenti cattolici contro la proposta, culminate addirittura nel gesto shock di Dominique Venner, scrittore vicino al Front national, che il 20 maggio si è ucciso nella cattedrale di Notre-Dame proprio per protestare contro la legge entrata in vigore pochi giorni prima. Legge avversata anche da un gruppo di sindaci, che si sono appellati al Consiglio costituzionale per rivendicare il diritto all’obiezione di coscienza. Il consiglio si è espresso proprio poche settimane fa, con una sentenza che ha riconosciuto la costituzionalità della legge e stabilito che i primi cittadini non possono rifiutarsi di unire in matrimonio una coppia gay.
Nella pentola francese bolle ora una nuova proposta di legge del governo Hollande: quella per legalizzare l’eutanasia, su cui c’è stata anche una prima apertura dell’Ordine dei medici, che si è espresso a favore di una sedazione terminale per «dovere di umanità» nei casi di malati nella fase finale della loro vita in condizioni di sofferenza non alleviabili. La proposta di Hollande potrebbe trovare una sponda nel Comitato nazionale di bioetica, nel quale per la prima volta non figurano religiosi.
Belgio e Olanda, l’avanguardia sull’eutanasia
Il 75 per cento dei cittadini belgi è favorevole all’eutanasia sui bambini in coma o in stato vegetativo e la percentuale sale all’80 per cento quando a essere in questione è l’eutanasia per adulti affetti da malattie come l’Alzheimer. Sono i risultati di un sondaggio pubblicato dal quotidiano La Libre Belgique realizzato qualche settimana fa, proprio mentre il parlamento belga discute una proposta di legge per consentire anche ai minori di accedere all’eutanasia (il primo passaggio parlamentare in una commissione del Senato è già stato superato). Al di là del merito delle varie posizioni, questi dati ci raccontano di un paese in cui il diritto a decidere sulla propria vita, e dunque anche della propria morte, è argomento di discussione aperta, l’autodeterminazione un principio largamente condiviso e la libertà di mettere fine alla propria vita non è un tabù. Basterebbe questo a segnare una distanza di anni luce dall’Italia.
La questione dell’eutanasia si è posta con la massima forza inizialmente in relazione ai malati terminali, per i quali non è più possibile alcuna cura e la cui qualità della vita è destinata a peggiorare di giorno in giorno senza alcuna possibilità di alleviarne le sofferenze. Nei paesi in cui il diritto dei malati terminali di mettere fine alle proprie sofferenze è ormai entrato nel senso comune (Belgio e Olanda hanno introdotto le leggi sull’eutanasia da più di dieci anni), è normale che adesso il dibattito si estenda: perché a rendere la vita non più degna di essere vissuta non è solo lo stadio terminale di una malattia incurabile. E, soprattutto, perché stabilire se la vita sia ancora più o meno degna di essere vissuta non può che spettare a chi la vive.
Ci sono già stati alcuni casi che hanno animato il dibattito. Il più recente in Olanda, dove a una donna di 70 anni, che non era malata terminale, è stato concesso il suicidio assistito. La donna aveva perso il marito di recente ed era diventata cieca: i medici a cui ha rivolto la sua richiesta di aiuto hanno confermato che la cecità aveva avuto un impatto devastante sulla sua salute mentale. La donna non voleva più vivere, tanto che aveva più volte tentato il suicidio. Qualche mese prima un’altra donna di 64 anni (da sempre sostenitrice dell’eutanasia) che soffriva di demenza senile è diventata la prima persona affetta da Alzheimer in Olanda a morire di eutanasia. In questo caso a contare sono state le chiare posizioni espresse dalla donna prima che la malattia la rendesse incapace di intendere e volere.
Un altro recente caso che ha fatto discutere, questa volta in Belgio, è
; quello del transessuale Nathan Verhelst. Nathan era nata donna, Nancy, e aveva avuto una vita tormentata, in una famiglia che l’aveva sempre disprezzata proprio in quanto femmina. Crescendo Nancy si è convinta che un’operazione di cambio del sesso avrebbe risolto i suoi problemi. L’intervento però non ha rappresentato per Nancy-Nathan quella rinascita che sperava. La sua sofferenza era aumentata, si sentiva un mostro e per questo ha chiesto, e ottenuto, l’eutanasia.
Ancora qualche mese prima, il caso di due gemelli che hanno chiesto di morire insieme. Così ha raccontato la loro storia Assuntina Morresi sul Foglio, il 17 gennaio scorso: «Erano nati sordi, ma all’idea che sarebbero diventati presto anche ciechi hanno deciso che non valeva più la pena vivere, e hanno chiesto di morire, insieme, così come insieme erano venuti al mondo: la legge belga sull’eutanasia ha consentito a Marc ed Eddy Verbessem, due gemelli quarantacinquenni di Anversa, di essere uccisi con un’iniezione letale, giustificata con la loro grave “sofferenza psicologica” dovuta all’imminente cecità. Non erano malati terminali, lavoravano come calzolai, e secondo alcuni testimoni si sono avviati alla morte bevendo un’ultima tazza di caffè e conversando serenamente con parenti e amici».
Infine, una coppia belga, Leopold Dauwe, 90 anni, e Paula Raman, 89, da 70 anni insieme, hanno chiesto e ottenuto di morire uno accanto all’altra, circondati dai loro figli e nipoti. Probabilmente la morte che ciascuno di noi vorrebbe per sé. «Insieme abbiamo percorso la strada, insieme la abbandoniamo», hanno scritto nel loro testamento. Dirk Uyttendaele, il genero della coppia, ha raccontato al quotidiano belga De Standaard: «Erano malati e nessuno dei due avrebbe mai voluto vivere un giorno senza l’altro. L’intera famiglia ha sostenuto la loro decisione». Più volte Leopold aveva detto che il giorno in cui non sarebbe più stato in grado di prendersi cura di sé, si sarebbe gettato nel fiume. E invece non è stato necessario, in Belgio ha trovato la possibilità di morire senza soffrire, in casa sua, insieme all’amata moglie e circondato dalla propria famiglia.
Negli ultimi mesi in Belgio, come già accennato, si è iniziato a discutere della possibilità che a ricorrere all’eutanasia siano i minorenni, ragazzi sotto i diciotto anni che rientrerebbero nei criteri per chiedere l’eutanasia, tranne che per l’età. Proprio poche settimane fa una commissione del Senato belga ha dato il primo via libera a una proposta di legge in questo senso. Le ipotesi sul tappeto, in realtà, sono varie ma la sensibilità sul tema, come dimostrato dal sondaggio citato all’inizio di questo paragrafo, è largamente condivisa. Perché, se l’eutanasia è una via di uscita dignitosa da una vita che dignitosa non è più, non può essere una questione di età.
In Olanda già qualche anno fa si è molto discusso dell’eutanasia su neonati affetti da gravissime patologie, destinati a morire entro pochi mesi o pochi anni e a trascorrere quel po’ di tempo che la vita ha concesso loro fra atroci sofferenze. Di fronte a casi come questi, nel 2002 il pediatra Eduard Verhagen ha messo a punto il Protocollo di Groningen, che successivamente è stato adottato a livello nazionale. Il Protocollo fornisce ai medici una guida per stabilire in quali casi la somministrazione di farmaci letali ai neonati può davvero essere la via preferibile e per rendere trasparente e controllabile questo processo decisionale (si veda l’articolo di Verhagen su La Primavera di MicroMega 5/2006). Dopo diversi anni di applicazione del Protocollo, il professor Verhagen si chiede se per alcuni pazienti l’eutanasia neonatale non sia preferibile all’interruzione della gravidanza al secondo trimestre. «Il livello di certezza di cui disporre per formulare la diagnosi e la prognosi», scrive in un articolo che pubblichiamo in questo stesso volume, «è spesso molto inferiore alla ventesima settimana rispetto alla situazione dopo la nascita, quando l’équipe medica e i genitori avranno molto più tempo per organizzare le procedure diagnostiche necessarie per aumentare la qualità della diagnosi e della prognosi. Potrebbero esserci a disposizione più tempo (e maggior competenza) per discutere con i genitori circa tutte le opzioni terapeutiche inclusi i trattamenti palliativi. Se tutte le parti interessate constatano che la prognosi è molto negativa, ritengono che la condizione del neonato sia caratterizzata da sofferenze prolungate e intollerabili e i genitori richiedono l’eutanasia, perché non dovrebbe essere ammissibile come alternativa all’interruzione al secondo trimestre?». Già, perché?
La cattolicissima Irlanda sulla via della laicità
Finalmente persino la cattolicissima Irlanda ha iniziato il suo percorso (ancora però molto lungo) di secolarizzazione. Lo scorso luglio il parlamento irlandese ha approvato il «Protection of Life During Pregnancy Bill», una legge che prevede la possibilità di ricorrere all’interruzione di gravidanza, ma solo se la vita della madre è in pericolo. La notizia è stata definita «storica», anche se l’unica vera novità della legge è che tra le circostanze che qualificano il «pericolo di vita» per la madre c’è anche il rischio di suicidio, e dunque in qualche misura vengono tenute in considerazione non solo le condizioni fisiche ma anche quelle psichiche della madre. E non a caso proprio questo passaggio ha sollevato un vespaio di critiche provenienti dal fronte cattolico, il quale teme che questa clausola possa aprire le porte ad aborti per qualunque motivo e in qualunque epoca gestazionale, dato che la legge non pone espliciti limiti.
Per far compiere all’Irlanda questo piccolo, timido passo avanti c’è voluta la morte, nove mesi prima, di una giovane donna, Savita Halappanavar, che stava già avendo un aborto spontaneo, ma alla quale è stata negata l’interruzione di una gravidanza. Il risultato è stato la morte della donna per setticemia. Il caso ha fatto il giro del mondo e ha posto il governo e il parlamento irlandese di fronte all’urgente necessità di modificare la legge. Legge che, in verità, è ancora molto restrittiva, soprattutto perché stabilisce che a decidere sull’interruzione non sia la donna ma una commissione composta da due medici (un ginecologo e uno specialista a seconda dei casi), che diventano addirittura tre (un ginecologo e due psichiatri) nel caso di rischio di suicidio. Se il parere della commissione è negativo, la donna può chiedere che il caso venga sottoposto a un’altra commissione, ma a decidere, alla fine, sono sempre i medici.
Salvo che nei casi di emergenza, le interruzioni di gravidanza potranno essere praticate esclusivamente negli ospedali elencati nella legge stessa. Ospedali che non si possono rifiutare: sebbene infatti la legge preveda la possibilità dell’obiezione di coscienza per i singoli operatori, il governo ha chiarito che ad essa non possono appellarsi interi ospedali. Il caso era stato sollevato da una delle istituzioni elencate nel provvedimento, la Mater Misericordiae University Hospital di Dublino, che aveva sottolineato l’incongruità della legge con i princìpi etici dell’ospedale. Ma il ministro della Salute è stato chiaro: l’obiezione di coscienza riguarda i singoli operatori, non le strutture sanitarie. Peraltro, nella cattolicissima Irlanda
, sono innumerevoli le strutture sanitarie riconducibili più o meno direttamente alla Chiesa: concedere l’obiezione agli ospedali religiosi significherebbe, di fatto, impedire l’applicazione della legge. L’esperienza italiana dimostra però che il confine tra obiezione dei singoli operatori e obiezione di struttura è labile: in alcuni ospedali del nostro paese si raggiunge anche il 100 per cento di obiettori e dunque ci sono strutture sanitarie (e interi territori) dove è di fatto impossibile ricorrere all’aborto (sull’obiezione di coscienza in Italia, si veda l’articolo di Chiara Lalli in questo stesso volume).
La via obamiana alla laicità
«Il nostro viaggio non è completo fino a quando i nostri fratelli e sorelle gay non saranno uguali a tutti gli altri davanti alla legge». Sarà ricordato come uno dei passaggi più toccanti e allo stesso tempo impegnativi del discorso di insediamento di Barack Obama per il suo secondo mandato. E su questo terreno l’iniziativa presidenziale non si è fatta attendere. Lo scorso febbraio Obama ha dato mandato al ministero della Giustizia di presentarsi davanti alla Corte suprema chiedendo di abolire il Defense of Marriage Act, la legge del 1996 che, definendo matrimonio solo quello tra un uomo e una donna, di fatto penalizza gravemente le coppie gay. E a giugno è arrivata la storica sentenza: la legge è incostituzionale, ha stabilito la Corte. Fino a quel momento la questione dei matrimoni gay era sempre stata trattata a livello di singoli Stati, con una «mappa» a macchia di leopardo (l’ultimo ad approvare una legge sui matrimoni tra gay è stato l’Illinois, lo Stato in cui Obama era senatore prima di diventare presidente). Questa sentenza della Corte suprema apre la strada a una legislazione federale sul tema e pone comunque dei paletti anche per le legislazioni dei singoli Stati. Presso la Corte suprema pende anche una decisione che potrebbe bandire le preghiere – vere e proprie, non il semplice e rituale «God bless America» – che molto spesso negli Stati Uniti aprono le sedute di consigli comunali o altre assemblee pubbliche. Il caso è stato sollevato da due donne della città di Greece che contestavano che il consiglio comunale venisse aperto sempre da una preghiera affidata a cristiani.
Di recente l’amministrazione Obama – rinunciando a ricorrere contro una decisione di un giudice di Brooklyn – ha di fatto liberalizzato la distribuzione della pillola del giorno dopo, che può essere venduta senza ricetta e senza limiti di età. Sul fronte del fine vita, infine, di recente il Vermont ha approvato una legge che legalizza il suicidio assistito per i malati terminali, aggiungendosi agli Stati che già la prevedevano, l’Oregon, lo Stato di Washington e il Montana (per una panoramica sullo stato di avanzamento della legalizzazione di suicidio assistito ed eutanasia nel mondo, si veda I. Colanicchia «Atlante dell’eutanasia legale», MicroMega 4/2013). Certo la diffusione dei diritti civili negli Stati Uniti è a macchia di leopardo. In particolare è molto attivo il fronte no-choice sull’aborto, che ha ottenuto in vari Stati l’approvazione di leggi che riconoscono i diritti dell’embrione e di conseguenza limitano quelli delle donne. La nuova frontiera dello schieramento che si oppone al diritto delle donne di abortire è di introdurre il limite di venti settimane per l’aborto: un limite che impedirebbe gli aborti terapeutici per malformazioni e gravi malattie del feto, molte delle quali si riescono a diagnosticare solo dopo la ventesima settimana di gestazione. Un limite che peraltro – come osserva il mensile The Atlantic – colpisce donne che nella stragrande maggioranza non hanno nessuna intenzione di abortire e che si trovano di fronte alla scoperta di gravi malformazioni dei feti. Ma le battaglie ideologiche, si sa, non guardano alle persone in carne e ossa.
Sulla via francese: il caso Québec
Il Foglio ha addirittura titolato «Altro che Francia». Il riferimento è alla Carta dei valori che il governo del Québec, provincia francofona del Canada, ha messo a punto e che, proprio sul modello francese, stabilisce la netta separazione religioni-Stato e la neutralità di quest’ultimo. La Carta, proposta dal ministro per le Istituzioni democratiche e la cittadinanza attiva Bernard Drainville, esponente del Pq (Partito quebecchese, formazione indipendentista canadese di ispirazione socialdemocratica), è tuttora in fase di discussione e, allo scopo di preservare i valori quebecchesi fondati sull’accoglienza e la tolleranza, intende stabilire un dovere di neutralità per il personale pubblico, al quale non sarà consentito ostentare simboli religiosi negli uffici pubblici. «Lo Stato», si legge nella proposta, «ha il dovere di essere neutrale, e questa è la condizione essenziale per assicurare la libertà di coscienza e di religione». La neutralità dello Stato è quindi vista come baluardo a difesa proprio della libertà di coscienza dei singoli individui. «Il miglior modo per lo Stato per rispettare la fede di ciascuno», si legge ancora nella Carta, «è di rimanere neutrale e di non avere alcuna religione. Questo principio promuove il pluralismo assicurando un trattamento equo e imparziale a tutte le fedi».
La proposta ha suscitato forti reazioni e ampi dibattiti nel paese, ricalcando quelli che esplosero qualche anno fa in Francia sulla «questione del velo». Si tratta di una proposta che giunge alla fine di un lungo percorso che ha condotto quella che era un tempo l’area più cattolica del Nordamerica a esser oggi forse la più secolarizzata. In particolare a partire dal 2006 si è acceso nella provincia – grande sette volte l’Italia, con 8 milioni di abitanti – un dibattito attorno a quelli che vengono chiamati i «ragionevoli compromessi» («reasonable accommodations»), a partire da diversi casi controversi che si sono posti all’attenzione dell’opinione pubblica. Nel 2007, per esempio, un gruppo di studenti ebrei ultraortodossi chiese e ottenne di oscurare i vetri delle finestre di un college per evitare di essere «costretti» a guardare le ragazze che facevano ginnastica. Un altro caso che ha fatto discutere è stato quello del giocatore di hockey su ghiaccio Benjamin Rubin, che si era rifiutato di giocare molte importanti partite perché coincidevano con festività ebraiche, costringendo la Hockey League a modificare il calendario. Il dibattito sulle «reasonable accommodations» si era fatto talmente acceso che è stata persino istituita una commissione, composta dal filosofo Charles Taylor e dal sociologo Gérard Bouchard, con il compito di studiare i concreti compromessi che venivano posti in essere nel paese di fronte a casi controversi come quelli citati.
Importante tappa di questo percorso è stata nel 2008 la sostituzione – ad opera di un governo conservatore, di cui facevano parte anche dei cattolici – dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole con un corso di «etica e cultura delle religioni», cambiamento tacciato di «fondamentalismo laicista» dal cardinale Ouellet, allora arcivescovo del Québec.
Un ulteriore passo sulla via della secolarizzazione è la discussione che il parlamento quebecchese sta affrontando in queste settimane sulla proposta di legge per legalizzare l’eutanasia. La bozza in discussione prevede che può accedere all’eutanasia solo un «maggiorenne in fin di vita, che fa una ri
chiesta specifica in modo libero e ripetuto, e risponde ai criteri della legge – cioè avere una malattia incurabile, grave, che peggiora in modo irreversibile e che causa una sofferenza insopportabile». Se questa legge venisse approvata in tempi rapidi, allora sì, «altro che Francia».
(13 febbraio 2014)
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