Pizzarotti: “Sindaci emarginati, servono più poteri. Venti regioni sono troppe”
Daniele Nalbone
Lo stato d’emergenza ha compresso lo spazio decisionale: tutti i poteri sono nelle mani del governo, dei commissari straordinari e dei presidenti di regione. Così i comuni, primi enti di prossimità, si ritrovano senza liquidità e i sindaci sono stati, di fatto, esautorati. La loro funzione politica e di governance è stata annullata. In questa serie di interviste su MicroMega sei sindaci ragionano sul futuro delle amministrazioni locali e del ruolo dei comuni. |
Esautorati? Direi no. Almeno non ancora. Ma emarginati sicuramente sì. Sono settimane, mesi, che i cittadini ci chiedono informazioni che non sappiamo dare. Mi scrivono: «Sindaco, ho fatto richiesta di cassintegrazione ma non ricevo niente da marzo». Penso che sia letteralmente una vergogna, e utilizzo un eufemismo. Fa ancora più rabbia perché, da sindaco, non posso fare nulla. Il massimo che posso rispondere è: se dipendesse dal Comune non lo permetteremmo. Ma purtroppo non dipende dal Comune. Dipende dalla burocrazia, che in Italia non permette nulla. Nulla. Noi siamo destinatari di decisioni già prese altrove. Eppure, siamo noi a gestire i problemi, e quando siamo stati chiamati in causa, come accaduto con la questione del buono spesa, ci siamo fatti trovare pronti. Di certo non si può dire la stessa cosa per i soldi per le partite iva, per le aziende, per la cassa integrazione.
Perché non appena scoppiata l’emergenza sanitaria avete scelto di consegnare, di fatto, tutti i poteri allo stato?
Perché avevamo davanti una necessità: quella di darci delle regole comuni ed evitare che ogni città avesse le proprie norme di comportamento per affrontare la pandemia. Volevamo evitare il caos.
Le regioni però hanno scelto una strada diversa.
E hanno emanato settecento ordinanze. Non ci si capiva più niente. I problemi sono esplosi soprattutto in quelle regioni guidate da presidenti con il mandato in scadenza e la campagna elettorale alle porte: hanno giocato a chi faceva più ordinanze, spesso in contrasto con il governo, e sempre guardando alla linea del proprio partito. In un momento così grave posso dire che è stata scritta una brutta pagina della politica. La scelta dei governatori di centrodestra, poi, che oggi sono la maggioranza, è stata chiara: fare di tutto per entrare in scontro con il governo. Il risultato è stato aver solo generato confusione in un momento in cui c’era estremo bisogno di compattezza.
Un problema non da poco. Le chiedo: come si può risolvere?
Personalmente in questo momento non chiederei più poteri. Chiedo, però, di poter fare il sindaco. Ora la partita da giocare in tema di «poteri» è soprattutto sanitaria: le differenze tra regioni hanno portato a diverse risposte, con un drammatico fallimento in quelle che hanno reso “troppo privata” la sanità. Il tema al quale lavorare immediatamente è ridare ogni delega al governo per avere una cabina di regia centrale su un tema troppo delicato per essere messo sul mercato.
Una cabina di regia centrale, ok. Ma venti cabine locali non sono difficili da gestire con regole comuni?
Una cosa è certa: venti regioni sono troppe. Se ne avessimo, che so, dieci, si creerebbero macroaree molto più omogenee chiamate a seguire delle regole – dei parametri nazionali – che indichino la strada da seguire. Poi, ogni macroregione potrebbe articolare la sanità – continuo su questo esempio – in maniera diversa in base alla popolazione, al territorio, perfino a motivazioni che potremmo chiamare di “abitudine storica”. Non serve che tutto sia uguale in ogni territorio: servono però parametri minimi e regole stringenti, questo sì. All’interno di questo sistema, poi, possiamo prevedere dei livelli diversi di autonomia.
La partita però è per forza di cose anche europea.
Credo che servano misure specifiche e fondi dedicati alle città, un discorso che vale per le città metropolitane ma anche per quelle medio-piccole. È assurdo che per ogni progetto sia necessaria l’intermediazione delle regioni e poi dello stato.
Alle porte, quindi, vede la necessità di una vera stagione di riforme per poter ripartire, è corretto?
Finora è stato lasciato ricadere tutto sulle città, sulle aziende, sui cittadini. Il mio è un discorso semplice: se un sindaco non ha strumenti e risorse per superare un’emergenza ridisegnando la propria città, è tutto inutile. È tutta teoria. Faccio un esempio: prima non potevamo creare una ciclabile semplicemente pitturandola in sede stradale per tutta una serie di motivazioni e limitazioni tecniche. Ora però il governo ci ha detto che si potrà fare con l’obiettivo di accelerare verso una mobilità più sostenibile. Qualcuno, però, ha visto la norma? Siccome sono state dichiarate tante cose, la mia linea non può che essere quella del vedere per credere. Se non abbiamo leve, non possiamo chiedere alle persone di cambiare e basta. Servono incentivi, leve economiche da affiancare a quelle “morali”. Posso fare un altro esempio?
Prego.
Prendiamo la questione del commercio: per anni è stata lasciata “mano libera” ai centri commerciali. Ora, però, il nostro obiettivo è fare in modo che la gente eviti luoghi potenzialmente affollati. Ma che leve ho per aiutare i commercianti, per esempio, per il pagamento degli affitti? Nel centro storico di Parma ci sono affitti mediamente molto alti: è una città – nel suo cuore – ricca, con bei negozi, retaggio di un mondo superato. Ora, per far tornare le botteghe nel centro storico dovrei far calare il prezzo degli affitti perché, a queste condizioni, un piccolo commerciante non può neanche pensare di aprire un’attività. Io non ho strumenti e non ho risorse per convincere il proprietario di un negozio ad abbassare il prezzo. Mi piacerebbe dirgli «se abbassi l’affitto ti concedo degli sgravi fiscali», o – al contrario – «se hai un negozio sfitto ti tasso di più». Ma non posso farlo. Ecco: servono norme per fare in modo che un sindaco possa incidere sulla vita della propria città in tanti aspetti. Se pensiamo di risolvere il problema della mobilità con il bonus biciclette o il bonus monopattino significa che non abbiamo capito niente.
A inizio intervista ha messo subito nel mirino la questione del welfare. Le chiedo: in questo campo quali risorse e strumenti servirebbero a un sindaco?
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Ecco, questo è uno dei campi in cui noi sindaci vogliamo e dobbiamo essere protagonisti. Il reddito di cittadinanza ha fallito. Non si tratta di cambiarlo, di limarlo, di incrementarlo. Ha fallito e basta. Questi famosi “navigator” che dovevano trovare lavoro alla gente che fine hanno fatto? Quanti posti di lavoro hanno trovato? E non mi riferisco all’attuale momento di crisi che stiamo vivendo: anche prima del Covid non mi sembra che il reddito di cittadinanza sia stato chissà quale rivoluzione. Sono certo, al contrario, che se avessi creato uno strumento – e stanziato risorse – da consegnare ai sindaci la storia sarebbe stata diversa. Soprattutto nessun sindaco si sarebbe mai sognato di legare un reddito “minimo” – per capirci – alla ricerca attiva del posto di lavoro. Il welfare è una cosa, le politiche del lavoro un’altra.
Una delle sue battaglie, o meglio, uno dei suoi nemici storici si chiama burocrazia. Anche per quanto riguarda il ritardo nell’erogazione della cassa integrazione ha fatto riferimento ai troppi passaggi necessari prima che i soldi possano arrivare sui conti correnti dei cittadini.
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