Politica del virus e virus della politica: destra e sinistra di fronte alla pandemia

Fabrizio Battistelli



Se c’è (ancora) qualcuno che dice che destra e sinistra non esistono, resistete alla tentazione di mettervi a ridere. Di sicuro avete di fronte un sostenitore più o meno inconsapevole di una delle due posizioni – al 90% di quella di destra. Che cosa c’entrano le ideologie con il Coronavirus? C’entrano eccome. Insieme a molti altri, la pandemia è un fenomeno non soltanto “naturale” ma anche socialmente costruito e quindi interpretabile alla luce della politics. L’interpretazione che se ne fornisce, e conseguentemente le scelte di policy che ne scaturiscono, tutto possono fare tranne che evitare di essere anch’esse di destra o di sinistra. Ad esempio, nel cruciale ambito della prevenzione, dove (schematizzando) si dispongono lungo il continuum interventismo progressista/laissez faire conservatore.

Dal canto loro, sia l’una che l’altra ideologia costituiscono non due blocchi monolitici, piuttosto due famiglie di idee e di rappresentanze di interessi. Come accade nelle migliori famiglie, i soggetti che ne fanno parte tendono a distinguersi tra loro, qualche volta anche a litigare. Quest’ultima variante è particolarmente diffusa nella sinistra, dove non è infrequente il caso di polemiche, reciproci attacchi e quelle che Hirschman chiama “defezioni”, ovvero abbandoni con armi e bagagli per dare vita a nuove imprese politiche (nel PD a un ritmo di una all’anno negli ultimi tre anni: Articolo Uno, Renzi, Calenda). In questi e in altri casi, la faglia delle contrapposte visioni affonda essenzialmente nella dicotomia riformisti/rivoluzionari, pur con un’ampia gamma di sfumature e soprattutto di controversie quando si tratta di autocollocarsi nell’una o nell’altra delle due sotto-aree. Circoscrivendo il discorso alla pandemia da Coronavirus e all’atteggiamento seguìto in essa, è da osservare che – alla vigilia del primo maggio 2020 – la dialettica interna al campo progressista è abbastanza circoscritta, convenendo quasi tutti sul carattere estremo dell’emergenza e sulla necessità di farvi fronte. Se nei primi tre mesi di pandemia è rilevabile una vena polemica, questa ha per protagonista la sinistra radicale (neppure tutta ma quella dichiaratamente antagonista), la quale denuncia i pericoli di involuzione autoritaria cui potrebbero dare vita gli appelli all’unità nazionale e le misure che (come la quarantena e il confinamento in casa) comprimono i diritti dei cittadini. Quest’ultimo è un tema complesso, sul quale converge l’attenzione di un pensiero libertario che può tingersi di toni anarchici ma anche individualisti. Tra gli intellettuali emerge il filone post-foucaultiano rappresentato da Giorgio Agamben, che in due brevi interventi (“L’invenzione di un’epidemia” e “Contagio” su Quodlibet del 26 febbraio e dell’11 marzo 2020) espone il suo scetticismo circa la “supposta epidemia da virus” e critica le autorità che “si adoperano per diffondere un clima di panico, provocando un vero e proprio stato di eccezione”. Una posizione a sua volta oggetto di vari rilievi, tra cui quello di Paolo Flores d’Arcais che su MicroMega del 16 marzo 2020 la definisce, con scarso understatement, “una filosofia del cazzo”.

Su una questione così coinvolgente come il contagio da Coronavirus e la conseguente emergenza sanitaria (ed economica) anche la destra è divisa in due correnti. Da un lato vi sono i comunitari, dall’altro i liberisti; una dicotomia consolidata, sulla quale ha a lungo dibattuto il pensiero politico e sociale americano degli ultimi anni. Rivale del liberismo in ambiti fondamentali quali il mercato, la società, l’individuo la destra comunitaria è una tenace sostenitrice dei confini. Come nel caso del suo campione europeo – il premier ungherese Orbán – essa critica da destra la globalizzazione, nella quale identifica il disegno delle élite di snaturare l’anima dei popoli (occidentali). Secondo i comunitari (noti anche come populisti e sovranisti) l’obiettivo perseguito da questa strategia sarebbe l’indebolimento delle frontiere delle nazioni europee. Invece le frontiere vengono viste da loro come istituzioni storicamente consolidate, che investono aspetti sia materiali sia immateriali (economici come politici, etnici e nazionali come culturali e religiosi ecc.), altrettanti baluardi a fronte della circolazione selvaggia di merci, di capitali e soprattutto di esseri umani (i migranti, persone al cui ingresso la destra comunitaria dice di opporsi anche per evitarne lo sfruttamento da parte del mercato globalizzato). Agli occhi dei comunitari il Coronavirus non è che l’applicazione fisica (biologica) della contaminazione simbolica cui l’Occidente è sottoposto dalla pressione, violenta o meno, delle altre civiltà. Insomma un’estremizzazione della posizione analitica di Samuel Huntington e del suo Scontro di civiltà, secondo cui, dopo la vittoria della democrazia rappresentativa e del libero mercato sul blocco sovietico, il conflitto ha abbandonato il terreno economico-politico per trasferirsi su quello culturale.

Dall’interpretazione comunitaria, che resiste tenace ma è a tutt’oggi minoritaria, si distingue l’interpretazione liberista, che guarda ad essa con la benevola superiorità con cui un broker di Wall street tratta il nonno quando va a trovarlo nella sua fattoria del Nebraska. A livello internazionale la destra liberista è impersonata da leader politici quali Bolsonaro in Brasile, Johnson in Gran Bretagna e Trump negli Stati Uniti, più la pletora di loro ammiratori sparsi per il mondo. Alcuni aspetti sono, culturalmente prima ancora che politicamente, comuni alle due destre. Tipicamente entrambe tendono ad esportare la responsabilità della pandemia in un esterno più o meno definito. Qui Orbán e Trump si danno la mano per concentrarsi ciascuno contro il proprio nemico. Quello del premier ungherese, che riprende uno dei suoi numeri più popolari, è facile in quanto il bersaglio è rappresentato dagli immigrati (portatori di “un certo legame con il Coronavirus”). Invece il nemico che si para di fronte al presidente americano appare meno facile, in quanto è rappresentato da una Cina che ha permesso al “virus di Wuhan” di tracimare dai laboratori e, nell’omertà e nel silenzio, infettare il resto del mondo.

A questo punto le strade delle due destre si biforcano. Di fronte al fenomeno pandemico che esplode, i comunitari tendono a essere più allarmisti e i liberisti più riduzionisti o, per meglio dire, sono allarmisti per gli altri e riduzionisti a casa propria. Ciò è chiaro soprattutto all’inizio, quando le proporzioni e le possibili conseguenze del contagio non sono ancora evidenti. Nonostante esempi come quello italiano (anche a voler trascurare il remoto Estremo Oriente, dove pure opera un governo liberaldemocratico come la Corea del Sud) la consegna dei leader liberisti è quella di minimizzare. Inizialmente per Bolsonaro il Coronavirus è una “influenzetta” destinata a passare senza problemi, per Trump basta stare a riposo a casa senza bisogno di sentire il medico e Johnson dichiara di aver stretto la mano a una quantità di possibili contagiati senza subire alcuna conseguenza. Via via che l’epidemia prende piede, peraltro, diventa sempre più difficile ignorarla. Ma, soprattutto nell’anglosfera, l’approccio seguito dai governi è un darwinismo divulgativo che farà dire
al premier britannico di prepararsi a veder morire molti dei propri cari, almeno fino a quando l’epidemia si esaurirà da sola dopo aver infettato quaranta milioni di cittadini e conseguìto “l’immunità di gregge”. Totalmente scevro di qualsiasi ideologia (Darwin e Malthus compresi), Trump mette sul piatto della bilancia i costi economici e finanziari della quarantena, a fronte dei quali “la cura non può essere peggiore del problema”. Il presidente è soprattutto sensibile all’andamento di Wall street, alle sollecitazioni degli imprenditori e alle preoccupazioni degli elettori che dovrebbero votarlo già nel prossimo novembre; da qui inizia il pesante braccio di ferro con i governatori dei singoli stati (a cominciare dai più avanzati come New York e la California), prima per ritardare o attenuare il lockdown, poi per revocarlo al più presto.


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In scala, qualcosa del genere accade anche in Italia. Qui il paesaggio ideologico presenta alcuni punti di contatto con il quadro internazionale, ma i posizionamenti politici si profilano in modo diverso. In principio anche da noi è possibile distinguere tra una destra comunitaria, rappresentata da Salvini e Meloni, e una destra liberista rappresentata da Berlusconi. Vari fattori intervengono tuttavia a confondere le acque. A differenza dei cavalli di battaglia del recente passato tipo la campagna anti-immigrati, con il corteo di nemici immaginari, capitani improvvisati e battaglie senza storia, questa volta l’allarme è reale e la posta in gioco è seria. L’emergenza da affrontare non è un appuntamento elettorale, nel quale la parte del leone la fanno le iperboli e le promesse. Le decisioni vanno assunte subito e i loro effetti hanno conseguenze immediate. Le scelte da operare sono obiettivamente difficili, anzi fanno venire i brividi. L’alternativa non è tra incubi e sogni ma tra due scenari, uno più cruciale e più urgente dell’altro: prolungamento della chiusura o inizio dell’apertura? Rischiare di rimanere vittime della malattia oppure vittime della crisi economica?

L’impraticabilità di replicare una strategia già di successo, focalizzata nel dare voce alla protesta, sta mettendo le destre italiane in una difficoltà che è macroscopica nella povertà delle critiche a misure governative bollate sempre e comunque come insufficienti, nella contrapposizione inconcludente e assai poco nazionale sulla trattativa con l’Europa, nell’incerto andirivieni tra le opzioni antitetiche del “chiudere tutto” e dell’“aprire tutto”. Dopo aver oscillato freneticamente, l’ago della bilancia del centro-destra registra uno strano scambio delle posizioni ideologiche in seguito al quale i comunitari Lega e Fratelli d’Italia, in opposizione frontale al governo PD-Cinquestelle, si fanno portavoci della fretta di riaprire manifestata dal “partito degli imprenditori e delle partite Iva”, mentre la liberista Forza Italia assume nei confronti del governo una postura di opposizione istituzionale se non di latente dialogo, condividendo condizioni e tempi dell’abbandono del lockdown alcune delle preoccupazioni del “partito degli scienziati”.

La risposta al fondamentale quesito su chi avrà avuto ragione nella strategia di gestione della pandemia, tra la destra tendenzialmente riduzionista e la sinistra tendenzialmente interventista, lo sapremo soltanto sopravvivendo. Nel frattempo resta la sia pur marginale soddisfazione di constatare che i buoni vecchi concetti di destra e sinistra ancora funzionano.
(27 aprile 2020)



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