Politiche inefficaci e catastrofismo non ci aiutano ad affrontare il problema dei cambiamenti climatici

Marco Ponti

La "controreplica" di Marco Ponti e Francesco Ramella, autori del saggio “L’auto non inquinante non è un’illusione” sul , alla di Stefano Caserini, autore del saggio “L’auto non inquinante è un’illusione” contenuto nel .

e Francesco Ramella

al saggio di Stefano Caserini: “L’auto inquinante non è un’illusione”

: “Per affrontare la crisi climatica non servono valutazioni economiche semplicistiche e imprecise”

Ringraziamo Stefano Caserini per la controreplica e vorremmo provare a sintetizzare gli elementi sui quali ci pare che il confronto abbia fatto emergere una convergenza e dove invece permane un dissenso.

L’inquinamento atmosferico. Ci sembra di poter dire che sul punto essenziale – le auto commercializzate oggi, a standard Euro 6, inquinano l’aria molto meno, indicativamente un decimo, rispetto a quelle Euro 0 – la due posizioni siano collimanti. Come ricorda Caserini, ma era per noi implicito, non essendo il ricambio veicolare istantaneo, gli effetti del radicale miglioramento tecnologico si esplicano in tempi più lunghi rispetto al momento di introduzione sul mercato dei nuovi modelli. Importanti risultati sul miglioramento della qualità dell’aria sono già stati conseguiti e la tendenza proseguirà, anche in assenza di politiche pubbliche aggiuntive rispetto a quelle in vigore, nei prossimi anni. L’auto elettrica costituisce un ulteriore passo in avanti ma, in termini di inquinamento locale, la differenza rispetto ai più recenti veicoli a combustione interna è molto modesta proprio in ragione dell’abbattimento delle emissioni già avvenuto. In altre parole, considerando anche le emissioni dovute a usura di freni e pneumatici, vi è un amplissimo divario fra un’auto Euro 0 e una a standard Euro 6 ma non tra quest’ultima e una elettrica.

L’impatto economico dei cambiamenti climatici. Non vi è differenza sostanziale tra la valutazione dei costi dei cambiamenti climatici di William Nordhaus nel 2007 (il 2,55% del PIL mondiale un incremento di temperatura di 3 °C) e quella del 2018 (2,1%) a cui abbiamo fatto riferimento. Inoltre, quella riportata nella nostra replica non è una delle tante ma l’unica stima esplicita dei danni in uno scenario di forte crescita della temperatura (3,66 °C al 2100) riportata nel Rapporto dell’IPCC.

E non si tratta di una valutazione “anomala”; se consideriamo, come è corretto fare, l’insieme degli studi pubblicati, vediamo come la quasi totalità delle stime sono concordi nel valutare in alcuni punti di PIL i costi economici di un aumento di temperatura intorno ai 3 °C. Occorre inoltre sottolineare che si tratta di una riduzione non in termini assoluti rispetto a oggi ma tendenziale. Gli scenari utilizzati per stimare le emissioni future prevedono che il reddito procapite nel mondo nel 2100 sarà almeno tre volte superiore a quello attuale: quindi, i nostri successori sul pianeta, saranno molto più ricchi di noi ma un po’ meno ricchi rispetto ad un’ipotetica situazione senza aumento della temperatura.

L’affermazione di Caserini secondo la quale un incremento di 3°C o 3,6 °C innescherebbe un “aumento del livello del mare di decine di metri” contrasta con quanto sostenuto dall’IPCC: “The available evidence indicates that sustained global warming greater than a certain threshold above pre-industrial would lead to the near-complete loss of the Greenland ice sheet over a millennium or more, causing a global mean sea level rise of about 7 m. Studies with fixed ice-sheet topography indicate the threshold is greater than 2°C but less than 4°C (medium confidence) of global mean surface temperature rise with respect to pre-industrial[i]”. William Nordhaus ha prodotto una stima dell’impatto economico della destabilizzazione della calotta glaciale della Groenlandia che non modifica sostanzialmente la valutazione complessiva dei danni. Non vi è qui lo spazio per entrare nel merito di quale sia il più corretto valore del tasso di attualizzazione degli impatti economici futuri. Il dibattito nella comunità scientifica è aperto e sono del tutto legittime diversità di opinioni in merito[ii]. Ma è fuori di dubbio che un aumento di 5 m del livello del mare che si manifesti in dieci anni non può essere messo sullo stesso piano di uno che avvenga in mille non fosse altro che per la diversissima possibilità di adattamento nei due casi.

Il costo delle misure per limitare la crescita della temperatura a 1,5 °C Scrivere Caserini che: “Scegliere questa metrica, scegliere di usare il valore medio [100 € per la riduzione di una tonnellata di CO2] o scegliere di riferirsi al 2030 anziché al 2050 o al 2100, non è una scelta neutra.” Tale affermazione può essere riferita a qualsiasi valore. La scelta più neutra possibile ci sembra fare proprio il valore indicato dalla UE (e al quale è peraltro necessario attenersi per le valutazioni economiche delle politiche dei trasporti). Inoltre, se è necessario azzerare l’uso dei combustibili fossili nei prossimi 30 anni, non avrebbe senso riferirsi all’orizzonte temporale del 2050 e tantomeno del 2100.

Si può aggiungere che, se il costo unitario di riduzione delle emissioni di CO2 da sostenere per rispettare l’obiettivo di incremento a 1,5 °C fosse in realtà “molto maggiore” di 100 €, la probabilità che il rispetto di quell’obiettivo sia desiderabile si ridurrebbe fortemente. A parità di benefici, infatti, i costi totali sarebbero anch’essi molto maggiori. Vorrebbe dire che la scelta migliore, quella che minimizza la somma dei danni del cambiamento climatico e dei costi per la riduzione delle emissioni, sarebbe verosimilmente quella di perseguire un obiettivo meno stringente con una temperatura ottimale tanto maggiore quanto più elevati sono i costi di abbattimento.

Il costo opportunità della riduzione dell’uso dell’auto Per Caserini è “una sciocchezza preoccuparsi della riduzione degli introiti statali causati da chi rinuncia ad andare in auto perché sceglie la bicicletta perché nei prossimi 30 anni dovremo fare a meno dei combustibili fossili, anche nel settore dei trasporti, e quindi agli introiti fiscali collegati”.

È un’affermazione in contraddizione con quanto egli stesso, in modo del tutto condivisibile, scrive più avanti nella sua replica ossia che: “è certo utile valutare le politiche più efficienti, definire il corretto mix di incentivi e disincentivi, mirare in modo oculato i sussidi, la quantità di risorse che conviene spendere per ridurre le emissioni, per adattarsi ai cambiamenti già in atto, o per le altre crisi parallele (e legate) a quella climatica”.

Ammettiamo che tra 30 anni l’uso dei combustibili fossili sia azzerato. Ma da qui fino ad allora per ogni litro di benzina in meno consumato, a prelievo invariato rispetto ad oggi, lo Stato perderà 0,89 € di euro – accisa di 0,73 € + IVA sull’accisa di 0,16 € – che equivalgono a 382 € per tonnellata di CO2 non emessa. È un elemento che non si può ignorare come, ad esempio, non si può considerare irrilevante il costo delle politiche di incentivo ai veicoli elettrici o il fatto che questi siano soggetti a un prelievo fiscale minore dei fossili. Il farlo implica necessariamente non voler perseguire politiche efficienti. Significa ignorare il principio economico base del costo opportunità e, implicitamente, negare l’utilità delle valutazioni economiche.

D’altra parte, se davvero non fosse necessario preoccuparsi della perdita di introiti fiscali, perché non abolire già da domani le accise su benzina e gasolio invece di aumentarle ulteriormente come sembra essere intenzione del Governo?

I trasporti collettivi e le biciclette non possono sostituire l’auto Non occorrono davvero analisi sofisticate per comprendere che in Italia e in Europa il contributo della mobilità dolce o dei trasporti collettivi alla riduzione delle emissioni non potrà che essere marginale. Al contrario di quanto sostiene Caserini, nel passato non sono state le politiche pubbliche a determinare “il peso preponderante del traffico autoveicolare”. Le politiche pubbliche hanno destinato ingentissime risorse ai trasporti collettivi mentre quello privato su gomma è soggetto da decenni ad un carico fiscale molto superiore alla spesa pubblica di settore (con entrate nette per lo Stato attualmente pari a circa 40 miliardi all’anno). Il ruolo preponderante dell’auto è stato conseguito nonostante politiche che lo hanno ostacolato. Pensare di sostituire una parte rilevante dei chilometri percorsi in auto migliorando l’offerta di trasporto collettivo è un po’ come ipotizzare di ridurre le vendite di personal computer elevando la qualità o sussidiando la vendita di macchine per scrivere. O come se, 150 anni fa, quando la ferrovia soppiantò il cavallo si fosse provato a ridurre l’uso della prima incentivando il ricorso al trasporto animale.

Due esempi numerici possono aiutarci a comprendere meglio i termini della questione. In Italia, nel 2017, le percorrenze totali in auto sono state pari a 744,9 miliardi di km (in media 12.500 km per persona), e quelle in metropolitana e tram (i modi di trasporto su cui pare si voglia puntare maggiormente in ambito urbano) 6,8 miliardi. Ipotizziamo che nei prossimi 30 anni queste percorrenze raddoppino o triplichino e che tutti i chilometri in più siano sottratti all’auto (ipotesi del tutto inverosimile: solo una quota minoritaria degli utenti di nuove linee di metropolitana in precedenza utilizzava l’auto), si determinerebbe una riduzione delle percorrenze in auto dell’1-2%.

Oppure ipotizziamo che nei prossimi 30 anni l’uso della bicicletta in Italia divenga uguale a quello attuale dell’Olanda, pari a 900 km in media per persona, di gran lunga il più elevato in Europa, e che, come per le metropolitane, tutte queste percorrenze siano sostitutive di quelle oggi effettuate su strada (anche questa ipotesi irrealistica: la bicicletta è assai più un’alternativa ai trasporti collettivi che all’auto). Di nuovo, l’impatto sarebbe una riduzione di qualche punto percentuale.

D’altra parte, è precisamente l’esempio dell’inquinamento atmosferico a farci comprendere come solo l’innovazione tecnologica possa portare
alla riduzione delle emissioni e non altre politiche. Se la qualità dell’aria nelle nostre città è molto migliorata lo dobbiamo pressoché esclusivamente alla riduzione delle emissioni unitarie dei veicoli (e degli altri settori), in assenza della quale l’inquinamento sarebbe, al contrario di quanto avvenuto, molto aumentato. Per questo, anche in considerazione della rapida crescita dell’uso dell’auto nel mondo, è sulla innovazione dovremmo puntare tutte le nostre risorse.

Analisi specifiche di singoli progetti si possono, anzi si devono fare – e coloro che scrivono sono tra i pochi a sostenerlo e a metterlo in pratica pur tra fortissime opposizioni – e possono portare a valutazioni di diverso segno, molto negativo, ad esempio, nel caso del nuovo collegamento ferroviario Torino – Lione, anch’esso falsamente propagandato come elemento essenziale per la riduzione delle emissioni di CO2). Ma il quadro generale è chiaramente delineato.

La decrescita e il PIL Esiste in verità un’altra strada efficace per ridurre drasticamente o anche azzerare le emissioni: si tratta di impedire oppure di ostacolare ulteriormente con un ulteriore forte incremento della pressione fiscale, l’uso dell’auto (e del camion per le merci). È quanto abbiamo sperimentato con il lockdown negli scorsi mesi con gli impatti economici e umani, pur non ancora manifestatisi appieno, che dovrebbero essere evidenti a tutti.


SOSTIENI MICROMEGA

L’informazione e gli approfondimenti di MicroMega sono possibili solo grazie all’aiuto dei nostri lettori. Se vuoi sostenere il nostro lavoro, puoi:
abbonarti alla rivista cartacea

– acquistarla in versione digitale:
| iPad

Conveniamo con Caserini che il PIL non è indicatore che può riassumere tutti gli impatti dei cambiamenti climatici ma sappiamo anche che esso è strettamente correlato al miglioramento delle condizioni di vita sulla terra.
La crescita della ricchezza che abbiamo conosciuto negli scorsi 150 anni, e alla quale non poco ha contributo la disponibilità di energia abbondante e a basso costo, ha consentito un miglioramento senza precedenti delle condizioni di vita dell’umanità e, tra le altre cose, ci ha consentito di proteggerci molto meglio dalle condizioni naturali avverse.
Tra gli anni ’80 dello scorso secolo e la decade che abbiamo alle spalle la mortalità causata da eventi estremi si è ridotta di ben 6,5 volte. Rallentare questo processo aumentando il costo dell’energia al fine di contenere le emissioni accresce la vulnerabilità di chi è più povero esattamente come è successo con il lockdown.

Ed è questo il motivo che dovrebbe portarci a scegliere politiche di riduzione delle emissioni il meno costose possibile e a supportare economicamente i Paesi a minor reddito, trasferendo loro parte dei proventi dell’auspicabile carbon tax, lasciando da parte atteggiamenti catastrofisti che, come hanno scritto nei giorni scorsi Richard Betts e Zeke Hausfather, due autorevoli studiosi del clima sul Guardian, rischiano di essere controproducenti così come quelli dei negazionisti.

(12 agosto 2020)


[i] “Le evidenze disponibili indicano che un riscaldamento globale sostenuto superiore a una certa soglia al di sopra del periodo preindustriale porterebbe alla quasi completa perdita della calotta glaciale della Groenlandia nel corso di un millennio o più, causando un innalzamento medio globale del livello del mare di circa 7 m. Gli studi indicano che la soglia è maggiore di 2 ° C ma inferiore a 4 ° C (confidenza media) dell’aumento della temperatura superficiale media globale rispetto al preindustriale”.

[ii] Per il lettore che volesse approfondire il tema si rimanda a un recente paper di Christian Gollier e James K. Hammitt.




MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.