Popolo: chi o che cosa?

MicroMega

di Pierfranco Pellizzetti

«Il popolo non esiste. Mi spiego: non esiste
in quanto dato empirico. L’entità empirica è
la popolazione. Il popolo in quanto categoria
politicaè sempre qualcosa di costruito»
Chantal Mouffe

«Il sondaggio registra quel che la
gente pensa quando non pensa»

James S. Fiskin

Niccolò Bertuzzi, Carlotta Caciagli e Loris Caruso (a cura di), Popolo chi? Classi popolari, periferie e politica in Italia, Ediesse, Roma 2019
L’apparenza inganna

“Carne cento per cento italiana”, “latte cento per cento italiano”, “farina cento per cento italiana”, assicurano i martellanti slogan entusiasti dei creativi. Poi apprendiamo che, su cinque prosciutti di Parma, quattro sono prodotti con maiali danesi o dell’Est. Circa il latte dei famosi formaggi nazionali si scopre che almeno un terzo è munto altrove, forse in Austria e Germania, mentre la nostra impareggiabile farina non di rado è macinata con grano canadese o degli Stati Uniti.

Effetto di un mondo rimpicciolito dalla globalizzazione e dal just-in time? Probabilmente anche. Ma anche una robusta mistificazione. Questo per dire che il nazionalismo di ritorno (“prima gli italiani”, “il Paese più bello del mondo”. A proposito: peccato che il proclamato Bel Paese soffochi da decenni sotto colate di cemento e le conclamate “città d’arte” si riducano a una sorta di letto sfatto per mancata manutenzione e sfruttamento intensivo), la presunta eccellenza italiana, trasformata recentemente in propaganda acchiappatutto dalla svolta sciovinistica della Lega salviniana post-padana, è una spudorata manipolazione discorsiva mediatizzata; esito di poste in gioco alla ricerca di rapporti di forza. Tanto da indurre il sospetto che l’indagine sull’ipotetico pensiero popolare, più che agli strumenti sociologici, debba fare ricorso all’antropologia culturale; utilizzando le chiavi di lettura fornite dalla comunicazione e dal consumo. Un fenomeno che investe la dimensione planetaria ma a cui noi italiani abbiamo aggiunto molto del nostro, maturato nel ventennio dell’illusionismo televisivo berlusconiano e ora ribadito nel governo verde-giallo, guidato da epigoni dell’ex Cavaliere, bulimici di social.

A livello generale, quanto ci segnala da qualche tempo l’antropologo Marc Augé: «gli stessi contestatori, quando fanno sentire la loro voce, sono prigionieri del mondo delle immagini creato dalla prodigiosa espansione dei media e della comunicazione elettronica» (Augé pag.65). In altre parole, le categorie di sensazione, percezione e immaginazione sono state sconvolte dalle applicazioni tecnologiche e dalla potenza dell’apparato industriale che le diffonde. Al servizio della svolta ideologica NeoLib/NeoCon degli ultimi quarant’anni. Per cui “libertà” diventa sinonimo di “proprietà”, non autonomia e indipendenza; “sicurezza” vuol dire “incolumità”, non un ruolo certo nella società tutelato da garanzie e diritti.

Di conseguenza emerge l’imperativo di non prendere mai per oro colato quanto acquisiamo dalla viva voce degli interpellati, visto l’avviamento forzato di massa al pensiero pensabile che caratterizza questa fase storica; colonizzata da poderose operazioni di indottrinamento, per indurre modelli di rappresentazione atti a diffondere senso e significati funzionali al controllo sociale.

Decostruzione e ricostruzione delle categorie orientative nello spazio collettivo. Prima di tutto, quanto «da un secolo svolgeva un ruolo fondamentale nell’interpretazione ordinaria della società e dopo la guerra era stato in qualche modo integrato nella struttura dello Stato: le classi sociali», che tracciavano confini tra gruppi di persone che occupano posizioni diverse nella divisione del lavoro, nei rapporti di proprietà e nella distribuzione di risorse. Quello spazio che dal secondo dopoguerra, a seguito del “compromesso keynesiano-fordista” (lo storico trade-off tra borghesia imprenditoriale e lavoro organizzato), fino agli anni Ottanta forniva riferimenti condivisi, pratici e cognitivi, «è diventato opaco e ha cessato di essere un quadro interpretativo ordinario» (Boltansky&Chiappello, pag. 358).

Il popolo tra Casta e Bruciabaracche: smarrito

Genuino o eterodiretto che sia, la ricerca di Popolo chi? ausculta il “sentire” attualmente diffuso nel caso italiano in base a un assunto: «Ai comportamenti delle classi popolari vengono attribuiti molti fenomeni centrali della politica contemporanea (come l’ascesa delle destre e la diffusione del razzismo), ma non sono mai interpellate direttamente. La loro volontà si esprime solo nelle urne, eppure la maggior parte dei messaggi politici è rivolta a loro. Leader e partiti sembrano sapere quali sono i loro bisogni, speranze, paure, esigenze, convinzioni» (pag. 23). Nella contrapposizione di due retoriche. Da un lato, quella dei partiti mainstream che ha dominato la politica degli ultimi trent’anni: l’amministrazione, la razionalità tecnico-finanziaria, il cinico realismo giustificati con l’argomentazione che Roberto M. Unger definisce “dittatura della mancanza di alternative” (Unger pag. 3); e chi non si adegua è un irresponsabile. Dall’altro, partiti nuovi (o presunti tali) che si impancano a forze popolari legittimando le proprie posizioni, anche le più antisociali, con il mantra permanente che le definisce vantaggiose per “i ceti più deboli e bisognosi”, “le periferie”, «le persone che vivono i problemi tutti i giorni». Si parli di lavoro, sviluppo, infrastrutture, welfare, sicurezza o di politiche anti-immigrazione, tutto viene giustificato con tali narrazioni, che rappresentano i politici di Palazzo come un ancien régime decadente e ipocrita; soprattutto indifferente alla vita reale.

Descrizione a tinte cariche dell’odierna polarizzazione politica persino accettabile: la Casta arroccata sui propri privilegi contro i Demagoghi bruciabaracche; portafogli o risentimenti. Magari il Calenda vs. Salvini delle ultime elezioni europee.

Semmai continua a lasciare perplesso chi scrive la prefigurazione del destinatario di tale duplice storytelling, presupposto come un soggetto unitario, in possesso della canonica coscienza di classe “in sé” e “per sé”, come se vigesse ancora una società industriale; la sua secolare configurazione binaria data dalla contrapposizione tra borghesia imprenditorial/manageriale e lavoro dipendente (con il problema di collocare nel modello pure l’ambigua presenza dei ceti medi). Al tempo in cui Paolo Sylos Labini poteva scrivere il suo Saggio sulle classi sociali («per distinguere le diverse classi sociali il reddito è un elemento importante, ma non tanto per il suo livello, quanto per il modo attraverso cui si ottiene») e Carlo Tullio-Altan firmava con Roberto Cartocci Modi di produzione e lotta di classe in Italia («la dicotomia di classe fra borghesia produttiva e proletariato nel modo di produzione industriale moderno»). Un mondo – come detto – dirottato altrove attraverso il decentramento produttivo e le strategie labour saving, da cui emerge quell’apocalisse antropologica, quella mattanza di legature sociali che Zygmunt Bauman ci ha descritto per decenni con il suo monomaniacale ricorso all’aggettivo “liquido/a”.

«I corpi solidi per i quali – nell’epoca della modernità liquida – è scoccata l’ora di finire nel crogiuolo ed essere liquefatti sono i legami che trasformano le scelte individuali in progetti e azioni collettive» (Bauman pag. XI).
La società molecolare

Qui si ipotizza che la grande trasformazione abbia trovato avvio nel mondo del lavoro, con le modalità feroci della decimazione. «Il passaggio dallo sfruttamento all’emarginazione», per dirla con i già citati “bourdivins” (i B&C, allievi di Pierre Bourdieu). I cui effetti si sono estesi a macchia d’olio nell’intero corpo sociale. Con la premessa ideologica che “la società non esiste”, ultimo mantra del modello anglo-americano novecentesco, mentre va a esaurimento la sua capacità di irradiamento; aggrappato a convincimenti traballanti basati «sulla sopravvivenza darwiniana del più adatto e sulla mano invisibile smithiana» (Pilling, pag. 188). L’opera di sminuzzamento che recide ogni legatura creando un contesto di molecole sparse, chiuse nella loro solitudine. Giustificato e consolidato attraverso l’inoculamento di concetti giustificativi dell’operazione: uno stato di fatto che non contempla alternative, in base all’opinabile assunto alla Mandeville secondo cui il perseguimento dell’interesse individuale va a vantaggio di quello generale.

Il tutto asceso a verità di fede, utilizzando le attuali tecnologie ICT per ottenere condizionamenti del pensiero quali mai in passato: il Potere, che si consolida da epoche immemorabili propugnandosi “vero” e “naturale”, ora lo fa in maniera parossistica grazie alle opportunità offerte dai new media. E il quantitativo diventa qualitativo.

In particolare è l’architettura di Internet a essere chiamata in causa, per la sua inarrestabile evoluzione verso una struttura di dati centralizzata, basata su standard proprietari, grazie ai quali grandi multinazionali USA lucrano rendite di posizione dovute a ingenti esternalità di rete. La cosiddetta GAFA (Google, Apple, Facebook, Amazon) – in assenza di controlli e regolazioni – ha acquisito l’immensa capacità di estrarre, aggregare, analizzare masse enormi di informazioni spendibili in una modalità senza precedenti: la personalizzazione disaggregata. Messo sul mercato inizialmente al servizio delle aziende, il combinato di big data e algoritmi predittivi è servito a modificare qualità umane quali esperienza e giudizio inducendo propensioni di acquisto (Ford, pag.105). Ma poi la faccenda è andata avanti. Difatti una tale potenza manipolativa ora serve per realizzare quanto il professore di Harvard Shoshama Zuboff definisce “capitalismo della sorveglianza”; in cui la suddetta funzione «non si applica solo a scopi securitari da parte di governi e agenzie di intelligence, ma diventa il cuore di modelli economici della società digitale. Prodotti gratuiti a patto che i cittadini diventino il prodotto stesso» (Bria e Morozov, pag.177).

Quei cittadini trasformati in gregge, preda della colonizzazione subcosciente delle volontà da parte della politica. Infatti, prima di quest’ultima evoluzione delle tecnologie comunicative, i messaggi elettorali alle masse erano necessariamente indifferenziati e quindi genericamente propagandistici. Oggi è possibile raggiungere la sfera subliminale del singolo individuo con input altamente mirati. E con effetti incalcolabili. Quanto dimostrato dallo scandalo Cambridge Analytica, la società britannica di data mining, finanziata da Steve Bannon (il principe delle tenebre dell’internazionale reazionario/sovranista, regista dell’elezione di Donald Trump), che acquistò illegalmente da Facebook i 50milioni di nominativi di elettori americani, utilizzati per sovvertire gli esiti previsti delle presidenziali 2017.

Questo per dire la potenza di fuoco degli attuali strumenti di costruzione del pensiero collettivo (le camere dell’eco, o echo chambers, in cui circolano e si amplificano posizioni e idee monolitiche, dove il dissenso è bandito) che determinano élites incontrollabili, anche a seguito della molecolarizzazione della società.

Ma perché questa destrutturazione atomistica attraverso l’obnubilamento di massa? Presto detto: il modo di produrre basato sulla precarizzazione, la gig-economy dei lavoretti al posto del lavoro, e la messa fuori gioco dei possibili disturbatori della quiete pubblica hanno l’irrinunciabile necessità di smantellare il concetto stesso di solidarietà, su cui si basa la cultura dei diritti, e azzerare ogni orientamento critico; lasciando baluginare l’alternativa-chimera dell’arricchimento personale. L’entrata nel Paese del Bengodi attraverso il mito dell’imprenditorializzazione. E quando i fatti smascherano la mendacità di tale propaganda, scendono in campo nuovi script anestetici; basati sull’individuazione di “untori”, colpevoli del crescente malessere e in pole position per diventare il nemico di ulteriori guerre tra poveri. Nel tracollo dell’aureo principio che valorizza il discorso pubblico bilanciando il potere dei pochi che controllano le risorse di potere con il numero dei senza potere: la democrazia.

Sicché definire «esercizio di catastrofismo parlare di crisi della democrazia» – come scrive Nadia Urbinati prefacendo il Popolo chi? – suona vagamente derisorio.

Una profezia che spera di avverarsi

La ricerca in questione parte da sessanta testimonianze raccolte lungo la penisola (Milano, Firenze, Roma, Cosenza) intervistando un campione collocato nei sottoscala della piramide sociale (i marginali, che in privato Hollande chiamava “gli sdentati” e Renzi “gli sfigati”). Con un dichiarato intento dimostrativo politicamente corretto: «abbiamo identificato un senso comune progressista» (pag. 59). Nel campo accomunato dalla precarietà, che si traduce in sensazione rabbiosa di impotenza ormai sfociata in frustrazione. Le cui reazioni umorali, nella difficoltà di comprendere il meccanismo e i manovratori dell’emarginazione di cui si è vittime, vengono bollate dai benpensanti di Palazzo con il termine allusivo/elusivo di Antipolitica, l’anticamera di quell’irresponsabilità dilagante che si sussume come “populista”. Altra bestia nera dei ricercatori alla ricerca del Popolo Chi?

Poco importa che il sentiment scatenante questa presunta variante del qualunquismo sia la scoperta della cosiddetta “defezione delle élites”, che inseguono la propria autonomizzazione dal resto della società; su cui esiste un’autorevole letteratura che va da Christopher Lasch a Robert Reich e arriva a Thomas Piketty: la crescita esponenziale delle diseguaglianze nel ritorno di plutocrazie senza contrappesi; dopo l’emarginazione del lavoro come soggetto politico e la caduta del muro di Berlino.

Percezione che – tanto per dire – nel 2011 divenne militanza nei “quartieri indignati” in 950 città di 80 Nazioni. Non l’Italia, dove lo spazio dell’indignazione era stato coperto in anticipo dal Grillismo con il suo pionieristico Vaffa a Bologna 2007 (Pellizzetti, pag. 367). E i manifestanti negli accampamenti di mezzo mondo non erano sovversivi, bensì quanti un tempo chiamavamo “ceti medi riflessivi”; seppure in via di proletarizzazione. La scoperta dell’avvenuta migrazione del personale di sinistra nel campo della finanza globalizzata egemone, candidandosi al ruolo di caporalato del consenso sotto gli stendardi di Terza Via.

Transumanza su cui esiste una altrettanto autorevole letteratura, da Colin Crouch a Tony Judt, al nostro Luciano Gallino. Ma la mutazione genetica del personale che occupa quella parte del campo politico che per consuetudine si denomina “sinistra” (magari precedendola con un prudente “centro” più trattino) non sembra rientrare nei radar dei nostri ricercatori. Come dà conferma l’acquiescenza acritica all’uso corrente del termine “populismo” in chiave denigratoria, sinonimo di irresponsabilità, caos e bassi istinti. L’arsenale argomentativo dell’establishment aggrappato all’esistente come migliore dei mondi possibili; di cui fa parte anche la sinistra trasmigrata a Palazzo. Quando si consiglierebbe di prestare ascolto a un saggio precetto di Ada Colau, testè riconfermata alcaldessa di Barcellona; una che nelle periferie degli sfrattati ci lavorava davvero: «bisogna fare la sinistra, senza nominarla» (Russo Spena&Forti pag. 148), dato l’irrecuperabile discredito del soggetto.

Per cui, più di voler dedurre da un coro diventato instabile e mutevole l’esistenza di uno spartito unico, bisognerebbe esplorare le dinamiche che riducono le classi ad aggregati a conformazione variabile, assiemati da umori e stati d’animo in larga misura indotti: risentimenti e confuse percezioni di minacce. La molecolarizzazione destinata a perpetrarsi fino a quando non emergeranno capacità/soggettività politiche in grado di prospettare nuove identità nate dal consenso per sovrapposizione (Rawls, chi era costui?) di pezzi di popolazione portatori di istanze diverse: laboriste, ambientali, di genere, anti-razziste, ecc. Operazione in linea con il pensiero di Pierre Bourdieu: «costruire non delle classi ma degli spazi sociali» (Bourdieu pag. 46) In altre parole, “campi politici” dove accomunare senza omologare. Quanto il pensiero populista rettamente inteso chiama “costruzione del popolo”.

Appunto, un’invenzione politica.

In primo luogo mantenendo la capacità di distinguere per non sbagliare bersaglio. Come suggeriva di recente Guido Caldiron su MicroMega: nel clima di odio montante e di chiusure identitarie che fanno riemergere la violenza razzista, è «confusione analitica» adottare una generica e comune etichetta di “populismo”.

Riferimenti bibliografici

Marc Augé, Futuro, Bollati Boringhieri, Torino 2012
Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma/Bari 2000
Luc Boltanski ed Ève Chiappello, Il nuovo spirito del Capitalismo, Mimesis, Sesto San Giovanni 2014
Pierre Bourdieu, Ragioni pratiche, il Mulino, Bologna 1995
Francesca Bria e Evgeny Morozov, Ripensare la smart city, Codice, Torino 2018
Guido Caldiron, “Non è Populismo, è Fascismo del Terzo Millennio”, MicroMega 2/2019
James S. Fiskin, La nostra voce, Marsilio, Venezia 2003
Martin Ford, Il futuro senza lavoro, il Saggiatore, Milano 2015
Chantal Mouffe, “Non c’è democrazia senza populismo”, MicroMega 5/2017
Pierfranco Pellizzetti, “Autumn of the Second Republic” in Europe’s Crisis (a cura di Manuel Castells), Polity Press, Cambridge 2017
David Pilling, L’illusione della crescita, il Saggiatore, Milano 2019
Giacomo Russo Spena e Steven Forti, Ada Colau: la città in comune, Alegre, Roma 2016
Paolo Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali, Laterza, Roma/Bari 1974
Carlo Tullio-Altan e Roberto Cartocci, Modi di produzione e lotta di classe in Italia, ISEDI; Mondadori, Milano 1979
Roberto Mangabeira Unger, Democrazia ad alta energia, Fazi, Roma 2007

(17 giugno 2019)



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