Prima del gulag, oltre il gulag

Carlo Scognamiglio



Chi ama i grandi capolavori della letteratura russa, non può non sussultare tra le pagine di Il monastero di Zachar Prilepin (Voland, 2017), un romanzo epico, scritto da un giovane autore nato nel 1975, ma sicuramente degno di essere considerato, già da ora, un’opera monumentale.

Molti secoli fa alcuni monaci russi, sul modello degli eremiti del deserto, si ritirarono nelle isole Solovki, nel Baltico, a poche miglia dal polo Nord. In quei luoghi inospitali edificarono un monastero e, progressivamente, un complesso sistema di fortificazione. Per centinaia di anni quei luoghi sono stati abitati da anacoreti e monaci ingegnosi. Persone religiose ma brutali al tempo stesso. Quelle mura, quelle fortificazioni, quei dormitori, furono espropriati dai bolscevichi dopo la Rivoluzione d’Ottobre. I monaci furono in gran parte allontanati, e lì fu organizzata la prima colonia penale sovietica. Vista la peculiarità geografica, essendo materialmente impossibile fuggire dalle Solovki, il rivoluzionario Ejchmanis, figura centrale di questo romanzo storico, concepì l’idea di un vasto luogo di detenzione, capace di riabilitare attraverso il lavoro, ma anche la cultura, i soggetti devianti. Vennero infatti gradualmente introdotti laboratori scientifici, centri di ricerca, teatri, giornali, luoghi di discussione e di preparazione sportiva. Come controcanto, i detenuti – specialmente quelli per reati comuni – erano impiegati nel raggiungimento di obiettivi lavorativi massacranti, in condizioni igienico-sanitarie vergognose, e fatti oggetto di sistematici pestaggi e vessazioni da parte dei sorveglianti.

Il romanzo si costruisce intorno alla vicenda peculiare di un detenuto, Artëm, incarcerato per il reato di parricidio, che si muove in un mondo complesso di ekisti corrotti, controrivoluzionari, scienziati, poeti, religiosi e delinquenti di bassa lega. Gran parte delle figure che si dimenano sulla scena corrispondono a uomini e donne realmente vissuti in quel contesto, su cui l’autore si è ampiamente documentato, ma vi è pure una robusta presenza della finzione letteraria. Il risultato è un racconto potente, assolutamente vivo.

Il protagonista è dunque un giovane colto e robusto, sfacciato ma anche attaccato alla vita, capace di resistere alla violenza dei “comuni” e di reagire alle angherie dei ekisti. Per certi versi è un arrampicatore sociale, e prova un estremo attaccamento al cibo, ai piaceri della carne, al riposo. Non è però privo, né privato, di sensibilità, e riesce a mantenere attivi dentro di sé alcuni sentimenti vitali, come l’amore, l’amicizia l’interesse letterario. L’intera narrazione sembra mostrare, attraverso Artëm e le sue peripezie, l’universo concentrazionario delle Solovki. E qui Prilepin assume una prospettiva di grande interesse. Le violenze, la dimensione brutale e oppressiva del gulag non vengono occultate, e vengono agganciate soprattutto a una pletora di personaggi di medio potere, tendenzialmente prelevati dalle schiere dei detenuti per assumere posizioni di controllo, ma accanto a essa viene riconosciuta, nella sua pretenziosa ma non distruttiva finalità, l’idea di Ejchmanis di modificare la società stessa, rieducare l’uomo, nella velleitaria pretesa di modellarne l’esistenza in un mondo autosufficiente come le Solovki. Prilepin prova dunque a mostrare una complessità, senza voler giustificare nulla, né tuttavia liquidare quell’esperienza in una condanna storica generica.

Siamo negli anni Venti, quando in tutti gli ambiti dell’amministrazione della società sovietica si oscillava, regnavano l’indecisione e la contraddizione, dal settore dell’istruzione a quello economico. E così anche in quello penitenziario. Il monastero è al tempo stesso il racconto di una contraddizione, ma anche di una tragica e ineluttabile ottusità del potere, che scivola nell’abuso ogniqualvolta si distribuisce in un sistema ingovernabile di quadri intermedi: “Artëm aveva sempre saputo, per suggerimento di chissà chi, che ognuno porta in fondo a sé un pezzetto di inferno – a smuovere con l’attizzatoio ne esce un fumo puzzolente” (p. 522).

Alcuni passaggi letterari sono bellissimi, e veramente penetranti, collocati nel cuore della narrazione, così, quasi per caso, con apparente indifferenza: “I sorveglianti giravano spesso disarmati, e per molti lavori la scorta non era proprio prevista. I soldati di scorta erano ingaggiati fra ex ekisti condannati per reati comuni ed erano perlopiù, va detto, autentiche canaglie […] Ma Artëm credeva poco ai racconti, non aveva niente di prezioso con sé, e non aveva alcuna intenzione di scappare. Scappare dove? La vita ti sta sempre davanti, non riuscirai mai a raggiungerla” (p. 37).

Ma Prilepin ci racconta anche la sua idea di Russia. Artëm la rappresenta. In fondo ha ucciso il padre perché l’ha scoperto in camera da letto, nudo, con un’amante. Ma non era stato il tradimento a ferirlo, bensì la nudità. Il russo contemporaneo uccide, analogamente, il proprio passato sovietico, non per aver tradito gli ideali iniziali, però – quasi questo fosse un vizio inevitabile – ma per aver mostrato la propria nudità, i propri errori più gravi. Prilepin capisce bene che questo fallimento non è legato alle violenze, o non solo ad esse, ma all’ambizione del controllo. Nell’ultima parte sottolinea come lo stesso Ejchmanis, da lui pure parzialmente apprezzato, si sia macchiato di stragi tra i detenuti in rivolta. Eppure Prilepin ammonisce da questo errore di lettura. Il diabolico non è nel reprimere brutalmente le ribellioni, che è riprovevole, ma non è il lato più aberrante della questione: “Il vero controllo è quando a nessuno salta in mente di ribellarsi, anche se basterebbero pochi minuti a strangolare tutti i cekisti” (p. 790). Il potere peggiore è quello che non si vede.

(5 febbraio 2018)



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