Pro e contro un governo M5s-Pd. Le opinioni di Sorgi, Montanari/Pallante, Cofferati, Urbinati e Galli

Marcello Sorgi

Pubblichiamo i primi interventi (Marcello Sorgi, Tomaso Montanari/Francesco Pallante, Sergio Cofferati, Nadia Urbinati, Carlo Galli) sull’editoriale di Paolo Flores d’Arcais “” che suggeriva ai dirigenti del M5S di proporre un governo sui propri elementi di programma essenziali, ma presieduto da una personalità come Zagrebelsky o Montanari e con ministri al di fuori dei partiti. Altri interventi e la replica di Flores d’Arcais seguiranno.

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I MALINTESI SUL POPULISMO CHE OSTACOLANO L’ACCORDO

Le premesse, va detto, non sono affatto buone. “Ebetino, scrofa ferita, minorato mentale, pollo che si crede un’aquila”, così Grillo s’è rivolto a Renzi e al Pd, definito “Pd-meno-L”, per assimilarlo al partito di Berlusconi. Ricambiato, certo, ma fino a un certo punto. La palma per la sfida più avventata va a Piero Fassino, che nel 2009 intimò a Grillo di fondare un partito “e vediamo quanti voti prende!”, e nel 2016 fu battuto da Chiara Appendino, eletta al suo posto a sindaca di Torino. L’oscar per gli insulti più grevi è senz’altro di Vincenzo De Luca, governatore della Campania, dove oggi i 5 stelle sono al 52 per cento: “Di Maio. Uno sfaccendato. Di Battista? Un gallo cedrone. Fico? Un moscio. Sono tre mezze pippe”. E “Raggi è una bambolina imbambolata”, battuta che sollevò le ire delle donne democratiche. Un linguaggio di odio, per la verità condiviso, che secondo Matteo Renzi, ormai ex-segretario, ma anche per Maurizio Martina, reggente di questa fase di transizione, non consente in alcun modo di immaginare un governo 5 stelle-Pd.

Ma nel partito, anche dopo la direzione di lunedì 12 marzo, c’è chi dice, come il governatore della Puglia Michele Emiliano, che l’alleanza tra il grande vincitore e il grande sconfitto di questa tornata sia inevitabile. E chi sostiene, come il ministro di giustizia Andrea Orlando, che di fronte a un appello alla responsabilità del Presidente Mattarella, il Pd non potrebbe restare insensibile, all’opposizione. Ancora, c’è chi ricorda che con Berlusconi c’erano stati vent’anni di scontri, prima del patto del Nazareno. Ma sul web l’hashtag degli iscritti Pd “#senza di me” minaccia una nuova emorragia di voti in caso di alleanza, e in poche ore è diventato virale.

Forse, però, sono proprio questa fretta e questa voglia di semplificazione – sia di chi vorrebbe allearsi, sia di chi non ne vuol sapere –, a rendere impossibile, al momento, l’incontro tra i riformisti del centrosinistra e i populisti che hanno trionfato nelle urne del 4 marzo. Lo schema dell’incontro necessitato dal confronto sulle riforme istituzionali poteva funzionare per il Nazareno, anche se poi, al primo tentativo di allargare l’intesa, il patto andò in frantumi, tra l’altro su una materia delicata come il Quirinale. Né giocano a favore i tentativi fatti nella scorsa legislatura di costruire intese per le riforme, ultima la legge elettorale, progettata come argine alla vittoria dei grillini e incapace di reggere all’ondata.

In un passato neppure tanto lontano, il Pd avrebbe aperto una discussione, sulla propria sconfitta e sui vincitori. Ma oggi questi confronti son diventati difficili, in un partito che ha perso l’abitudine al dibattito ed è tutto votato alla comunicazione. La riflessione dovrebbe partire necessariamente dal populismo in Italia, spesso superficialmente archiviato come propaggine degli analoghi movimenti antagonisti cresciuti in tutta Europa. Occorrerebbe riconoscere, in altre parole, che se 5 stelle e Lega hanno vinto queste elezioni grazie al populismo – inteso come capacità di convincere gli elettori con promesse popolari ma irrealizzabili -, non sono stati i primi, né i soli, ad avvalersene, anche se hanno saputo approfittarne meglio di altri.

Bisognerebbe insomma avere il coraggio di dire che il populismo è stato una componente storica della politica italiana, nelle diverse stagioni della Repubblica. Populista, ad esempio, è stato il Pci, con la vocazione rivoluzionaria mantenuta fin quasi alla fine della sua storia, con la promessa della “via italiana al socialismo” e il rifiuto della socialdemocrazia, con le riserve sul riformismo e il mai chiarito “impianto riformatore”, con l’idea del “pubblico” come premessa dell’eguaglianza, a dispetto del “privato” pregiudizialmente considerato causa di ingiustizie sociali, con il suo modo, infine, di articolare l’opposizione, alternando fasi di dura contrapposizione a momenti di chiara contrattazione con i governi o parte dei governi, e in particolare con la Dc. Tutto ciò, ovviamente, senza nulla togliere ai meriti dei comunisti e senza sottovalutare il contributo dato in tanti passaggi della vicenda italiana, dalla nascita della Costituzione alla lotta al terrorismo.

Populista, e non solo popolare, è stata la Democrazia cristiana, pur costretta dalla lunga presenza nei governi (per più di trent’anni con un ruolo di guida) a tenere in un conto diverso il rapporto tra programmi, propaganda elettorale e responsabilità imposte dall’amministrazione. E populista fu il mantenimento dell’apparato assistenziale (e in buona parte clientelare), anche dopo che era diventato evidente che i costi di quel sistema, drasticamente ridotto in epoca successiva, erano incompatibili con la crescita del debito pubblico e l’ambizione a restare in Europa da Paese fondatore dell’Unione. Specie dopo i governi di solidarietà nazionale (1976-‘79), condivisi con il Pci e fondati sull’austerità per frenare il dissesto dei conti pubblici, una stagione che precedette di più di un decennio quella di Maastricht e dell’inizio dell’amministrazione controllata da parte della Commissione Europea. Ovviamente le responsabilità per l’eccesso di welfare degli Anni Settanta e Ottanta andrebbero ovviamente ripartite con gli alleati della Dc nel centrosinistra e nel pentapartito: socialisti, repubblicani, socialdemocratici e liberali, populisti anche loro, a dispetto talvolta delle loro idee, e delle riserve espresse a parole contro la politica populista dei governi di cui facevano parte.

A modo suo, fu populista anche Sandro Pertini, il Presidente della Repubblica più amato dagli italiani, sempre o quasi sempre schierato con i cittadini e mai o quasi mai con le istituzioni, di cui tuttavia rappresentava il vertice più alto. Senza oscurare, pure in questo caso, il merito di aver ridato credibilità al Quirinale, dopo le dimissioni di Giovanni Leone per lo scandalo Lockheed e prima che si scoprisse che non ne aveva alcuna responsabilità.

Questo per la Prima Repubblica. Ma anche nella Seconda, che dire di Berlusconi? Da comunicatore, da proprietario del maggiore impero mediatico privato, da imprenditore/creatore di un vero mercato pubblicitario, l’ex-Cavaliere è stato l’inventore di un nuovo tipo di populismo, basato sulla reiterazione di promesse impossibili e sulla parziale realizzazione delle stesse, a discapito dell’interesse
generale. Basti pensare allo slogan “meno tasse per tutti”, alla cancellazione dell’Imu – reintrodotta da Monti e riabolita da Renzi, all’inizio grande imitatore di Berlusconi -, o alla limatura, all’epoca del suo secondo governo ((2001-2006), dell’Irpef nelle fasce più alte, senza il taglio della spesa pubblica, quello sì chiaramente impopolare e per questo rinviato sine die.

Neppure Renzi, dunque, è rimasto immune dal virus. E si potrebbe continuare fino adesso, ai giorni in cui la strada della nascita di un nuovo governo è ostruita dall’incubo del populismo. Questa semplice operazione-verità, tuttavia, non dovrebbe essere utilizzata per cancellare o a nascondere le colpe dei 5 stelle e Lega. Semmai, al contrario, per riavviare il discorso sul governo su basi più concrete: evitando di provocare oggi, con scelte dissennate, guai che domani toccherà comunque affrontare a chi verrà dopo Di Maio, Salvini e i miraggi della flat tax e del reddito di cittadinanza.

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LA MOSSA DEL CAVALLO E LE REGOLE DELLA DEMOCRAZIA

e Francesco Pallante

La mossa del cavallo proposta da Paolo Flores d’Arcais a Luigi Di Maio potrebbe riuscire non solo a risolvere nel modo più avanzato lo stallo post-elettorale, ma darebbe anche corpo ai più profondi desideri del popolo della sinistra, oggi ridotto a «volgo disperso che nome non ha»: un governo composto e guidato da personalità esterne ai partiti, capace di attuare un programma di svolta nella direzione di una piena attuazione del progetto della Costituzione.

Un simile governo, argomenta Flores, non potrebbe che essere sostenuto da Movimento 5 Stelle, Partito Democratico e Liberi e Uguali.

Ora, è perfettamente legittimo che il Pd decida di rigettare questa proposta, ma è davvero impossibile condividere le considerazioni di ordine politico, e addirittura morale, che vengono in queste ore avanzate per giustificare un simile diniego.

Per bocca di molti suoi autorevoli dirigenti, il Pd ha affermato che sostenere un governo insieme ai 5 Stelle significherebbe tradire il mandato degli elettori, i quali – si dice – avrebbero voluto collocare il Pd all’opposizione. Per rispettare questo mandato, dunque, il Pd sarebbe disposto ad accettare l’eventualità di un governo del centrodestra a guida Salvini, o quella di una lunga assenza di un governo. «Siamo incompatibili con i 5 stelle», ha detto Andrea Orlando. «Non c’è bisogno di dire che siamo all’opposizione. C’è bisogno di dire che ci siamo presentati con una proposta alternativa ai Cinque Stelle e che, pertanto, non possiamo farci un governo», ha aggiunto Carlo Calenda.

Alla base di queste dichiarazioni non c’è solo l’intollerabile ipocrisia di chi – in regime maggioritario – ha governato con i voti di Verdini e formato governi con i vari Lupi e Alfano. C’è, più profondamente, una sostanziale incomprensione della legge elettorale voluta dallo stesso Partito Democratico, oltre che una radicale ignoranza dei meccanismi elementari del funzionamento di una repubblica parlamentare.

Il Rosatellum è una legge elettorale irrazionalmente complicata e, con ogni probabilità, incostituzionale. Ma questo non perché impedisca la creazione di una stabile maggioranza parlamentare, bensì, soprattutto, per i meccanismi di manipolazione dei voti espressi dagli elettori (liste incapienti, liste deficitarie/eccedentarie, divieto di voto disgiunto, pluricandidature) che fanno dubitare dell’uguaglianza, della libertà e persino della personalità del voto in spregio all’articolo 48 della Costituzione.

Invece, in queste ore si sta facendo strada nei commenti giornalistici e nell’opinione pubblica la convinzione che le urne abbiano restituito un Parlamento ingovernabile proprio a causa del Rosatellum. Una legge – è stato detto – fatta apposta affinché nessuno potesse vincere.

Dal voto emerge che nessun partito si avvicina, nemmeno lontanamente, alla soglia della maggioranza assoluta. Al meglio posizionato – il M5S – mancano 18 punti percentuali e anche ricomponendo il quadro politico per coalizioni la distanza dalla metà più uno dei consensi rimane abissale (la compagine di centrodestra, la più votata, avrebbe comunque bisogno di un ulteriore 13% dei consensi). La realtà è quella di un sistema politico che, fallito il tentativo di Liberi e Uguali, permane articolato su tre poli, sia pure di consistenza differente: il centrodestra (che pesa intorno al 37% dell’elettorato), il centrosinistra (pari a poco meno del 20% degli aventi diritto) e il M5S (che raccoglie il 32% dei voti). Tale realtà sostanzialmente si rispecchia nella distribuzione dei seggi parlamentari. Alla Camera: il centrodestra può contare su 260 deputati (pari al 41,2% del totale), il M5S su 221 (il 35,1%), il Pd su 112 (il 17,7%). Al Senato: 135 senatori vanno al centrodestra (il 42,8% del complesso), 112 al M5S (il 35,5%), 57 al Pd (18,1%).

In effetti, il Rosatellum ha funzionato come una legge essenzialmente proporzionale, producendo un Parlamento che rispecchia da vicino l’articolazione e la consistenza delle posizioni politiche presenti nel corpo elettorale.

Dati questi numeri, che cosa allora realmente significa accusare la legge vigente di essere stata congegnata per non far vincere nessuno? Evidentemente, auspicare una legge elettorale che permetta di determinare comunque un vincitore, nonostante l’articolazione tripolare del quadro politico. Vale a dire, non una legge “semplicemente” maggioritaria, ma una legge in ogni caso majority assuring. Una legge, cioè, strutturata in modo analogo a come lo era … l’Italicum!

Come si può leggere qui (e pur con tutte le cautele del caso), l’Istituto Cattaneo ha ipotizzato che con i risultati delle ultime elezioni nessuna forza politica avrebbe comunque conseguito la maggioranza assoluta né se si fosse votato con il Porcellum, né se si fosse votato con Consultellum. YouTrend ha esteso la simulazione al Mattarellum e alle leggi elettorali inglese, francese, tedesca, spagnola e greca: in tutti i casi, nessuna forza politica o coalizione sarebbe uscita dalle elezioni con una pattuglia di parlamentari idonea a sostenere il governo autonomamente. Da sottolineare il caso della legge francese, anch’essa improduttiva di una maggioranza assoluta posto che, accedendo al ballottaggio i partiti forti almeno del 12,5% al primo turno, in moltissimi collegi la sfida sarebbe comunque stata a tre e non a due. Niente governo «la sera stessa delle elezioni», dunque, né col proporzionale, né col premio di maggioranza, né col maggioritario a turno unico, né col maggioritario a doppio turno.

Torna, allora, la domanda poco sopra formulata: cosa significa addossare al Rosatellum la responsabilità dell’attuale situazione di ingovernabilità? Significa – nessun’altra risposta è possibile – invocare l’Italicum, la sola legge elettorale che, in virtù di un turno di ballottaggio nazionale, anziché di collegio, e ristretto ai due soli partiti più votati, avrebb
e certamente assegnato più della metà del Parlamento al partito prescelto dall’elettorato nella seconda votazione.

Non è qui necessario tornare sulle ragioni di incostituzionalità di tale legge (basti ricordare che sono state dalla Consulta tra l’altro motivate proprio con riferimento alle modalità del ballottaggio, eccessivamente distorsive della volontà popolare). A rilevare, in questa sede, è il profilo politico della questione, il riflesso condizionato che oramai induce anche molti di coloro che si sono opposti alle riforme renziane a vedere nella «governabilità» il valore assoluto al quale affidarsi nei momenti di difficoltà.

La mentalità maggioritaria si è radicata in profondità nel tessuto sociale, penetrando anche nello strato della popolazione che dovrebbe avere maggiore consapevolezza dei meccanismi istituzionali. Possibile sia tanto difficile cogliere che, a fronte di una società politicamente (e non solo) divisa come la nostra, l’urgenza è quella di ricomporre la frammentazione e non di attribuire, pro tempore, a uno dei frammenti il potere di spadroneggiare sugli altri? Nelle situazioni come quella in cui ci troviamo, il compromesso politico trasparente e argomentato non è soltanto una necessità, è un valore, perché veicola l’idea che gli «altri» non siano necessariamente nemici da combattere, ma (almeno alcuni) possano essere avversari da sfidare alla ricerca di punti di convergenza. L’accordo politico, in quest’ottica, è una dimostrazione di forza, non di debolezza. Solo chi è certo della propria identità, delle proprie idee, della propria visione del mondo può avere la sicurezza di sé necessaria a mettersi in discussione e di eventualmente accettare la realizzazione per il momento solo parziale dei propri ideali (altro è l’«inciucio», vale a dire l’accordo esclusivamente rivolto alla spartizione del potere).

Viene da sorridere a leggere che Pd e M5S non potrebbero allearsi perché i rispettivi elettorati «si stanno antipatici»… Ma è del Parlamento o di un asilo nido che stiamo parlando? Al momento del bisogno, il Pci di Berlinguer si astenne per far nascere un governo guidato da Andreotti, che, secondo la Corte di Cassazione, era (non antipatico, ma) un soggetto in rapporti organici con la mafia! Non è certo un caso che la massima capacità di incidere sull’assetto socio-economico dell’Italia si sia avuta quando massima fu la forza parlamentare dei partiti. Altro che governabilità! Dalla riforma della scuola media (1962) all’introduzione del Sistema sanitario nazionale (1978), passando per la nazionalizzazione dell’energia elettrica (1962), la previdenza sociale (1969), l’abolizione delle gabbie salariali (1969), i diritti dei lavoratori (1970), il divorzio (1970), la legislazione sul referendum (1970), le Regioni (1970), la progressività fiscale (1974), il diritto di famiglia (1975), la legge urbanistica (1977), l’aborto (1978), la chiusura dei manicomi (1978): tutte queste riforme furono realizzate quando massima fu la capacità di realmente rappresentare in Parlamento le molteplici articolazioni dell’elettorato.

Oggi l’Italia è divisa come, e forse più (date le crescenti diseguaglianze), di allora. A fronte di una sistema politico separato in tre orientamenti principali oscillanti tra il 20 e il 35% delle preferenze, qualsiasi meccanismo elettorale che trasformi artificialmente una minoranza in maggioranza finisce solo col costruire giganti con i piedi d’argilla – forti in Parlamento, deboli nella società –, privi della capacità di costruire consenso popolare intorno alle decisioni imposte dentro il Palazzo. Quel che occorre, al contrario, è riscoprire la valenza profonda della funzione parlamentare, che è quella di far dialogare i diversi, non di metterne uno in condizione di prevalere a qualsiasi costo sugli altri.

E qui si tocca un punto cruciale per la tenuta stessa della nostra democrazia. L’articolo 67 della Costituzione stabilisce che «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». I vertici del Movimento 5 Stelle, sbagliando, vorrebbero sopprimere o limitare decisivamente questo articolo, sperando di fermare così la piaga del trasformismo parlamentare e di tagliare le unghie al dissenso interno. Ma per disincentivare decisivamente il trasformismo si possono usare altri mezzi assai efficaci (per esempio la riforma dei regolamenti parlamentari, come peraltro si è appena fatto al Senato), senza toccare questa fondamentale difesa del dissenso come forza vitale della democrazia. Ma il fascino del vincolo di mandato è oggi fortissimo: e proprio a causa della suggestione del modello maggioritario, che semplifica per via irriducibilmente oppositiva la dinamica parlamentare. In una sostanziale negazione della democrazia indiretta mediata dalla rappresentanza si pretende che l’elettore vincoli non solo il singolo parlamentare, ma tutto il gruppo e il partito, rendendo di fatto inutile l’esistenza stessa del parlamento (basterebbe far votare i capigruppo) e rendendo impossibile (in un sistema proporzionale) la creazione di un governo.

Ora, non sarà sfuggito che ad agire, di fatto, come se nessun vincolo ci fosse, e dunque a interpretare nel modo più maturo e virtuoso le dinamiche della democrazia indiretta e del libero gioco del Parlamento è oggi proprio il Movimento 5 Stelle con Luigi Di Maio. Mentre sono Matteo Renzi, la dirigenza Pd e una larga parte dei commentatori politici (per esempio su “Repubblica”) a pensare e ad esprimersi come se il vincolo di mandato ci fosse eccome, e dunque come se fossimo in una democrazia (più) diretta, negando ogni margine, e dunque ogni senso, alla dinamica del Parlamento.

Questo ribaltamento di ruoli è assai eloquente. Certo a causa della sua posizione di vantaggio, ma oggi è un fatto che il Movimento 5 Stelle sta dimostrando di saper giocare con senso di responsabilità istituzionale sulla scacchiera di un sistema parlamentare e proporzionale.

Si tratta ora di andare fino in fondo: fino ad accettare di compiere la mossa del cavallo proposta da Paolo Flores. A quel punto sarebbe il Pd a dover dimostrare che l’uscita di scena del plebiscitarismo renziano può segnare il ritorno alla pratica delle virtù politiche e alla piena accettazione del funzionamento di una democrazia parlamentare senza vincolo di mandato.

La mossa del cavallo sarà fatta? E la contromossa sarà adeguata?

Con il fascioleghismo che incombe e con il Paese devastato da povertà e diseguaglianze la posta di questo gioco è altissima: è il futuro della nostra stessa democrazia.

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UNA PROPOSTA CONDIVISIBILE MA DIFFICILMENTE ATTUABILE



Caro Paolo,
Ho letto il testo che mi hai inviato. La tua analisi del voto e della sua conseguenza è del tutto condivisibile. La proposta che fai per la formazione di un nuovo governo è interessante e originale. Necessita però di due presupposti: il buonsenso e la generosità. Purtroppo, come sai, questi non sono mai stati presenti nella politica italiana e, di conseguenza, rendono difficilmente attuabile la tua proposta.
Spero di essere smentito da qualche novità al momento non visibile.

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L’AVENTINO SUICIDA DEL
PD E LE RESPONSABILITÀ POLITICHE DELLA SCONFITTA

Non so quanto le nostre opinioni siano rilevanti per i politici dai quali dipende il nostro futuro politico prossimo (di qui alle prossime elezioni). Forse questo nostro mestare nell’opinione pubblica è per loro un rumore fastidioso, il ronzio di una zanzara da scacciare. Il mio ronzio non vuole essere né una rampogna né una prece. Il PD faccia quel che crede. Vorrei invece provare a ragionare con prudenza, mettendomi nei panni di quei politici ai quali mi rivolgo, e vedere se è nel loro interesse tenere questa rigida auto-esclusione.

Il PD ha varie anime e due correnti quantificate. La sconfitta le ha tutte messe in azione, anche se si sforzano di dare al pubblico un’immagine unitaria. E le dimissioni annunciate e consumate a singhiozzo di Matteo Renzi hanno provocato addirittura un’unità nella solidarietà con lo sconfitto, il quale, dal canto suo, si guarda bene dal mantenere un profilo basso e umile e tiene in ricatto tutto il partito col mostrarsi pronto a mobilitare le truppe per un futuro soggetto politico. Il macinio messo sul piatto della bilancia è proprio l’atteggiamento da tenere con il Movimento 5 Stelle — con il Movimento, cioè, che ha più pescato dall’elettorato del PD. La vicinanza, si sa, rende i contendenti nemici estremi. E l’inimicizia estrema si manifesta in questo caso con l’irrigidimento delle posizioni PD – mostrando i muscoli a quegli elettori che hanno cercato altrove (nel M5S) una radicalità che il PD non aveva né ha mai voluto avere. Estremisti ha denominato tutti coloro che si distanziavano dalla sua centro. E oggi è proprio il PD a sfoderare estremismo – non nei contenuti, ché quello sarebbe insostenibile alla dirigenza attuale, ma nell’atteggiamento o, come si dice, nella strategia. Sembra che i dirigenti passati e attuali del PD pensino che solo tenendo questo radicalismo potranno recuperare consensi – perché è evidente che in questa condizione le elezioni anticipate non si faranno attendere.

E’ probabilmente questo il calcolo della dirigenza PD, la sua strategia di intransigente aventinianismo. Chi ha familiarità con il governo parlamentare sa tuttavia che questa roboante intransigenza non corrisponde completamente alla realtà, poiché non è solo il governo che deve essere varato, e non è solo la presidenza delle due Camere che deve essere eletta ma anche le vice-presidenze e le commissioni. Dell’opposizione vi è comunque bisogno anche per andare a nuove elezioni subito! E anche se questa opposizione fa aria d’essere sdegnosa. Non è dunque proprio vero che resteranno sull’Avventino, poiché un qualche accordo lo devono fare. E allora, sarebbe preferibile uscire da questa non completamente sincera intransigenza e prendersi le responsabilità politiche della sconfitta.

Per chi sta al gioco democratico, perdere non consente di tirarsi fuori dal gioco. Si perde e si sta al gioco; si perde, e intanto si contribuisce a far funzionare le istituzioni. In questo consistono “le regole del gioco” democratico. Non solo nelle elezioni che si possono vincere e perdere, ma anche nel far funzionare le istituzioni nelle condizioni aperte dalle elezioni. Anche perché il PD ha una diretta e piena responsabilità nell’aver determinato la condizione di stallo nelle quali ci troviamo, poiché loro per primi hanno operato per avere questa legge elettorale, congeniata per bloccare il Movimento 5 Stelle, e nella speranza di dar vita ad un’alleanza (nobilitata come “Grande Coalizione”) con l’amico di Arcore. Ecco dunque la conclusione alla quale mi avvio: se davvero la dirigenza del PD pensa al modo migliore per recuperare consenso, questa non è la strada migliore e più prudente. E’ anzi un vero e proprio calcolo per il suicidio – poiché le elezioni anticipate indurranno molti elettori a trarre le dovute conseguenze: votare in masse per quel Movimento che viene ora trattato come un appestato, al cui tavolo i nobili democratici rifiutano di sedere. È come se dicessero, con questo loro diniego, che gli elettori che hanno scelto i grillini sono italiani inferiori, non meritevoli neppure di essere presi in considerazione. Non si parla con chi non sa coniugare il congiuntivo. Questo è un atteggiamento inutilmente yuppie. Il passaporto per future sconfitte.

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M5S-PD, UN GOVERNO FUORI DALLE POSSIBILITÀ LOGICHE

Il risultato elettorale segna un ritorno della politica – non una vittoria dell’antipolitica –. Gli italiani hanno espresso un’esigenza tipicamente politica, di protezione e di fiducia, contro i meccanismi (pretesi automatici e “tecnici”, in realtà politici anch’essi, ma oligarchici) della moneta unica e dell’impianto ordoliberista che le è sotteso. Hanno detto che il “pilota automatico”, e i suoi aiutanti del Pd, ha fatto un disastro sociale e antropologico, e vogliono un diverso pilota umano, politico e non tecnico né asservito ai tecnici e agli oligarchi. E ciò, nonostante la crescita del Pil, che evidentemente non basta a soddisfare le esigenze di sicurezza del Paese. Sia perché è una crescita scarsa, malissimo distribuita, sia perché il quadro in cui essa avviene resta caratterizzato dalla disuguaglianza, dalla precarietà e dalla subalternità del lavoro, dall’incertezza delle prospettive di vita, dal degrado della società e dal malfunzionamento della sfera pubblica.

Le proteste (una ribellione, non ancora una rivoluzione) sono state di due segni diversi. Da una parte il M5S ha stravinto nella fragile società del Sud, che chiede tutela diffusa – il reddito di cittadinanza –; dall’altra la Lega ha stravinto nel Nord, che in una società più forte vuole protezione dalla inefficienza pubblica e dal degrado urbano. Con categorie tradizionali, la prima è più vicina a qualche umore di sinistra, la seconda è più connotata a destra. Ma quello che conta è che questo nuovo bipolarismo, pur imprecisamente designato, si afferma sulle rovine del Pd, il partito dello status quo, insieme a Forza Italia – non a caso entrambi sconfitti –.

Questa protesta duplice è primariamente rivolta contro i ceti politici che hanno governato fin qui; e anche se molti elettori la estendono al sistema politico-economico in generale, potrebbe essere compatibile con l’assetto economico vigente. In fondo le richieste dei pentastellati (soprattutto il reddito di cittadinanza) non eccedono l’orizzonte neoliberista, e quelle dei leghisti possono, in parte, essere contenute, almeno provvisoriamente, all’interno di un impianto ordoliberista (anche se qui l’euroscetticismo è più forte). Ma perché questo contenimento possa avvenire, il sistema economico dovrebbe fornire una performance rassicurante. E perfino in questo caso i guasti del passato, profondissimi, non cesseranno per molto tempo di produrre effetti sul modo, negativo, con cui milioni di italiani guardano il presente e il futuro, anche se si registrassero (improbabili) miglioramenti. La fiducia si è davvero spezzata. Si può dire che quel sistema non è più in grado di generare consenso, benessere (pur relativo) e coesione sociale. Gli italiani si sono “incattiviti” per qualche preciso motivo, non per sadismo o per innata xenofobia.

Da questo cataclisma politico è r
isultato un sistema politico a due poli e mezzo. Nessuno dei due poli può governare da solo, e ciascuno di essi fa offerte al terzo mezzo polo, il Pd. Ma le due possibili combinazioni si moltiplicano in molte fattispecie concrete: una cosa, infatti, è governare insieme, altra cosa è dare un appoggio esterno con astensione programmata su singole questioni, oltre che sulla fiducia iniziale. Naturalmente, esistono sulla carta altre opzioni: dal governo di tutti (di unità nazionale) al governo di nessuno (tecnico o del presidente). Si tratterebbe di governi non politici ma di scopo, a tempo: fino alla legge di stabilità del 2019, o fino alla nomina dei vertici dei Servizi.

Detto questo, l’esigenza di formare un governo, già a partire dal Def, si scontra con alcune incompatibilità logiche: come possono governare insieme, o in ogni caso legittimarsi e sostenersi a vicenda, partiti come M5S e Pd, fino a ieri (giustamente) feroci avversari? Forse in nome della comune opposizione alla destra? Ma quello fra destra e sinistra non era un cleavage obsoleto, almeno nel discorso pubblico dei M5S? E poi: in questa ipotesi il Pd dovrebbe essere davvero de-renzizzato, dato che Renzi si rifiuta di governare con gli uni e con gli altri; ma almeno il 60% degli eletti è composto di fedelissimi che, anche in un mondo di labili fedeltà come quello della politica, dovrebbero avere un vero tornaconto per lasciare il segretario dimissionario e imbarcarsi in un’avventura governativa (sia pure di appoggio esterno) con il M5S.

E quale tornaconto, a fronte dello svantaggio strategico di risultare un’appendice di un governo egemonizzato da altri, destinato a colpire interessi che finora hanno trovato casa nel Pd, anche se quel governo fosse guidato da una grande personalità neutrale (da individuare fra le “riserve della repubblica”, posto che ce ne siano ancora di spendibili)? Per puro senso dello Stato o del Bene comune? O per posti di governo nell’immediato (ma è probabile?) scambiati contro la certa delegittimazione presso una grossa fetta di quel che resta del proprio elettorato? Una qualunque collaborazione sarebbe un placebo per rallentare una malattia mortale – la scomparsa politica del Pd, la sua irrilevanza, il suo collasso – che al contrario la aggraverebbe e ne precipiterebbe l’esito. E se qualcuno, dentro il Pd, ancora pensa di rivitalizzarlo e di renderlo politicamente appetibile, non potrà certo credere che la via verso la guarigione sia di mescolarsi, in qualsivoglia modo, con un partito, il M5S, che appartiene a un altro mondo, anche se è pieno di ex votanti Pd – i quali, come si sa, non torneranno indietro, neppure verso un Pd de-renzizzato –.

Lo stesso si dica al rovescio, del M5S: alimentato da anni dall’odio anti-Pd, come potrebbe allearsi a questo, o chiederne l’appoggio su punti qualificanti di un programma, anche se questo fosse di fatto anti-sistema (non solo a livello simbolico e politico) come quello prefigurato da Flores? La forza della moral suasion del Capo dello Stato dovrebbe essere davvero smisurata, e infinita l’abnegazione di tutti, per dar vita a un governo siffatto. Quanto a un incontro su un programma di mera conservazione dell’esistente, sarebbe un tradimento della volontà dell’elettorato che porterebbe fiumi d’acqua al mulino di un’opposizione scatenata come quella che metterebbe in atto la destra. Davvero Pd e M5S vogliono regalare all’opposizione, alla Lega soprattutto, questa ghiottissima occasione di incrementare a dismisura il proprio consenso, di pescare a piene mani nello scontento sociale, nella protesta anti-sistema? Pensano davvero, entrambi, di incrociare e di gestire un ciclo positivo e legittimante di benessere e di crescita?

Non si tratta di preferenze personali. Oggettivamente un governo sinistra (sconfittissima) + Pd (sconfittissimo) + M5S mi sembra fuori dalle possibilità logiche. E, inoltre, offensivo della volontà popolare, che non ha saputo dire in positivo che cosa vuole, ma che ha ben detto che cosa non vuole. Se poi calcoli e furbizie, o improbabili slanci patriottici, di gruppi dirigenti porteranno a tentativi in questa direzione, saranno tentativi poco proficui e molto autolesionistici.

E allora? Il rispetto della volontà popolare vuole che questa, se non produce un effetto, torni a esprimersi – i risultati, in un diverso contesto, saranno sicuramente diversi, anche a legge elettorale invariata –. Ma si tenga presente che in linea teorica esiste anche la possibilità di un governo Lega + M5S, che non è più difficile da concepire (se si fa leva sull’asse sistema/antisistema piuttosto che su quello destra/sinistra) di quello di cui si è parlato finora. In alternativa, si può pensare a un governo di scopo con tutti dentro, o con tutti fuori, per una nuova legge elettorale, che aiuti il popolo a rendere più efficace la propria volontà di cambiamento e più nitide le direzioni di questo (ma sarà un bel problema trovare un accordo su questo punto).

Se invece saranno pressioni internazionali irresistibili a obbligarci, come nel 2011, a una governabilità qualsiasi, saremmo di fronte a una riedizione dell’esperienza “Monti”. E ciò vorrebbe dire che l’interesse nazionale, interpretato dai poteri forti, dalle oligarchie, diverge dalla volontà popolare, anche se incompleta; che quindi le elezioni sono un lusso che non fa più per noi; e che, quali che ne siano i risultati, l’esito deve essere sempre l’eterno ritorno dell’identico. There is no alternative, quindi, con l’ennesimo scacco della politica democratica e con l’ennesimo trionfo del potere dei pochi.

(14 marzo 2018)





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