Puntare tutto sul Recovery Fund può essere fatale per l’Italia
Enrico Grazzini
Per una volta Federico Fubini, il vice-direttore ad personam del Corriere della Sera che è contemporaneamente un esperto di finanza e un europeista convinto, ha ragione. L’Unione Europea, nonostante le fanfare europeiste, nonostante i proclami superottimistici del ministro dell’economia Roberto Gualtieri, è ancora una volta bloccata. E purtroppo non è assolutamente detto che il Recovery Fund Europeo da 750 miliardi di euro, altrimenti chiamato Next Generation EU, alla fine sarà realmente realizzato. Gli incidenti di percorso possono essere molti, alcuni già visibili, altri imprevedibili. Il futuro dell’Italia è appeso al filo del Recovery Fund, RF, e ai 209 miliardi che il nostro Paese potrebbe cominciare (forse) a spendere nella seconda metà del prossimo anno per rilanciare un’economia moribonda e una società spossata dalla crisi causata dal Covid-19. Tuttavia, Fubini spiega che potrebbero capitare delle brutte sorprese. Il governo Conte aspetta gli “aiuti” dell’Unione Europea come una manna dal cielo ma non è certo che la manna cadrà davvero. È per questo validissimo motivo che il governo dovrebbe cominciare a svegliarsi per trovare e creare anche autonomamente i soldi indispensabili per combattere la crisi.
Attualmente l’opposizione al Recovery Fund da 750 miliardi viene, come noto, da Polonia e Ungheria, i Paesi amici del sovranista Matteo Salvini, capo supremo della Lega: i due Paesi dell’est Europa bloccano un processo di finanziamento della UE che, forse per la prima volta da quando è nato l’euro, è favorevole al nostro interesse nazionale. Viktor Orban e il governo polacco contestano l’intesa raggiunta tra Consiglio e Parlamento Ue sul nuovo meccanismo del RF che legherà l’erogazione dei fondi Ue al rispetto dello Stato di diritto, che invece i due stati dell’est non vogliono osservare. Ma i veri problemi non vengono dai due Paesi ultranazionalisti. Avverte Fubini: “I gruppi tedeschi (come Audi, Opel, Daimler, Bmw, Bosch e Siemens) possono ottenere da Orbán ciò che vogliono, perché l’economia ungherese sono loro”. I governi ungheresi e polacchi sono dipendenti dall’economia tedesca e non potranno opporsi a lungo. Fanno però parte di un gioco più grande di loro.
Per Fubini invece gli ostacoli più duri verranno dai Paesi del nord Europa: “I rischi per il Next Generation Eu risiedono più altrove: nelle ratifiche dell’accordo che dovranno passare anche dai Parlamenti di Danimarca, Finlandia, Olanda e Svezia, i cosiddetti «frugali» che dall’inizio si sono opposti al progetto. In Olanda il 17 marzo prossimo ci sono le elezioni politiche, dunque la ratifica slitta (almeno) ad aprile. Danimarca e Svezia sono rette da governi di minoranza che non controllano parlamenti molto sospettosi verso il Recovery Fund. In Finlandia non è molto diverso”.
Nonostante le intese faticosamente siglate qualche mese fa tra i 27 Paesi europei, Fubini avverte che i Parlamenti e i governi di Danimarca, Finlandia, Olanda e Svezia possono ancora respingere gli accordi raggiunti – per i quali l’Italia potrebbe godere di un “aiuto” di 209 miliardi –. Alla fine è possibile che (purtroppo) il complesso processo di approvazione del RF si interrompa e che l’Italia rimanga completamente in panne rovinata dalla più grave crisi sanitaria ed economica della sua storia e da una Unione Europea bloccata dai Paesi dell’Est e dominata dai Paesi del Nord Europa.
Ancora una volta occorre ribadire un’ovvietà. Sarebbe scellerato affidare completamente gli interessi nazionali a istituzioni intergovernative che, come quelle europee, sono formate da Paesi con interessi divergenti e sono dominate dai Paesi più ricchi e potenti, i quali, ovviamente, nel nome dell’Europa unita (??) fanno i loro interessi e non quelli dell’Italia. Ancora una volta bisogna ribattere che è necessario che i governi italiani, a partire dall’attuale governo Conte, trovino soprattutto all’interno del loro Paese la forza e le risorse per uscire dalla crisi.
Siamo avviati su una strada pericolosissima che potrebbe – se non ci saranno svolte – portarci nel baratro finanziario. Mancano le molte decine di miliardi di euro indispensabili per rilanciare l’economia e siamo costretti a chiedere montagne di soldi ai mercati finanziari: il debito pubblico crescerà quest’anno fino al 160% circa del PIL e poi salirà ancora nei prossimi anni. Il debito di stato sta superando i 2.600 miliardi. In questa situazione il governo non può puntare tutto solamente sul Recovery Fund né tanto meno sul famigerato Meccanismo Europeo di Stabilità – il cosiddetto Fondo Salva (???) Stati, che ha già rovinato la Grecia -.
La BCE sta comprando il nostro deficit pubblico, ma non possiamo sperare che ci appoggerà per sempre. Già oggi la BCE comincia velatamente a dettare condizioni per l’acquisto del debito italiano. Secondo voci ufficiose raccolte dalla Reuters, la BCE di Christine Lagarde ha cominciato a invitare l’Italia a chiedere soldi al MES, al Fondo Ammazza Stati. Un fondo a guida tedesca il cui preambolo (Punto 5B e art. 3 comma 1), come ha illustrato Giampaolo Galli, alla Camera dei Deputati,, recita “il MES attua le proprie analisi e valutazione dal punto di vista di chi eroga prestiti”. Ovviamente, questo è solo il punto di vista di chi ha il coltello dalla parte del manico, non di chi ha bisogno di finanziare la sanità e l’economia.
Ci sono molti nel nord Europa che aspettano la crisi dell’Italia per commissariare lo stato italiano e liquidare le ricchezze del nostro Paese a loro favore. Occorre sempre ricordare che, nonostante gli ideali e gli afflati europeistici, il capitalismo non è un pranzo di gala ma è fondato sulla competizione e sulla subordinazione dei più forti ai più deboli.
Il governo italiano, invece di puntare solo sul Recovery Fund, dovrebbe sperimentare un’altra strada assai più efficace: può infatti emettere titoli-moneta complementari all’euro nel pieno rispetto delle regole dell’eurozona. Peccato che questa proposta sia messa all’angolo dal governo attuale, e che invece paradossalmente siano avanzati progetti analoghi dalla parte sovranista e di destra dello schieramento politico – come l’ala sovranista dei 5 Stelle vicini alla Lega e ovviamente la Lega di Claudio Borghi -. C’è una parte dello schieramento politico che vorrebbe introdurre una moneta nazionale alternativa all’euro (come per esempio la cosiddetta “moneta fiscale”) non solo per uscire dalla UE ma soprattutto per abbattere la democrazia parlamentare e instaurare un presidenzialismo alla Donald Trump.
Tuttavia, a parte le strumentalizzazioni politiche sovraniste, è interesse della nazione e dei politici e dei governi progressisti introdurre dei titoli fiscali che funzionino come moneta complementare (e non alternativa) all’euro per superare l’attuale drammatica cri
si senza attendere gli “aiuti” europei. Il sovranismo è contro la democrazia: ma è comunque indispensabile recuperare la sovranità democratica nazionale senza aspettare Berlino, Parigi o Amsterdam.
Se il RF verrà bloccato, l’Italia sarà nuda di fronte alla più grave economica della sua storia. La povertà dilaga con milioni di nuovi poveri, migliaia di piccole e medie aziende chiudono perché non trovano finanziamenti e credito sufficienti, la disoccupazione salirà alle stelle quando ad aprile scadrà il blocco dei licenziamenti. Si rischia l’esplosione sociale.
Il debito continua a crescere e quando il Covid smetterà di colpire, forse nella seconda metà del 2021, i mercati e gli stati forti della UE ci presenteranno il conto. Potremo resistere fino a quando la BCE coprirà i debiti degli stati dell’eurozona comprando gran parte dei titoli pubblici e abbassando i tassi di interesse. Ma poi il debito pubblico nazionale diventerà ingestibile. Saremo in balia dei mercati e dei Paesi più forti della UE, e saremo completamente dipendenti dalla BCE a guida francese. Il governo deve allora prevedere fin da ora soluzioni efficaci e di emergenza per reperire autonomamente le risorse monetarie necessarie per sfuggire dalla crisi, tamponare la disoccupazione dilagante e rilanciare la domanda e gli investimenti, a partire dagli investimenti pubblici.
Cancellare i debiti pubblici? La BCE potrebbe congelare i debiti europei
Alcune soluzioni sono state avanzate per superare la crisi economica provocata dal blocco produttivo causato dal Covid-19: per esempio il Presidente del Parlamento Europeo David Sassoli ha invocato la “cancellazione dei debiti”. Cancellazione dei debiti è un’espressione non tecnicamente corretta; però la proposta è nella sostanza giustissima: occorre che in qualche modo i debiti provocati da questa crisi sanitaria e dalle sue conseguenze vengano congelati. Sul piano tecnico la soluzione è semplice.
Basterebbe che la BCE congelasse i titoli di debito pubblico che ha in pancia per “cancellare” in un colpo solo circa il 20% del debito dello stato italiano. L’Osservatorio dei Conti Pubblici dell’Università Cattolica ci dice che nel 2020, è probabile che la quota di debito pubblico italiano acquistata dalla BCE ammonterà ad oltre 170 miliardi, una cifra sufficiente a coprire l’intero deficit di quest’anno.
A fine settembre, il valore dei titoli pubblici italiani detenuti dall’Eurosistema era di 506 miliardi, per il 90% in possesso della Banca d’Italia (456 miliardi) e per il restante 10% dalla BCE (50 miliardi). Dal momento che il debito pubblico italiano era pari a fine settembre a 2.582 miliardi, basterebbe che l’Eurosistema si impegnasse a rinnovare sempre gli acquisti di debito nazionale per congelare (o “cancellare”) un quinto circa del debito pubblico italiano. Questo vale per l’Italia: ma ovviamente la stessa operazione potrebbe essere fatta per gli altri Paesi dell’eurozona.
L’esempio della Gran Bretagna: Bank of England monetizza il debito pubblico
In Gran Bretagna, dove esiste la sovranità monetaria, il governo si è già accordato con la Bank of England che ha acquistato direttamente dal Tesoro miliardi di sterline per pagare la crisi del coronavirus. Il finanziamento del debito pubblico inglese ha così evitato le forche caudine dei mercati. La BoE ha monetizzato i debiti di stato stampando nuove sterline e contribuendo a salvare l’economia – aziende e famiglie – dal disastro totale.
Ma la BCE, secondo il Trattato di Maastricht, purtroppo non può mai monetizzare i debiti pubblici, neppure per sconfiggere la più drammatica crisi della storia europea da cent’anni a oggi. La BCE può solo finanziare le banche e mai direttamente gli stati. Del resto la Corte Costituzionale tedesca ha già dichiarato la sua opposizione al “finanziamento surrettizio” degli stati europei da parte della BCE. Il problema dei debiti, soprattutto in tempo di coronavirus, è però più politico che giuridico.
In base ai loro interessi nazionali, Germania, Francia e Paesi del nord Europa, non solo non vogliono mettere in comune i debiti europei – a parte la notevole eccezione del Recovery Fund – ma, terminata l’emergenza sanitaria, con ogni probabilità approfitteranno del cumulo insostenibile del debito pubblico italiano per “conquistare” la nostra economia. Fa gola soprattutto quella miniera d’oro che sono i risparmi degli italiani (quasi 1.700 miliardi depositati sui conti correnti). La ricchezza finanziaria degli italiani (circa 4.400 miliardi) e le banche nazionali costituiscono un boccone appetitoso per gli investitori esteri.
Il club delle nazioni ricche secondo il finanziere George Soros
Un’altra recente proposta per affrontare la crisi economica legata al Coronavirus è quella espressa recentemente dal noto finanziere George Soros che, in base alle clausole enhanced cooperation procedure previste dal Trattato di Lisbona, suggerisce di costituire un club avanzato e separato di nazioni dell’eurozona – possibilmente Germania, Francia, Italia, Spagna e altri – per evitare la costante opposizione dei Paesi dell’est a ogni forma di stretta cooperazione europea e di condivisione dei debiti. Per Soros, i Paesi di questo nuovo club dovrebbero mettere insieme un budget comune e raccogliere centinaia di miliardi sul mercato emettendo bond perpetui (bond che non vengono mai ripagati ma che fruttano ai possessori un interesse perpetuo). Ma anche questo progetto appare velleitario, perché ad opporsi sarebbero prevedibilmente proprio i Paesi ricchi che sono chiamati a partecipare al club, come per esempio la Germania e i Paesi del nord Europa, e che però non vogliono notoriamente condividere i debiti. Le soluzioni basate solo ed esclusivamente sull’Europa sono attualmente impraticabili o molto rischiose.
Occorre pensare a una moneta complementare all’euro ma dentro l’euro
Secondo Soros il Next Generation da 750 miliardi di euro, dopo la seconda ondata del coronavirus, non basterà più per risollevare l’economia europea. Occorreranno cifre più alte, che però sono impensabili per questa UE. Ed è anche praticamente impossibile che la BCE monetizzi i debiti dei 19 paesi dell’eurozona, come ha fatto invece la BoE. Nell’eurozona l’unica possibilità per i governi nazionali di superare l’attuale orribile crisi è di emettere – nel quadro e nel rispetto delle regole vigenti nell’eurozona – dei titoli di stato che fungano da moneta complementare all’euro e che non diano luogo ad aumento dei debiti, come i .
Non si può aspettare sempre e solo l’Europa. Prima che l’Italia precipiti irreversibilmente nel caos occorre una svolta per immettere ingenti risorse monetarie nell’economia e rilanciare al più presto gli investimenti, i consumi, la spesa pubblica.
Si dovrebbe allora prevedere che i gover
ni dell’eurozona – a partire da quello italiano – emettano subito e distribuiscano direttamente a famiglie, imprese e enti pubblici Titoli di Sconto Fiscale, TSF, per qualche decina di miliardi di euro in tre anni – almeno il 4-5% dei PIL nazionali -. Questi titoli pubblici daranno diritto a una riduzione fiscale solo dopo tre anni dall’emissione, in modo da non creare subito deficit pubblico[1]. Tuttavia i TSF, come tutte le obbligazioni pubbliche, saranno titoli negoziabili e immediatamente convertibili in euro nel mercato finanziario secondario. Ovviamente tutti i soggetti assegnatari – famiglie, imprese ed enti pubblici – saranno felici di ricevere, in aggiunta ai loro normali redditi, titoli di stato che possano essere subito convertiti in euro e che sono liberi da debito.
Questi titoli debt-free funzionerebbero da “quasi-moneta” (in gergo near-money), cioè sarebbero immediatamente commutabili dai possessori in soldi veri, in euro da utilizzare subito, da spendere innanzitutto per l’emergenza sanitaria e poi per aumentare i consumi e gli investimenti. In pratica i cittadini e le imprese, andando presso un qualsiasi sportello bancario o via Internet, potranno facilmente trasformare i TSF in euro per fare la spesa o per pagare i dipendenti e i fornitori. I governi nazionali potrebbero facilmente decidere di emettere la prima tranche di Titoli di Sconto Fiscale nel giro di una settimana.
Lo shock monetario-fiscale legato all’emissione dei titoli fiscali renderà nuovamente vitale le economie nazionali e quindi tutta l’area euro. Fin dai primi anni dall’emissione il PIL reale e nominale potrebbe crescere in maniera sostenuta, intorno al 3%. Le emissioni di TSF potrebbero essere modulate e calibrate nel tempo in modo da assicurare alti livelli di occupazione senza però produrre una inflazione superiore al 3-4% né scompensi nei saldi commerciali esteri.
I Titoli di Sconto Fiscale rispettano completamente le regole dell’euro perché non sono assolutamente una moneta parallela ma sono semplicemente titoli di stato. Inoltre la manovra TSF non aumenta il deficit pubblico perché lo stato italiano non sborsa soldi all’emissione, perché non chiede assolutamente nulla al mercato finanziario primario e non paga interessi sui TSF.
Infine, e soprattutto, alla scadenza dei TSF, cioè al quarto anno dall’emissione, è prevedibile che la crescita del PIL – dovuta al moltiplicatore del reddito e al delta di inflazione provocata dal forte aumento della domanda – sarà tale che il gettito fiscale coprirà il valore nominale di emissione dei TSF creati tre anni prima. In effetti, in base ai diversi scenari e circostanze, al quarto anno dall’emissione potrebbe verificarsi un surplus di bilancio o invece, nel peggiore dei casi, un leggero deficit.
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