Il “popolo” è il soggetto sociale e politico più evocato degli ultimi anni. Tutti ne parlano, tutti pretendono di rappresentarlo, ma in pochi vanno davvero a vedere chi sono, come vivono, che desideri e aspirazioni, paure ed emozioni hanno le persone in carne e ossa che lo compongono. Da qui, l’idea di ripartire da un’“inchiesta sul popolo” che si richiama a una grande tradizione, da Karl Marx a Danilo Montaldi. Questi i primi risultati.
Pur essendo attorno al concetto di popolo che la politica democratica si costituisce, la sua definizione è per natura sfuggente. Che tipo di entità è il popolo? Diversi e variegati sono i movimenti nel mondo contemporaneo che al popolo vogliono ritornare, tentando di darvi una veste nuova o rinnovata. Essa muta a seconda della dimensione del conflitto attorno alla quale il popolo si costituisce, come classe, etnia, o addirittura come modalità morale specifica di pensiero e azione politica. Ma in tempi di grandi trasformazioni sociali ed economiche è alle cose stesse che bisogna ritornare, onde evitare cortocircuiti ideologici, preambolo dell’impasse politica. Piuttosto che ad un improbabile “essenza” popolare, ogni progetto politico che voglia parlare al e del popolo deve conoscerne le condizioni materiali, rappresentazioni ed aspirazioni.
Da questo interrogativo è partito il Cantiere delle idee che si è radunato a Firenze il 19 maggio scorso. Nato spontaneamente circa un anno fa dall’iniziativa di ricercatori ed attivisti di varia estrazione geografica, generazionale e appartenenti a esperienze e culture politiche eterogenee, il Cantiere ha voluto indagare le condizioni e rappresentazioni delle classi popolari partendo dal più diretto e ricco degli strumenti d’analisi: l’inchiesta.
Unendo competenze scientifiche ed interrogativi di natura politica, il Cantiere ha intervistato circa 60 cittadini dei quartieri popolari di quattro città d’Italia (Milano, Firenze, Roma, Cosenza). Partendo da domande sulle condizioni di vita di tutti i giorni, l’inchiesta ha indagato anche le percezioni sociali e politiche diffuse dei cittadini per poi arrivare infine a chiedere loro considerazioni più generali sullo stato della politica.
Pur essendo la prima tappa di un percorso nato spontaneamente ma ora destinato ad estendersi a nuove realtà in tutta Italia, il materiale emerso è di assoluto rilievo sociale e politico, tale da giustificare un’estensione di ricerca.
Innanzitutto, è l’assenza dello Stato ad aver trasformato quartieri geograficamente periferici in periferie politiche, come dice Luca, giovane di un quartiere popolare di Firenze: “Lo Stato, ma anche il comune, non ci considerano…siamo la terra di nessuno.” È assieme allo smantellamento dei servizi pubblici che si diffonde dunque una generale percezione di isolamento, di essere intrappolati in una realtà che, abbandonata a se stessa, non offre alcuna prospettiva di riscatto o autorealizzazione. Anche solo l’assenza di un servizio semplice ma cruciale come il trasporto pubblico urbano contribuisce a sancire tale realtà. Mobilità sociale e mobilità sul territorio sono così due aspetti di una stessa condizione, quella di vivere in una società bloccata.
Nemmeno il lavoro è più in grado di garantire una sicurezza di vita. La precarietà individuale lavorativa, da economica è sempre immediatamente sociale. Si lavora spesso in maniera travagliata. Ma laddove il travaglio sarebbe già insito nella dimensione del lavoro stesso – sin nella sua etimologia – dalle interviste emerge come esso sia fonte di tribolazioni enfatizzate ulteriormente da un contesto radicale d’incertezza. Il lavoro così non libera dagli stenti, anzi, ne produce di nuovi. Da Milano a Cosenza si lavora male, in maniera precaria e inefficiente, senza riuscire a garantire a sé e ai propri affetti più diretti una vita dignitosa.
È nell’ambito di tale contesto di instabilità che va letta allora la questione dell’insicurezza o “degrado” comunemente percepito che emerge con ricorrenza nelle interviste. La sensazione di non riuscire a farcela, di lottare in solitudine col proprio destino è parte di un senso di insicurezza individuale che poi si estende ai luoghi pubblici.
L’assenza delle istituzioni pubbliche, il taglio ai servizi pubblici più diretti rende abbandonati e inabitabili i luoghi e gli spazi dell’aggregazione, rendendo gli ambienti pubblici estranei, enfatizzando una difficoltà del vivere comune che si esprime così anche in forme di intolleranza nei confronti del prossimo. Nelle parole di una cittadina della periferia romana: “I servizi sono diminuiti, certo anche per mancanza di soldi. Ma chi governa dovrebbe fare di più. Se gli stranieri sono di più ci dovrebbero essere più servizi. Invece tagliano”.
L’erosione di una dimensione di comunità più prossima diviene allora intollerabile se, in tale scenario, si entra a contatto con una diversità culturale non accompagnata da mediazioni. Gli immigrati sono così la personificazione di questo disagio prodotto da una vita lavorativa fatta di stenti unita ad un sentimento di estraneità ai luoghi pubblici. Se inoltre la gestione pubblica dell’accoglienza viene ridotta ad una questione burocratica o, peggio, assimilata ad attività affaristiche, gli immigrati diventano il facile bersaglio di critiche e pregiudizi riguardanti la loro posizione di “privilegiati”. Dalle parole degli intervistati però non emergono elementi che facciano riferimento ad identità nazionaliste o sentimenti razzisti.
Dice un disoccupato residente in un quartiere popolare di Cosenza: “[Gli immigrati] vanno a fare dei lavori che vengono pagati poco, ma che comunque potresti andare tu al posto loro. Cercano un futuro che non potranno mai avere qui, perché già noi cittadini… chi è disoccupato come me… non riesce a trovarlo. Però non sono razzista”.
Crisi del lavoro, crisi dell’abitare, estraneità agli spazi ed alle persone sono legati alla percezione comune di una radicale assenza della politica. La politica ha smesso di essere tale e, priva di una prospettiva, si è consegnata ai grandi poteri economici. Dice un residente di Torpignattara, a Roma: “Comanda chi può pagare la campagna elettorale dei partiti. I poteri economici. Si guarda solo alle cose immediate, che portano vantaggio e favoriscono gli interessi ristretti e brevi”. O Felice, giovane di Cosenza: “Non c’è nessuno che viene eletto e fa qualcosa per il popolo. Noi dobbiamo rispettare tantissime leggi vergognose mentre chi sta in Parlamento fa come vuole. Noi lavoriamo per mantenere i loro privilegi le loro schifezze”.
Da Nord a Sud, al di là delle rispettive differenze geografiche o economiche, uno stesso scenario d’incertezza, privo di un orizzonte di senso collettivo accomuna i ceti popolari, di ogni età: “Il futuro lo guardo a breve respiro, non vado troppo in là, penso ad adesso”, dice un giovane milanese. O, quando c’è, questo orizzonte appare semmai fosco: “Ho paura per il futuro mio e di mio figlio”, racconta una madre di Cosenza.
Il valore delle interviste, atte a cogliere l’esperienza di residenti di quartieri delle periferie italiane nella loro ricchezza più immediata e concreta, sta nel metter in luce le grandi tendenze del nostro tempo dietro la razionalità del senso comune. In primis, l’assenza di una prospettiva che possa definirsi collettiva prima che politica. La politica risulta assente, impotente di fronte a forze irrefrenabili come l’insondabile potere finanziario. Avendo rinunciato alle idee per piegarsi agli interessi, assumendo il mercato come orizzonte e paradigma della propria azione, è stata la politica stessa ad essersi relegata ad un ruolo di irrilevanza. Sancendo così l’egemonia di quell’ideologia neoliberista del «there’s no such a thing as society».
È Polanyi a ricordarci però che quando la sfera della mercificazione si estende sino a travolgere le relazioni sociali e le sue istituzioni, quando l’espansione della razionalità strumentale di mercato diventa colonizzazione delle forme sociali e di vita che al mercato non possono essere ridotte, è naturale il verificarsi di un contro-movimento, la cui direzione e le cui sembianze sono però incerte.
Quando grandi trasformazioni sociali avvengono è naturale smarrirsi. Ciò avviene nella vita di tutti i giorni, nelle forme del pensiero come nelle forme della politica. Tornare alle cose, rinnovare gli strumenti con cui si legge la realtà è allora necessario. Questo è il ruolo scientifico e politico dell’inchiesta, che da Karl Marx a Danilo Montaldi arriva ai giorni nostri. Non è un caso che di popolo, classi popolari, delle loro condizioni materiali e rappresentazioni sociali si torni a parlare a un decennio da una crisi che ha sciolto e rimescolato identità collettive e mostrato le debolezze delle istituzioni democratiche di fronte a quello che appare un irrefrenabile potere della finanza nella sua estensione globale. Mettendo nettamente in luce i limiti di una globalizzazione che ha aperto ai mercati ma non ai diritti.
Se quindi la superiorità normativa della politica democratica rispetto a qualsiasi altro regime sta nella sua capacità di limitare i poteri, nonché nella capacità di mettere costantemente in questione le condizioni esistenti rinnovando opportunità reali e orizzonti di speranza ai propri cittadini senza riguardo alla loro rispettiva estrazione, è da questo che deve ripartire oggi un progetto politico che si ponga obiettivi democratici di giustizia sociale, in Italia, in Europa e nel mondo.
(4 giugno 2018)
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