Quale sinistra?
Michele Martelli
Da almeno un trentennio, dalla caduta del muro di Berlino e dell’Urss, in Italia si discute di destra e di sinistra, tanto che il Pci, dalla Bolognina a oggi, dopo la travagliata metamorfosi in Pds e poi in Ds, nel 2008 si è infine «americanizzato», mutandosi in Pd senza «s». Categorie politiche invecchiate, giurassiche, da seppellire, oppure tuttora valide? Ma se non più valide, con che sostituirle? Basta dire con Grillo e i 5s di non essere né di destra né di sinistra, e che importante è «fare le cose giuste»? Ma «giuste» in che senso, per chi e secondo chi? Domande che ripropongono il vecchio dilemma destra-sinistra.
Viviamo, si dice, in un’epoca post-ideologica. Ma come mai, a dispetto di ogni retorica post-ideologica, in Europa la destra che da alcuni anni irresistibilmente avanza a ondate alterne continua orgogliosamente a dirsi tale? Al contrario, a non saper più chi e che cos’è sembra essere è solo la sinistra, che arretra quasi ovunque paurosamente, dando l’impressione dell’estinzione.
Ma che cos’è destra e che cos’è sinistra (Giorgio Gaber)? Partiti, politici, intellettuali, gruppi e movimenti sembrano fluttuare allegramente da una cosiddetta destra a una cosiddetta sinistra e viceversa (di destra il M5s dimaiano del Conte 1, di sinistra quello dimaiano del Conte 2; di «sinistra» [?!] il Pd pre-renziano dell’austerity e di destra quello renzizzato del jobs act?), mutando colore come «lepri bianche» (lepus timidus, nella terminologia degli zoologi) secondo la stagione e le convenienze. Grande è la confusione sotto il cielo, direbbe Mao Zedong (e Massimo Dalema!). Nel difficile tentativo di trovare comunque qualche criterio di orientamento, e limitandomi all’Italia e a qualche generale e necessario riferimento storico, cerco di rispondere in 7 punti alla domanda «Quale sinistra?», a partire dalla questione del partito.
1) Quale modello di partito? In via negativa, bisogna escludere: a) innanzitutto, mi pare ovvio, il vecchio modello del Partito-Unico-che-sa-tutto-e-che-ha-sempre-ragione (= il pugno di onnipotenti onniscienti autodirigenti, dove spesso, particolarmente oggi in Italia, il numero degli iscritti si riduce quasi a uno, il segretario generale)[1], tuttora causa delle interminabili compulsive scissioni a catena nella sinistra-sinistra nostrana dei partitini dello 0,5% (da tempo ho perso il conto dei tanti partitucoli comunisti esistenti oggi in Italia, che nascono e rinascono dalle loro ceneri come la proverbiale arabe fenice), inguaribilmente assatanati, sembra, da soggettivismo estremo di matrice insieme bordighiana e stirneriana;
b) il «Partito leggero» dalemiano: un mero Comitato elettorale oligarchico e autoreferenziale, che si colloca sui piani alti del potere, che si limita sostanzialmente ai salotti televisivi, senza radici sociali e popolari (il Pds, e poi Ds, non ha smantellato e azzerato tutti i legami di massa del Pci: case del popolo, sezioni di base, giornali, riviste, case editrici, ecc.?);
c) infine il modello populistico di partito plebiscitario dell’«uomo solo al comando», che con le masse ha un rapporto strumentale e demagogico, rafforzato dalle nuove tecniche di comunicazione di massa, ma buono in generale non per la sinistra, bensì per la destra, da cui però la sinistra è talvolta tentata, in un delirio di autodisfacimento (chi non ricorda la Rc ipnotizzata dalla leadership carismatica di Bertinotti patinato gladiatore da talk-show?).
Si tratta di tre modelli di partito, in un modo o nell’altro, irricevibili, o perché iper-dogmatici e anacronistici (il primo modello: già sconfitto dalla storia), o perché prodotti dalla trasmigrazione politica armi e bagaglio dei ceti dirigenti di sinistra dal comunismo al neoliberismo (il secondo: non a caso, a passaggio concluso, il Pds perde la «s» = sinistra; e il Psi già craxianizzato, cioè geneticamente modificato, si dissolve con Tangentopoli, e quel poco o niente che ne resta se lo ingoia da Forza Italia, il partito-azienda del Caimano) o perché aclassisti (il terzo: il «popolo» = entità mitica, omogenea, indifferenziata, oppure «moltitudine» atomizzata, senza classi sociali e antagonismi di classe, in ogni caso modello adatto più a ideologie e politiche di destra che di sinistra).
Una sinistra odierna non può essere né monopartitica né oligarchica né populista. Tenendo conto della complessa articolazione dell’odierna working class (operai di fabbrica, nuovi tipi di lavoratori, ceti medio-bassi «proletarizzati», precari e disoccupati in crescendo: tutti fenomeni prodotti dal predominio della «mega-macchina mondiale del finanzcapitalismo»[2]), e che da essa provengono domande e richieste insoddisfatte molteplici, particolaristiche e talvolta contraddittorie (penso ad alcuni validi spunti di Laclau)[3], – ne deriva che la sinistra oggi non può che essere nel contempo una e plurale (vedremo come).
2) Ambientalismo. Le problematiche ecologiche, sempre più pressanti a livello globale, oggi estendono ulteriormente il concetto di sfruttati o subalterni, oltre la classe operaia industriale e le nuove fasce di lavoratori. Le drammatiche conseguenze causate storicamente dall’imperialismo in Asia, Africa e America latina, tuttora aggravate da devastanti guerre neocoloniali o intestine (conflitti interstatali, civili, tribali), oggi si sommano e moltiplicano con quelle indotte dall’inquinamento industrial-capitalistico globale, che rischia di distruggere l’abitabilità dell’intero pianeta. A essere colpiti, sono in primo luogo e soprattutto i paesi poveri (saccheggio delle risorse naturali, desertificazione, malattie, fame e sete), e i più poveri dei paesi poveri, che, alla disperata ricerca di mezzi di sopravvivenza, migrano a ondate nelle regioni più sviluppate dell’Occidente.
L’inquinamento finisce così per creare, per così dire, un «nuovo proletariato globale», allargato alle vittime dei disastri ecologici, originati, direttamente o indirettamente, dalla spietata logica del profitto capitalistico. Sicché si può affermare che oggi «Marx vive», o rivive, non solo «a Calcutta»[4], cioè nei paesi poveri o emergenti di Asia, Africa e America latina, dove il capitale delocalizza perché attratto da bassi salari e brutali condizioni di lavoro, ma anche nelle nostre metropoli, città e campagne, ovunque ci sono lavoratori migranti supersfruttati, sottopagati, schiavizzati. Una nuova sinistra non può quindi non essere anche ecologista.
3) Socialismo si dice in molti modi. Se si assumono i punti 1) e 2), si può ipotizzare che oggi Marx ed Engels modificherebbero probabilmente la Terza parte del Manifesto del partito comunista del 1848, dove, ritenendo esclusiva ed esplosiva soltanto la contraddizione tra capitalisti e operai, giudicavano sì reazionarie, piccolo-borghesi, utopistiche o filantropiche le varie forme di socialismo dell’epoca, ma ne valorizzavano anche gli aspetti positivi di critica del capitalismo. E perciò, nella Quarta parte, auspicavano e proponevano politiche nazionali di alleanze tra i comunisti e gli altri «partiti di opposizione»[5]. Le proposte antidogmatiche e antisettarie di Marx verso gli altri socialismi del suo tempo sono quindi
un indiretto stimolo alle varie anime della Sinistra odierna a unirsi, non a dividersi, valorizzando le somiglianze, non le differenze.
Per non dire della Comune di Parigi del 1870, promossa e diretta dai blanquisti, non da seguaci di Marx, e tuttavia esaltata da Marx per aver scoperto uno Stato e una società di nuovo tipo: «Parigi operaia, con la sua Comune, – scriveva – sarà celebrata in eterno, come l’araldo glorioso di una nuova società»[6]. O dei mir russi, anch’essi, come noto, studiati dall’ultimo Marx come il germe di una possibile forma di transizione alla nuova società futura. Tanto più quest’apertura vale oggi, che assistiamo, come già detto, a un inopinabile allargamento del concetto di sfruttati. E che siamo inoltre indotti dal bilancio storico del Novecento a ripensare criticamente la rivoluzione in termini di pacifismo e riformismo.
4) Egemonia e dittatura. A gettar luce sui punti precedenti, interviene la nuova teoria dello Stato formulata da Gramsci nei Quaderni del carcere. Se Marx e Lenin vedevano lo Stato prevalentemente come dittatura coercitiva di classe[7], Gramsci concepisce lo Stato, ogni Stato, come «egemonia+dittatura», «forza e consenso», «coercizione e persuasione»[8]. Dove la novità è l’introduzione dell’«apparato egemonico» nel concetto tradizionale di Stato = «apparato coercitivo» (forze armate, polizia, carceri, ecc.) e l’equivalenza del primo con la rete delle istituzioni culturali, religiose e morali (chiese, scuole, università, giornali, editoria, mass-media, ecc. preposte alla formazione e organizzazione del consenso di massa (Gramsci, ispirandosi alla Prima guerra mondiale, le chiamava metaforicamente «trincee o casematte»). Se le classi dominanti organizzano il loro apparto egemonico al fine di giustificare i rapporti economici e sociali di produzione esistenti, le forze politiche, partitiche e sociali, che tali rapporti mirano a cambiare e rovesciare, non possono non costruirsi un proprio apparato egemonico, infiltrandosi, se possibile, anche in quello avversario. Dunque, la lotta per l’egemonia precede inevitabilmente quella per la conquista dello Stato in senso stretto, che è l’ultima «trincea» da occupare. L’autore dei Quaderni era tuttavia conscio che tale teoria era più facile per le forze antisistema applicarla all’Occidente, cioè ai paesi liberal-democratici, industrialmente e culturalmente sviluppati, che all’Oriente, cioè ai paesi con istituzioni politiche autoritarie, industrialmente e culturalmente arretrati (come la Russia zarista).
Con Gramsci, oltre Gramsci. Se i sistemi politici possono oscillare da un massimo di «Stato-egemonia» a un minimo di «Stato-coercizione», è chiaro che al primo tipo si avvicinano le democrazie, al secondo gli Stati autoritari. Segue che ogni Stato è tanto più democratico: a) quanto più il suo apparato egemonico è ricco e articolato; b) quanto più quest’ultimo è auto-regolato, non etero-diretto, non chiuso, blindato, ma agorà reale e virtuale di forze politiche, sociali e culturali diverse e antagoniste, dove la formazione del consenso sia il frutto della libertà del dibattito e del dissenso, non di imposizioni autoritarie e conformistiche; c) quanto più, infine, le sue istituzioni sono capaci di coniugare la «democrazia formale, procedurale» (una testa un voto, divisione dei poteri, ecc.) con la «democrazia sociale, sostanziale» (diritto al lavoro, alla casa, alla salute, all’istruzione, al benessere, al tempo libero ecc. per tutti, soprattutto per i più deboli).
Non c’è dubbio che questo quadro oggi è compromesso dal predominio onnipervasivo, in Occidente ma non solo, del «pensiero unico» neoliberista, a guardia del capitalismo finanziario globale. Tanto da frustrare in partenza, sembrerebbe, ogni possibile azione in controtendenza della sinistra. Ma hic Rhodus hic salta. Per la sinistra, – che ha deposto da tempo l’idea di «fare come in Russia»: «gli avvenimenti del 1917», scriveva già Gramsci, «sono stati l’ultimo fatto del genere nella storia della politica», dunque non replicabile, almeno in Occidente[9], – l’alternativa alla democrazia è la democrazia stessa, magari potenziando la «democrazia rappresentativa e parlamentare», oltre che con i tradizionali organismi intermedi (partiti, sindacati, ecc.), anche con forme e tecniche di consultazione, decisione e controllo dal basso come quelle oggi suggerite dalle varie teorie di «democrazia diretta», «partecipativa», «deliberativa» (da vedere non come antagoniste o alternative, – come accade al M5s, – ma complementari alla prima)[10].
5) Libertà, eguaglianza, diseguaglianza. Libertà e diseguaglianza sono i principi classisti di destra, libertà ed eguaglianza quelli universalisti di sinistra (fermo restando la loro natura relativa e non assoluta)[11]. Ma destra e sinistra hanno un diverso concetto di libertà. Per la destra, la libertà è appannaggio di pochi, da cui tutti gli altri sono esclusi. Ne deriva che tanto più si è liberi quanto più si è diseguali, e che, all’eccesso, i pochi tanto più sono liberi, quanto più sono pochi. Il metro della libertà diseguale, cioè del privilegio, è dato dalla ricchezza e dal potere: più si è ricchi e potenti, più si è liberi. Ancora meglio se ricchezza e potere sono riuniti in una sola persona, per es. i Bush, Clinton, Trump e Berlusconi (tutti ridicoli aspiranti successori di Re Creso o di Re Sole).
Dunque la libertà come funzione della diseguaglianza. È l’ideologia oggi predominante dell’«individualismo proprietario» (per lady Tatcher «la società non esiste, esiste solo l’individuo») e del mercatismo neoliberista (un peana al grande Capitale). In un grado più intenso e pericoloso, è anche l’ideologia del suprematismo classista, razzista e xenofobo oggi di ritorno ovunque in Europa, che delle democrazie mira a stravolgere regole, spazi, strutture e finalità (insignificante e casuale, mi chiedo, il raffinato eloquio da improvvisato virologo di un Presidente di regione che ci informa che «i cinesi mangiano topi vivi», o la richiesta dittatoriale di «pieni poteri» da parte dell’ex Ministro del Papeete e dei Porti chiusi?); vale infine, per la destra, l’indifferenza nei confronti del saccheggio dell’eco-sistema, o la sua giustificazione in nome dello sviluppismo capitalistico.
Al contrario, per la sinistra la libertà è il polo complementare, non antitetico, dell’eguaglianza, tanto che da qualche tempo si è coniato il termine composito di «egual-libertà»: si è liberi solo se si è eguali (relativamente all’eguaglianza uti genus, non uti singuli, e sul terreno giuridico, economico e sociale, e non su quello delle scelte individuali esistenziali); se per es., welfare e diritti sono eguali per tutti, nel rispetto delle differenze individuali, senza preconcette discriminazioni di censo sesso età colore cultura; se c’è redistribuzione della ricchezza sociale a favore dei più deboli; se c’è piena cittadinanza del diverso, del dis
sidente, dell’eretico[12]; cioè tanto più si è liberi, quanto più la democrazia riduce il tasso di diseguaglianza e accresce quello di eguaglianza (vedi Costituzione italiana, art. 3); il tutto nel quadro dell’equilibrio ecologico uomo-natura.
La nuova sinistra odierna, nei suoi princìpi ispiratori, regolativi, idealtipici, dunque non può che essere insieme egualitaria e libertaria, «egual-libertaria». Superfluo dire che sinistra e destra estreme, la sinistra-sinistra e la destra-destra, che sacrificano la libertà l’una in nome di un impossibile egualitarismo assoluto, l’altra di un altrettanto impossibile inegualitarismo assoluto, sono forme opposte, nichilistiche, etero- e auto-distruttive, del delirio di onnipotenza distopica: l’esito comune, seppur di segno ideologico opposto, è la società e lo Stato totalitario, come il Novecento, «il Secolo del Male»[13], ha ampiamente dimostrato.
6) Destra, sinistra, centro. Posta la dicotomia destra-sinistra[14], che esclude gli estremi, in quanto irriducibilmente antidemocratici, il centro scompare, oppure è un Giano bifronte, che può essere o apparire di destra o di sinistra secondo le politiche adottate (vedi, in qualche modo, la complessa storia novecentesca della Dc, o quella recente e altalenante del M5s); ne consegue anche che parlare di destra «sociale» è demagogia, e di sinistra «liberista» è mistificazione (é per questo che il D’Alema blairiano e piddista non ha mai detto «una parola di sinistra»). Ma l’ecologismo? A parte la destra ottusamente antiecologista alla Trump – il quale però, cosa purtroppo tutt’altro che trascurabile, è il capo della maggiore potenza militare, nucleare, finanziaria, tecnologica e industriale del mondo, cioè della potenza che è la principale causa dell’inquinamento ambientale globale, – oggi dell’ecologismo si danno tre versioni diverse:
a) la versione destrorsa dei vertici politici ed economici mondiali di un «impossibile capitalismo verde»[15] (accordi di Kyoto e Parigi: di buone intenzioni è lastricato l’inferno!), palesemente contraddittoria: se la causa della crisi ecologica è il capitalismo, con la sua corsa irrefrenabile al profitto e all’accumulazione, non si può rimuovere l’effetto senza rimuovere la causa (il Green New Deal delle corporations del capitalismo finanziario odierno non può che produrre nuovi squilibri ambientali, ancor più trasformando ogni risorsa della Terra in valore di scambio, e quindi in più denaro, in un vorticoso processo senza fine o la cui fine è la catastrofe planetaria);
b) quella anti-industralista[16] (propria dei teorici della «decrescita felice» e della maggior parte dei Verdi europei) dichiaratamente aldilà di destra e sinistra, che individua il male nel dogma moderno della crescita senza fine, del consumismo compulsivo e della sottomissione tecnologica della natura all’uomo: ma è difficile negare che tutto ciò sia intrinseco al «modo di produzione capitalistico»; dunque, si torna al punto precedente;
c) la versione infine della sinistra anticapitalista, che, nelle sue varie correnti, lega la contraddizione tra capitale e lavoro a quella tra capitale e natura, nella lotta per una nuova società all’insegna dell’«eco-socialismo»[17]: mi sembra l’unica versione accettabile per ogni progressista.
7) Quale Sinistra? Da quanto detto, emerge l’idea di una Sinistra da intendere come non un monolite politico-organizzativo, mono-partitico, ma un «campo» di organizzazioni, piattaforme, associazioni, movimenti spontanei (dalle Sardine ai FridaysForFuture), portatori di visioni e richieste diverse, più o meno particolari o generali, ma capaci anche di coordinarsi in un progetto politico comune, e liberandosi finalmente dal masochismo micro-scissionistico: «we can», sol che ognuno capisse che, se si è di sinistra, a dispetto della propria vuota illusoria tautologica autoidentità, le similitudini prevalgono necessariamente sulle differenze[18]. Una Sinistra che sia perciò nel contempo una e plurale (l’uno implica il due e il due l’uno, lo suggerisce la logica): plurale nelle differenze, una sul sistema di valori e sul progetto politico, alternativo alla destra.
E che dunque innanzitutto si collochi saldamente sul terreno della democrazia, come sua forza attiva e propulsiva contro la destra neoliberista (di cui il sovranismo populista, a me pare, non è che la più truce mascheratura politica), per allargarne, non per restringerne spazi strutture e regole (più democrazia = più libertà e più emancipazione, di tutti e di ciascuno); in questo senso, seppure in una lotta oggi terribilmente impari, da Davide contro Golia (le lobby dei «padroni del mondo», dalla Troika alle grandi corporations transnazionali) deve tuttavia cercare di strappare sempre più «trincee» e «casematte» egemoniche possibili a vantaggio delle classi popolari e subalterne, concentrandosi su alcuni punti teorico-programmatici qualificanti (non è poi difficile, in parte sono già contenuti nella nostra Carta costituzionale), tra cui:
a) la difesa della dignità del lavoro (Cost., art. 1): sia degli operai di fabbrica, la cui posizione rimane al centro dell’antagonismo di classe (più salario = meno profitto e viceversa), sia delle altre nuove e composite tipologie di lavoratori oggi, dai servizi all’amministrazione pubblica al consumo, caratterizzate dal «precariato»; b) la lotta alle sempre più scandalose diseguaglianze sociali, adottando la fiscalità progressiva, la subordinazione delle imprese pubbliche e private a finalità sociali – Cost., art. 41 –, la tutela sociale dei lavoratori e dei ceti medio-bassi, e ccosì via; c) la progressiva riconversione in direzione «eco-socialista» dell’economia (energie rinnovabili, difesa della biodiversità, consumo critico, nuovi stili di vita, ecc.).
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[2] L. Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino, 2011; Id., La lotta di classe dopo la lotta di classe, intervista a cura di P. Borgna, Laterza, Roma-Bari, 2012.
[3] E. Laclau, La ragione populista, a cura di D. Tarizzo, Laterza, Roma-Bari, 2019.
[4] L. Canfora, Marx vive a Calcutta, Dedalo, Bari, 1992.
[5] K.Marx e F. Engels, Manifesto del partito comunista, Einaudi, Torino, 2014, pp. 33-50.
[6] K. Marx, La guerra civile in Francia, in Marx-Engels, Opere complete, Editori Riuniti, Roma, 1966, p. 932.
[7] V. I. Lenin, Stato e rivoluzione, in Id., Opere scelte, Editori Riuniti, Roma, 1965, pp. 847-948.
[8] A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino, 1975, vol. II, pp. 763-64.
[9] Ivi, vol III, p. 1616.
[10] Per una breve ma lucida analisi critica di questi temi, in relazione al «direttismo» e «plebiscitarismo» del M5s e dei suoi due fondatori, cfr. A. Floridia e Rinaldo Vignati, Deliberativa, diretta o partecipativa? Le sfide del Movimento 5 stelle alla democrazia rappresentativa, in https://journals.openedition.org/qds/369#tocto1n1 (l’articolo contiene anche un’ampia bibliografia sull’argomento).
[11] N. Bobbio, Eguaglianza e libertà, Einaudi, Torino,1995.
[12] P. Flores d’Arcais, Il sovrano e il dissidente. La democrazia presa sul serio, Garzanti, Milano, 2004.
[13] M. Martelli, Il Secolo del Male. Riflessioni sul Novecento, manifestolibri, Roma, 2004.
[14] N. Bobbio, Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica, Donzelli, Roma, 1994.
[15] D. Tanuro, L’impossibile capitalismo verde. Il riscaldamento climatico e le ragioni dell’eco-socialismo, Alegre, Roma 2011; M. Zerbino, Il “capitalismo verde” alla prova dei fatti, in .
[16] M. Pallante, Destra e sinistra addio. Per una nuova declinazione dell’uguaglianza, Lindau, Torino, 2015.
[17] Mi limito a citare sul tema l’opera pioneristica di J. O’Connor, L’eco-marxismo. Introduzione ad una teoria, Datanews, Roma, 1989; per un aggiornamento sul dibattito sull’eco-socialismo, cfr. l’intervista online a M. Löwy, https://antoniomoscato.altervista.org/index.php?option=com_content&view=article&id=2798:loewy-verso-un-eco-suicidio&catid=20:ipocrisie-e-dimenticanze&Itemid=31.
[18] F. Remotti, Somiglianze. Una via per la convivenza, Laterza, Roma-Bari, 2019.
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